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Comunicazione Filosofica n. 10  maggio 2002

 

DALLA CENTRALITÀ DEL TESTO

ALLA CENTRALITÀ DEL METODO

CRITICO-ARGOMENTATIVO.

 

Una proposta di educazione al ragionamento

in una società democratica.

 

di Pietro Alotto e Roberto Trolli[i]

 

 

***

 

 

 Negli ultimi anni c’è stato un improvviso rigurgito di interesse per le funzioni della democrazia…. È come se, una volta raggiunta la prima tappa del nostro viaggio con l'istituzione della democrazia, dovessimo impegnarci per scoprire come la democrazia possa funzionare al meglio. Molto dipende dagli stessi cittadini. I cittadini di una democrazia dovrebbero impegnarsi nel pensiero... Dovrebbero essere riflessivi, introspettivi, responsabili, ragionevoli, collaborativi, cooperativi... Alcune - o molte - di queste qualità potrebbero essere rinforzate mentre i futuri cittadini sono ancora a scuola... Se solo riconoscessimo che dobbiamo rinforzare le capacità riflessive di questi studenti, invece di aumentare a dismisura i contenuti di conoscenza da trasmettere loro o invece di credere di aver risolto ogni problema attraverso l’alfabetizzazione informatica.... Ecco, l’"educazione al pensare", la promozione di un "pensiero di alto livello" dovrebbero essere un obiettivo primario per l’educazione nel ventunesimo secolo...

                                                                                                                                             M. Lipman

 

Poche persone si preoccupano di studiare logica, perché ciascuno ritiene di essere abbastanza bravo nell’arte di ragionare. Io però osservo che questa soddisfazione si limita al proprio personale raziocinio, e non si estende invece a quello degli altri uomini.

Noi giungiamo al pieno possesso delle nostre capacità di operare inferenze alla fine, dopo lo sviluppo di tutte le nostre facoltà; non si tratta infatti di un dono naturale ma di un’arte lunga è difficile.

C. S. S. Peirce

                                                                                                             

In questo articolo vogliamo difendere soprattutto la tesi che l’insegnamento della filosofia è un elemento fondamentale del curricolo formativo in una società democratica, ma a condizione che esso muti radicalmente i suoi metodi, le sue usuali pratiche didattiche e, in parte almeno, le sue finalità.

Sosterremo che la didattica della filosofia deve prendere sul serio la missione che (a parole) si è data, cioè quella di formare menti autonome e critiche; mentre le pratiche didattiche (siano esse lo studio nozionistico del pensiero degli autori o la lettura dei testi) e i contenuti dell’insegnamento tradiscono o sono inadeguati al compito.

Vogliamo inoltre proporre una visione dell’attività filosofica come gioco individuale e collettivo volto a risolvere problemi (rompicapo). A questo scopo proponiamo, nella seconda parte del nostro intervento,  un’ipotesi di modello pedagogico (strutturato secondo nuclei fondanti, strategie didattiche e macrocompetenze) che ci pare utile per l’impostazione di una didattica innovativa.

Ridare un senso al fare filosofia con i (e non ai) ragazzi significa rompere l’atmosfera seriosa e plumbea, annoiata o falsamente compiacente della classe, per costruire una classe “aperta” dove ci si mette alla prova, si saggia la propria inventiva nel risolvere rompicapo filosofici, ci si impegna nella difesa delle proprie tesi e nell’attacco delle tesi avversarie; si dialoga con i grandi pensatori del passato e del presente, cercandovi spunti, idee, argomentazioni; litigandoci quando non si è d’accordo (ma sempre col dovuto rispetto)[1], e mettendosi a caccia dei trucchi, delle astuzie argomentative, dei sofismi, delle fallacie a cui ricorrevano o in cui sono caduti anche i grandi pensatori.

 

Filosofia e Democrazia

 

Il "ragionamento" è il motore dell'apprendimento umano (e come potrebbe essere diversamente essendo l'uomo ciò che è: un essere dotato di Ragione). Non c'è conoscenza vera senza comprensione, ma comprendere non si può se non si ragiona su quanto si apprende, o se non si intende il ragionamento che fonda, giustifica l'affermazione, la tesi, la legge scientifica, ecc., che viene proposta dall'insegnante o che ci viene data dal libro. Dove questo processo di rimasticazione personale, di rielaborazione, di analisi del ragionamento sotteso ad ogni affermazione o ad ogni tesi, e proposto esplicitamente (pensiamo a una dimostrazione matematica o sperimentale) o implicitamente (pensiamo a certe spiegazioni storiche); dove non c'è consapevolezza del valore delle prove o della concatenazione logica che porta a quelle determinate conclusioni, non ci può essere vero apprendimento ma mero nozionismo.

     Ora, la Scuola, se non vuole più essere un luogo dove si trasmette un sapere  consolidato ed indiscutibile, ma un luogo dove si imparano abilità, e, in particolare, dove si sviluppa il proprio senso critico, dovrebbe prima di tutto preoccuparsi di insegnare ad esercitare la propria capacità di ragionare correttamente: insegnare “come pensare” piuttosto che “cosa pensare”.

     Se si ritiene, inoltre, che la Scuola (a maggior ragione quella pubblica) debba essere, fra le altre cose, scuola di "democrazia", in cui si impara ad apprezzare il valore del dialogo intersoggettivo, dell'opinione non imposta ma argomentata, in cui si impara il valore della convivenza e quindi del rispetto dell'altro, e quindi del rispetto delle sue opinioni quali che esse siano (il che significa non semplicemente e con spirito superficialmente relativistico e ipocritamente tollerante che "ognuno può pensarla come vuole", quanto il ritenere tutte le opinioni degne di esame e discussione). Se si ritiene che il compito educativo della scuola debba essere anche quello di formare cittadini criticamente più avvertiti, più “competenti”[2], allora bisogna cominciare proprio dalla presa di coscienza e dalla conoscenza delle pratiche argomentative e delle tecniche logiche e retoriche; dal riconoscimento dei trucchi argomentativi e dalla consapevolezza degli errori che possiamo commettere o che non possiamo fare a meno di commettere (i cosiddetti tunnel cognitivi) nei nostri ragionamenti.

Tuttavia, malgrado le lamentazioni sui ragazzi che non sanno giustificare le loro affermazioni (anzi che non sentono la necessità di farlo), o che imparano senza capire, o che scrivono da cani ("non sanno l'italiano" si dice, ma, come diceva Sciascia, "l'italiano non è l'italiano, è ragionare"!); malgrado il riconoscimento, oramai generale, dell'importanza di perseguire lo sviluppo delle capacità logico-argomentative, il nostro sistema scolastico ritiene che l'imparare a pensare, a ragionare correttamente, non debba essere oggetto di un apprendimento specifico, quanto piuttosto una sorta di "riverbero", di effetto secondario dell'apprendimento di determinate materie  e contenuti; e perciò non dedica tempo alla cura di queste particolari abilità; come se, aristotelicamente o cartesianamente, si presumesse ancora che la capacità di ragionare sia una dote naturale, innata negli uomini, che funziona naturalmente bene e correttamente. Ma, come ormai ci attestano le scienze cognitive, questo non è vero: ragionare o pensare è un'arte che come tutte le arti va appresa![3]

Non così avviene negli Stati Uniti, dove da alcuni anni l’insegnamento di quello che loro chiamano “Critical Thinking” è stato posto al centro della discussione sulla riforma del sistema educativo.

In effetti, la nostra scuola ha già a disposizione una disciplina che dovrebbe produrre “pensatori critici”, e questa disciplina è sicuramente la Filosofia.

Questo punto è stato messo bene in evidenza da D. Massaro:

 

Pensare e in particolar modo pensare bene, riveste … grande importanza, soprattutto oggi che viviamo in un mondo sempre più composito e difficile, che richiede l’impegno e la responsabilitàdi una visione panoramica e sistemica non solo nella risoluzione di problemi teorici, ma anche nelle scelte pratiche e nelle decisioni. Pensare in modo corretto, secondo le regole della logica formale, e argomentato, secondo le ragioni del dialogo tra persone costituisce dunque un obiettivo primario dei sistemi formativi. Infatti, per quanto il pensiero rappresenti il fattore essenziale e distintivo dell’uomo, tuttavia il suo corretto esercizio non è un dato spontaneo e naturale, ma è un’arte che si apprende e che, quindi, richiede una didattica adeguata.

 

La conclusione di Massaro è che “l’educazione al pensiero autonomo e critico è il fine principale della formazione scolastica, in particolare di quella filosofica […]”[4]

Seguendo il dettame aristotelico o la prima regola dell’argomentare secondo cui non si argomenta intorno a ciò che è evidente, non mi metterò a difendere questa tesi, su cui mi pare del resto ci sia una sorta di “consenso universale”, se non altro nella comunità filosofica.

Più controversa o controvertibile è invece la risposta affermativa alla domanda “l’insegnamento filosofico tradizionale produce pensatori autonomi e critici?”.

Abbiamo già avanzato in altra sede i nostri ponderati dubbi e le nostre moderate perplessità. Proviamo a sintetizzarle, rimandando per un approfondimento al nostro saggio.

Acquisito che lo studio nozionistico della storia della filosofia non forma pensatori più critici e autonomi, la didattica della filosofia a partire dalla fine degli anni ottanta ha puntato molto sulla lettura diretta dei testi  come via maestra per insegnare a filosofare e, quindi, a pensare in modo autonomo e critico. E’ diventata quasi un’ovvietà, tanto da farla passare dallo stato di teoria a quello di un vero e proprio dogma. Ma si tratta di un dogma indimostrato. Su cosa si fonda un tale dogma?

L’unico riferimento sembra essere quello dell’assimilazione dell’insegnamento della Filosofia a quello della lingua italiana. Ora, è quantomeno curiosa questa fiducia nell’apprendimento “per imitazione” (leggendo Platone si impara a pensare platonicamente; leggendo Arstotele aristotelicamente … alla fine avremo un pensatore critico), quando è sotto gli occhi di tutti il fallimento dell’insegnamento di abilità di scrittura via lettura e studio dei classici della letteratura: che studiando e leggendo il Manzoni uno impari a scrivere manzonianamente non lo crede il più sprovveduto degli insegnanti di Italiano.

I sostenitori di questo dogma si rendono conto che non basta la mera lettura dei testi per “ […] apprendere strategie argomentative e modalità di pensiero, contribuendo così alla definizione di una serie di competenze concettuali che vanno al di là della semplice conoscenza dei contenuti.” Ma che “Occorre fare dei testi il materiale per una serie di attività didattiche da sviluppare su essi e grazie ad essi””[5]

Ma quali sono queste attività?

Il set operativo di uno studente di filosofia è “costituito da brani selezionati e/o da testi completi mediante il quale svolgere attività di analisi, di ricostruzione di argomentazioni e di teorie, sul quale compiere esercizi.”[6]

A questo proposito, abbiamo esaminato alcuni dei manuali più noti che hanno seguito le indicazioni dei Programmi Brocca. Ci siamo concentrati sui capitoli iniziali dei diversi testi (diciamo, grosso modo, fino ad Aristotele). Siamo andati a vedere quale tipo di attività di lavoro essi richiedono agli studenti, questo è quanto emerso.

Le operazioni maggiormente richieste sono:

 

§         chiarimento di concetti, di passaggi testuali, di citazioni ecc.

§         produzione o compilazione di schemi e tabelle

§         riassunti

§         definizione di termini e concetti

§         confronto di tesi e posizioni di filosofi diversi

§         spiegazioni o verifica di passi o di interpretazioni

§         ricostruzione di argomentazioni

§         ricerca sui testi letti di espressioni pro o contro una certa tesi;

§         ricerca sui testi letti di espressioni che illustrano una data tesi o un tema dell’Autore studiato;

§         utilizzazione di coppie concettuali per ricostruire il pensiero di un autore o per fare confronti;

§         motivare tesi interpretative;

§         esporre in modo articolato a partire dai testi la tesi di un Autore;

§         ricerca nel testo di metafore, analogie paragoni.

 

Alcune considerazioni. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di attività volte alla comprensione del pensiero dell’autore o degli autori trattati nel capitolo, e non finalizzate all’acquisizione di abilità cognitive.

Non c’è una gradualità riguardo alla complessità delle operazioni richieste, gradualità che dovrebbe essere relata alle competenze iniziali degli studenti.

Ma ciò che è importante è che si danno per possedute proprio quelle abilità cognitive e quelle competenze che lo studio della filosofia dovrebbe far maturare, anche attraverso le esercitazioni.

Si dà, per esempio, per scontato che i ragazzi sappiano analizzare un testo o “spiegare” concetti o frasi ad alto livello di astrazione. Si dà per scontato che i ragazzi abbiano una conoscenza adeguata (non approssimativa) di cosa sia un’argomentazione, o la giustificazione di una tesi, e sappiano valutare in modo esperto un’argomentazione, ecc.

L’idea sottesa a questo tipo di attività è che facendole lo studente sviluppa abilità, competenze e capacità cognitive di livello superiore. Attraverso queste attività e attraverso la lettura dei testi che esemplificano i diversi modelli di ragionamento, il ragazzo, miracolosamente, dovrebbe sviluppare la capacità di ragionare e pensare in proprio.

Ciò detto, proviamo a immaginare quale possa essere sia il modello di apprendimento che si può presupporre sia alla base di questa fiducia.

Sembra che per i teorici della centralità del testo l’imparare a filosofare comporti un esercizio di modeling, di imitazione sistematica dei diversi stili filosofici. Si tratta di una tecnica di apprendimento che per funzionare necessita evidentemente di uno studio sistematico e sufficientemente approfondito dello stile filosofico (metodo, linguaggio ecc.) dei filosofi presi come modello.

E’ un lavoro che potrebbe anche essere interessante, ma quanto “economico” in termini di tempo di lavoro e quanto produttivo, in termini di efficacia? Quanto tempo si dovrebbe impiegare per un lavoro ben fatto? Dopo la lettura e l’analisi di quanti testi, un ragazzino di sedici o diciassette anni riuscirebbe ad impadronirsi dello stile filosofico di Aristotele o di San Tommaso? Siamo sicuri che per imparare a riflettere con metodo occorra farsi prima platonici, poi aristotelici e così via?

D’altra parte, un tale apprendimento ha senso se accompagnato dalla capacità di transfer dei modelli appresi a contesti e problematiche diverse o attuali. Ma che senso avrebbe affrontare le tematiche della bioetica o dell’intelligenza artificiale o dell’epistemologia con lo stile filosofico ora di Platone, ora di Aristotele, ora di Kant ?

E’ per questa fiducia nel “confilosofare” che i manuali si dimenticano di fornire ai ragazzi proprio quegli strumenti del pensare filosofico (ma si potrebbe dire del pensare e del ragionare tout court) senza i quali il fare filosofia o il riflettere filosoficamente o, più semplicemente svolgere le operazioni testuali richieste, non hanno senso.

Pensare e ragionare correttamente non sono, come abbiamo sopra ricordato, un dato naturale ma un’arte che va acquisita costruendo una serie di strategie di apprendimento adeguate. A maggior ragione ragionare e pensare filosoficamente. Ebbene, finora non abbiamo trovato un solo manuale di filosofia che si preoccupi di costruire un percorso graduale di appropriazione degli strumenti del pensare con correttezza e metodo.

Per finire, incerto, per non dire misterioso, rimane il nesso fra le attività di studio e di pratica proposte in questo modello didattico con le competenze richieste per la formazione di persone “in grado di orientarsi nella società e nella vita”![7]

 

A questo punto, vale la pena affrontare una questione su cui non ci eravamo troppo soffermati. Perché la filosofia è la disciplina che (più di ogni altra?) dovrebbe essere atta a sviluppare il pensiero autonomo e critico? E, se può farlo, quale insegnamento della filosofia può farlo meglio?

Bene, va detto in via preliminare che la tesi che sosteniamo in questo articolo si fonda su una visione della filosofia e del ragionamento che sono oggetto di dibattito e che non possiamo dare per scontati. Tuttavia, noi riteniamo che questi assunti meglio di altri rendono ragione dell’attività filosofica quale si è svolta nel corso dei secoli, e delle pretese formative dell’insegnamento della disciplina oggi.

Per chiarire meglio questo punto dovremo fare una breve digressione sulla natura della Filosofia e del filosofare.

 

Che cos'è la Filosofia, a cosa serve

e come presentarla ai giovani?

 

Partiamo con una tesi, che per noi è una constatazione, e che non discuteremo: non si può in nessun modo se non impropriamente parlare (come pure alcuni fanno) di "Scienza filosofica" o di "Filosofia scientifica", non esiste niente di simile, e forse non può esistere per la natura stessa di questa disciplina. Viene, allora spontaneo chiedere: se non è una scienza cosa diavolo è? e, soprattutto, a che serve la Filosofia?

Già a che serve? E’ difficile rispondere. Non che i filosofi non abbiano dato delle risposte in questi duemila anni, ma si ha come l'impressione che nessuna di esse sia pienamente soddisfacente. Sembra anzi quasi che le risposte siano tante quanti sono i filosofi e ognuna valida per ciascuno di loro rispettivamente.

Alla fine non si può evitare l'impressione che l'attività filosofica sia una vocazione più che un sapere specializzato, vocazione che, naturalmente, uno può avere oppure no. Forse per questo è così difficile riuscire a convincere gli studenti della bontà dello studio della Filosofia.

Generazioni di professori di Filosofia hanno cercato di dimostrare a generazioni di riluttanti allievi che studiare questa disciplina era fondamentale per la loro vita di uomini o di cittadini. Chi non si è posto mai il problema del significato della nostra esistenza? ingiungevano minacciosi; quanti di voi, non si sono posti il problema del bene e del male, o dell'esistenza di Dio? suggerivano sornioni. I ragazzini,  terrorizzati, assentivano sia che questi problemi li avessero vagamente sfiorati, sia che la sicurezza dell'affermazione dell’insegnante li facesse sentire un po’ vermi, perché così avrebbe dovuto essere da che mondo e mondo, ma così, vergogna!, non era stato.

Ma le cose stanno veramente così?  Possono delle giovani menti che la vita con i suoi drammi, le sue spesso drammatiche scelte ha solo sfiorato, privi di quell'esperienza del mondo che è l’humus da cui nasce la Filosofia, comprendere le problematiche etiche, gnoseologiche, politiche, o, addirittura, cosmologiche affrontate dai filosofi antichi e moderni?

Si dirà che è proprio questo quello che dovrebbe fare un buon professore di Filosofia: riuscire a coinvolgere gli adolescenti, smuovere il loro interesse, "commuoverli"... . Forse, ma abbiamo i nostri dubbi. Noi non escludiamo che i migliori fra noi riescano in quest'impresa improbabile, ma non crediamo che siano in molti. D'altra parte ogni età ha problematiche sue, ed è inutile forzarla. Al massimo se ne otterrà un interesse coartato ed abbastanza estrinseco, che porterà ad un apprendimento appiccicaticcio, pronto a sciogliersi al primo sole della dimenticanza.

E tuttavia non ci si può mica limitare a svolgere solo quelle tematiche filosofiche che possono avere un qualche aggancio con la realtà vissuta dagli adolescenti (a che cosa si ridurrebbero? al tema dell'amore, della giustizia, della bellezza, dell'apparenza...), tematiche importanti certo, ed anche, per certi aspetti, interessanti, ma che impoverirebbero, e umilierebbero la disciplina .

In questi anni in cui abbiamo insegnato la storia della Filosofia ci siamo accorti di come dagli studenti i problemi filosofici vengano spesso visti, accolti, osteggiati più che come problemi «vitali», come meri rompicapo: una sfida al buon senso, all'intelligenza dei singoli; qualcuno interessante, ma, più spesso, del tutto "inutili", irrilevanti, oziosi. Ebbene perché non sfruttare questa naturale tendenza favorendola: in fondo ogni problema filosofico è innanzitutto  un rompicapo, rompicapo con forti implicazioni esistenziali. 

Ma perché "rompere il capo" a degli adolescenti, perché farli ammattire dietro a problemi ardui che, in questi momenti della loro vita, difficilmente si trovano ad affrontare?

Noi riteniamo che la risposta giusta sia questa: lo studio della Filosofia va visto come una sorta di palestra intellettuale. Uno scontrarsi con i dilemmi dell'esistenza prima di doverli affrontare direttamente. E se è così, allora non serve a niente studiare e tenere a mente lunghe teorie di soluzioni date da Tizio o da Caio, basta esercitarsi a comprendere le varie soluzioni, le argomentazioni che le sorreggono, e divertirsi a smontarle. In questa visione la Filosofia ha la stessa funzione del gioco per gli animali: un apprendistato  necessario per quando bisognerà affrontare davvero i problemi.

La Filosofia è un gioco, ma un gioco che può essere fatto a diversi livelli. Ad un livello elementare è un gioco che facciamo tutti. Chi più chi meno, ognuno di noi "filosofeggia", che si sia studiata o no la storia della Filosofia. Ma "filosofeggiare" non basta, bisogna farlo, come per tutti i giochi,  rispettando delle regole. Bisogna quindi conoscere le regole (ma anche i trucchi) per giocare correttamente, e per poter smascherare eventuali bari. Tanto più che in gioco c'è la nostra stessa esistenza. Non sono indifferenti per noi le diverse soluzioni accettate: non è indifferente per noi accettare la filosofia cristiana dell'esistenza oppure una filosofia materialistica che nega l’esistenza di Dio!

E’ un gioco che ci permette di trattare con problemi esistenziali e sociali ad un livello astratto (come se fossero i nostri), che ci permette di giocarci con il disinteresse tipico dell'adolescenza, ma anche con l'accanimento che vi poniamo quando tentiamo di risolvere un rompicapo matematico, enigmistico ecc.

Perché il gioco funzioni occorre accettare di entrarci e di rispettarne le regole. Ma quali sono le regole del gioco filosofico?

In prima istanza potremmo dire che le regole fondamentali del gioco filosofico sono quelle di tutti i giochi razionali. Chi accetta di entrare in un gioco razionale si impegna ad essere onesto, cioè a non barare, a non usare trucchi, nella fattispecie, a non usare argomenti speciosi, per il solo gusto di vincere la disputa eventuale; si impegna ad usare argomenti corretti sotto il profilo logico e convincenti, che costringano cioè «l’uditorio universale» all'assenso o alla controargomentazione (in questo senso la Filosofia non può accettare che siano posti  limiti alla ragione, cioè nega che ci siano verità che non siano accessibili alla ragione). Va da sé che un argomento che ci convince non necessariamente è un argomento valido, che dimostra la verità della tesi; la Storia della Filosofia è piena di tesi false sostenute da argomenti convincenti per qualcuno o per molti in un dato momento storico. D'altra parte tolte le scienze dimostrative e quelle sperimentali, tutte le altre attività razionali non hanno altro criterio di valutazione della accettabilità o meno di una teoria se non quello del suo essere convincente. Ora se una teoria può essere convincente e tuttavia falsa[8] come possiamo evitare di cadere nello scetticismo più radicale?

Ebbene, noi crediamo che lo scettico sia uno che pretende troppo, un assetato di verità incontestabili che, non potendole avere, rinuncia all'uso della Ragione nei limiti di quello che può offrirci[9]. In fondo i nostri manuali di storia della filosofia sono pieni di teorie e dottrine filosofiche cadute in pieno discredito, superate e che non hanno più seguaci; e quand’anche teorie filosofiche del passato vengano riprese e tornino in auge, è solo perché qualcuno ritiene di aver trovato nuovi "buoni argomenti" per rispolverarle. Si può a buon diritto affermare che non esiste veneranda dottrina filosofica che venga ripresa tale e quale era sostenuta all'origine. Che uno si dichiari neoplatonico, neohegeliano o neomarxista si può essere certi che i pezzi più deboli, più sottoposti a "critica", più insostenibili della vecchia teoria sono stati abbandonati o riformulati.[10]

La critica (razionale) è l'arma della Ragione. Ogni dottrina filosofica, ogni teoria, nel momento in cui viene resa pubblica, viene sottoposta, si può star certi, ad una critica serrata! Se la guerra per i Futuristi rappresentava l’igiene del mondo, la "critica" la rappresenta per l’attività filosofica.

La critica puntigliosa, mordace, sistematica, ossessiva, finanche biliosa, cattiva ci assicura che nessuna teoria che non sia costruita su solide fondamenta può passare indenne al setaccio: ogni fessura, ogni crepa se pur minima verrà scandagliata, allargata quanto possibile, l’edificio intero verrà scosso prepotentemente per valutarne la stabilità... Difficilmente le teorie filosofiche passano indenni e integre questo esame: molte vengono abbandonate, altre subiscono riformulazioni, raggiustamenti, per tornare alla nostra metafora, si turano le falle, si consolida dove è necessario, si murano le crepe. Alla fine di queste opere di ristrutturazione niente è più come prima, e qualche volta la costruzione originaria non è più riconoscibile (se pur è ancora la stessa).

Questa opera di demolizione critica non solo è necessaria, ma é altresì salutare per la filosofia, e lo è talmente che una regola su tutte dovrebbe valere per il filosofo (la stessa che Popper auspicava per lo scienziato) : fai in modo che la tua teoria possa essere esaminata in tutti i suoi aspetti, difendila più che puoi, ma senza usare sotterfugi, non sfuggire alle critiche!

E’ proprio per favorire la critica che la seconda regola fondamentale della filosofia dovrebbe essere: scrivi chiaramente, evita il linguaggio oscuro, per iniziati, aborrisci le parole ambigue, i doppi sensi, il gusto aforistico e paradossale.

Non sempre questa regola è stata rispettata dai filosofi, anzi, forse, fra tutte è quella che lo è stata meno; qualche volta per oggettive difficoltà (non sempre è facile render in modo chiaro questioni complicate), più spesso per opportunismo, per una malcompresa esigenza di profondità e rigore, per elitarismo accademico, od altro ancora[11].

Proviamo a questo punto a riformulare la definizione di Filosofia: la filosofia è un’attività che mira a risolvere rompicapo (filosofici!) via argomentazioni (razionali) che  mirano a convincere  l’uditorio universale, e che vengono poi sottoposte a critica serrata.

Messa in questi termini, la filosofia così intesa è stata praticata (e forse lo è ancora oggi) da pochi, almeno intenzionalmente. La stragrande maggioranza dei filosofi, infatti, ha sempre pensato che la propria dottrina  fosse "vera" anzi l'unica vera, e non solo convincente; che le proprie argomentazioni fossero prove che dimostravano la verità della tesi, non argomentazioni più o meno convincenti o sostenibili razionalmente. Tutti invece, fin dagli inizi della storia della filosofia hanno fieramente e pugnacemente usato la Critica come arma demolitrice delle dottrine avversarie; utilizzandola con parsimonia quando si trattava di mettere sotto esame le proprie di dottrine. Comunque, quale che fosse in passato, o sia tuttora l’intenzione dei filosofi, noi siamo convinti (stavamo per dire certi) che essi non hanno fatto altro che la filosofia nel senso che siamo venuti sostenendo.

L'obiettivo da raggiungere è la Verità. La Filosofia, infatti, non cerca soluzioni "confortanti" ma soluzioni vere, o meglio (visto che  non si possiede un criterio assoluto di verità che ci possa permettere di discriminare fra soluzioni vere e false) soluzioni valide razionalmente: una soluzione, per quanto confortante sia per noi, deve sempre essere vagliata alla luce della ragione critica, solo se supera i tentativi di confutazione può essere accettata provvisoriamente come valida.

Vi sono naturalmente molte altre regole che devono essere conosciute, ma queste verranno apprese, come in qualsiasi apprendistato,  iniziando a giocare.

 

 

Filosofia come abito critico

 

Se questa caratterizzazione (insieme descrittiva e normativa dell’attività filosofica) ha un qualche fondamento, allora la più bella e appassionata difesa del valore della Filosofia, come siamo venuti delineandola, si trova in un capitoletto di On liberty  di John Stuart Mill, opera che della Filosofia non si occupa. Ci riferiamo al capitolo in cui S. Mill affronta il tema della libertà di pensiero e di discussione [12], e in particolare alla sezione in cui Mill argomenta a favore della libertà di critica. Scrive Mill:

    

[…] le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate. Se la sfida non viene raccolta o viene tentata e perduta, siamo ancora molto lontano dalla certezza, ma abbiamo fatto quanto di meglio ci consente la presente condizione della ragione umana: non abbiamo trascurato nulla pur di offrire alla verità una possibilità di raggiungerci; […].[13]

 

E ancora, sostenendo con favore il metodo ciceroniano di studiare sempre gli argomenti dell’avversario con uguale se non maggiore attenzione dei propri, Mill arriva a dire che:

 

[…] se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato riesce ad inventare.[14]

 

 Ci si potrebbe a questo punto chiedere: cosa ha a che fare questo con la filosofia? Ebbene cosa sta difendendo Mill se non l’attività filosofica intesa come esame incessante, mai domo di qualsiasi certezza e posizione precostituita?

Anche chi è certo di possedere la verità trova alimento dall’esame critico di essa, e una società democratica non può che invitare a difendere la libera discussione di tutte le idee anche di quelle ritenute più certe e sacrosante. La critica rivitalizza e dà nuova linfa alle nostre convinzioni perché ci costringe a ricordarci le ragioni per cui le avevamo accettate una volta.

Ciò che ci preme sottolineare è che questo compito di analisi libera e critica delle idee (e delle “alternative” come direbbe E. Bencivenga[15]) è o dovrebbe essere la funzione tipica della Filosofia. Se esiste una ragione per mantenere uno spazio all'attività filosofica e allo studio della filosofia in un sistema educativo, questa ragione non può che stare nella necessità di formare menti aperte e addestrate al libero esame e alla libera discussione delle proprie idee e di quelle che vengono proposte da altri.

Tuttavia, perché questo accada si deve rinnovare e molto profondamente (per dirla con Fulvio Manara, una nuova “rivoluzione copernicana”?) l’insegnamento della filosofia a tutti i livelli.

Si deve innanzitutto rompere l’equazione filosofia = storia della filosofia. Studiare una galleria di filosofi in modo nozionistico non apre la mente. La mente poco attrezzata di strumenti di analisi critica e di giudizio cade nel relativismo gnoseologico, tenendosi aggrappate alle proprie credenze e convinzioni.[16]

Si deve poi buttare alle ortiche il dogma della “centralità del testo” in tutte le sue varianti. La lettura e le operazioni normalmente svolte sul testo, come abbiamo già visto, non producono menti più critiche, o menti che sanno pensare meglio.

A nostro avviso solo un insegnamento filosofico che miri a sviluppare il gusto dell’esame critico delle diverse idee e delle diverse posizioni e l’armamentario logico-argomentativo dei ragazzi, è coerente con le sue finalità educative, e può far ritrovare il senso ormai perduto dello studiare Filosofia a scuola.

La Filosofia (quando non pretende di possedere vie alogiche all’Assoluto), al suo meglio, è fatta, come abbiamo visto, di ragionamenti che portano a tesi e ad argomentazioni che le sostengono; essere capaci di comprendere e valutare con competenza le argomentazioni altrui, formulare con consapevolezza e competenze adeguate le proprie argomentazioni significa uscire dalla vuota chiacchiera, dalle insopportabili discussioni a vuoto in cui nessuno tiene veramente conto di quanto dice il contendente, non sentendosi obbligato a controargomentare; significa ponderare razionalmente la propria posizione prima di abbracciarla, e poi saperla difendere[17].

Educare alla razionalità significa anche questo, educare all’etica del rispetto delle regole del gioco argomentativo.

Tutto questo in classe di filosofia non si fa o si fa soltanto in modo rapsodico e senza metodo. Quali competenze di retorica (nel senso del Perelman) o di dialettica (nel senso di Aristotele) o di logica abbiamo mai cercato di costruire con metodo nelle nostre classi? Quale programma di addestramento dialettico abbiamo mai proposto ai nostri ragazzi negli anni?

Schiacciati dal peso dei sempre più ponderosi  manuali di storia della filosofia, o dalla più noiosa esegesi puntuale di qualche noiosissimo “classico” della filosofia, pochi di noi sono riusciti a recuperare il tempo per fare qualcos’altro.

Tuttavia, è inutile nascondersi dietro a un dito: accanto alla mancanza di tempo (mirabile scusa per chi non vuole lasciare sentieri familiari!) vi è sicuramente una cronica carenza nella formazione degli insegnanti di filosofia, che riguarda proprio quelle conoscenze e quelle competenze logico-argometative che dovrebbero andare a formare nei discenti.

I corsi di formazione dei nuovi insegnanti (almeno da quello che se ne sente dire) sono egemonizzati dai teorici della nuova didattica modulare (qualsiasi cosa possa voler dire in Filosofia) e dai sostenitori del dogma della “centralità del testo”. Ci piacerebbe sapere in quanti di questi corsi si insegna teoria dell’argomentazione o a gestire una disputa filosofica regolata.

Si stanno formando nuovi insegnanti che saranno bravissimi a costruire “moduli” didattici sullo intero scibile umano, capaci di rintracciare con certosina pazienza i brani dei testi classici utili ad ogni bisogna! Ma cosa ha a che fare questo con l’insegnare filosofia? A chi serve uno studio di queste cose? Sicuramente non ai ragazzi, i quali capiscono alla fine poco o nulla di quello che viene loro trasmesso e a cui non rimane nulla di utile per la loro formazione umana e civile.

Se si vuole riformare l’insegnamento della filosofia bisogna iniziare col formare allora buoni insegnanti di filosofia, che conoscano sia un po’ di logica che di teoria dell’argomentazione, ma che siano soprattutto addestrati alla pratica dialettica o argomentativa, e non soltanto buoni conoscitori della storia della disciplina e dei classici della  filosofia o abili artigiani nella costruzione di moduli discutibili.

Il che non vuol dire che l’insegnamento filosofico non debba ricorrere alla costruzione di moduli tematici (pensiamo, p.e., alla programmazione interdisciplinare) o rinunciare agli excursus storici (la contestualizzazione storica è fondamentale per ogni testo o ogni soluzione presa in esame, in quanto ogni argomentazione è una risposta diretta o indiretta ad almeno un’altra). E’ che non sono queste cose che, a nostro avviso, devono caratterizzare e sostanziare la pratica dell’insegnamento filosofico.

 

 

Pensare e argomentare. La centralità del metodo

 

La proposta di un insegnamento della filosofia finalizzata allo sviluppo di competenze logico-argomentative si fonda, come abbiamo visto, sull’idea che la filosofia sia (ed è necessario che sia così) un’attività eminentemente razionale, pubblica e collaborativa[18]. Quali che siano i modi in cui noi perveniamo alle nostre idee, alle nostre ipotesi di soluzione, ciò che veramente importa è che queste idee e queste soluzioni siano espresse in modo chiaro e che siano controllabili razionalmente; il che significa che si deve poterne valutare sia la correttezza e la validità logica, sia la tenuta argomentativa.

Questa vuol essere una presa di posizione a favore della tesi sostenuta dal Perelman, da Billig, dalla Santi e da tanti altri che il ragionamento non si esaurisce nella pura dimensione dell’inferenza logica (come pure logici e psicologi cognitivisti continuano a ritenere[19]): si ragiona anche quando si argomenta. Anzi, lo “spazio della ragione dialettica” è straripante rispetto a quello della “ragione calcolante”, proprio nel campo di attività della filosofia, dove i ragionamenti  “a pugno chiuso” sono quanto mai rari.

E ancora. Già Cicerone e Bacone avevano sostenuto che l’essenza del pensare sia nel discutere. Quando pensiamo noi riproduciamo una sorta di dialogo interiore in cui esaminiamo i pro e i contra delle diverse opzioni che abbiamo davanti.

Siamo dei buoni pensatori quando siamo in grado di “inventare” (in senso retorico) più argomenti possibile per difendere o per confutare una data tesi che vogliamo valutare. Quando siamo capaci di comprendere dove vuole andare a parare con la sua argomentazione l’avversario, quando siamo in grado di accorgerci delle fallacie commesse o dei sofismi utilizzati; quando siamo capaci di controargomentare, di rispondere colpo su colpo.

Riferendosi alla dialettica socratica e alla tradizione delle discussioni scolastiche medievali Stuart Mill scriveva:

 

[…] il pensiero moderno deve a entrambi molto più di quanto non voglia generalmente ammettere, e l’educazione moderna non comprende alcuno strumento che minimamente svolga la funzione di questi due […]. Attualmente è di moda screditare la logica negativa – quella che individua debolezze teoriche o errori pratici senza affermare verità positive. Questa critica negativa sarebbe certo insoddisfacente come punto di arrivo, ma come mezzo per conseguire conoscenze positive o convinzioni degne di essere chiamate tali non sarà mai abbastanza apprezzata, e fino a quando non se ne riprenderà l’insegnamento e l’esercizio sistematico vi saranno pochi grandi pensatori  e un basso livello intellettuale complessivo […].[20]

 

Si tratta di una proposta di insegnamento e di metodo che andrebbe adeguatamente valutata. Non ci si faccia traviare dall’enfasi qui posta da Stuart Mill sulla “logica negativa”, la quale si spiega col fatto che sta difendendo la libertà di critica. Nella pratica didattica altrettanto spazio va dedicato alla “logica positiva”, al potenziamento, cioè, di strategie di pensiero efficaci per affrontare questioni e proporre ipotesi di soluzione ben ponderate, e tuttavia va sottolineato il fatto che, come aveva già intuito Popper, quale che sia il modo in cui si perviene ad una data tesi (contesto della scoperta) ciò che importa è che essa sia esaminata criticamente (il contesto della giustificazione). Addestrare i ragazzi alla “logica negativa” esercitata prima di tutto sulle proprie idee e convinzioni, produce sicuramente pensatori migliori, naturalmente se non diventa una tecnica a senso unico rivolta, appunto, soltanto contro gli altri (alla maniera dell’arte di disputare di Schopenhauer[21]). Va da sé che proprio in quanto “gioco” la filosofia deve pretendere il rispetto delle regole e delle finalità del gioco filosofico (rispettivamente l’onestà  e il perseguimento della verità e non della vittoria – l’avere l’ultima parola!).

 

 

 l’approccio metacognitivo.

 

Il dibattito sull’insegnamento della filosofia si è frequentemente polarizzato attorno alla dicotomia tra approccio storico ed approccio per problemi: due prospettive alternative - entrambe autorevoli e forti - per la giustificazione della didattica. [22]

Un passo in avanti rispetto alla contrapposizione rigida tra i due punti di vista si è realizzato – negli anni ottanta – grazie alla valorizzazione degli aspetti didattici dell’insegnamento filosofico, in evidente polemica con l’impostazione gentiliana.

Lo studente, si è detto,  può e deve essere guidato nella comprensione diretta dei testi classici, per potere entrare in dialogo con autori che parlano ancora efficacemente e significativamente ai giovani di oggi. Il testo deve essere avvicinato con strategie apposite - procedure di comprensione globale, di analisi, di sintesi - per potere essere attualizzato ed apprezzato.

Lo sbocco finale di questa impostazione è l’idea felice del laboratorio filosofico, in cui si mettono alla prova le capacità dello studente nella ricostruzione del senso del testo filosofico.

Si passa così dalla illustrazione del testo da parte dell’insegnante alla lettura diretta, con tutto ciò che questo comporta: in particolare, con il tipico scatenamento di energie mentali sopite che la didattica attiva favorisce. Gli studenti non devono, infatti, limitarsi a riprodurre un sapere che si presenta loro come già costruito, ma hanno la felice occasione di frammentarlo e ricomporlo in una architettura che acquista, a mano a mano che si procede, un senso più chiaro.[23]

In un precedente intervento abbiamo tuttavia suggerito che, con ogni probabilità, esistono modi differenti, ed altrettanto felici, di intendere il procedimento laboratoriale.[24] Si produce, a questo livello, una dualità di approccio che non coincide esattamente con la divisione tra sostenitori della didattica per problemi e di quella storiografica. Si aggiunge, cioè, un secondo livello di complessità metodologica.

Volendo considerare i casi più estremi, potremmo dire che esistono due posizioni laboratoriali opposte (con numerose posizioni intermedie).

Da un lato si può accentuare l’importanza del punto di vista tematico, cioè dell’ampiezza di vedute filosofiche, della consapevolezza culturale, dell’arricchimento progressivo del patrimonio intellettuale. Nulla di sbagliato nell’asserire che con l’aumento di conoscenza e di esperienza aumenti anche lo spirito riflessivo e la capacità di ragionare. L’aumento quantitativo, secondo l’opinione di alcuni scienziati cognitivi, finisce per tradursi anche in un aumento di qualità dei processi di pensiero.[25] Il giocatore di scacchi che conosce molte partite è meno ingenuo del giovane brillante, ma con poca esperienza. Ma basta solo questo?

Eccoci al polo opposto. Alla constatazione che il semplice accumulo di conoscenze ed esperienze comporta il pericolo di ingombrare la mente di un cumulo di splendidi arnesi del tutto inservibili; all’idea di affrontare la filosofia come una ricerca e una serie di rompicapo, in modo che gli studenti si soffermino soprattutto sugli strumenti e i metodi dell’attività filosofica, piuttosto che, semplicemente, sui prodotti. Si tratta di una concezione secondo cui l’importanza della filosofia risiede principalmente negli strumenti intellettuali che essa è in grado di fornire, non solo allo studioso di professione, ma a qualsiasi persona che miri ad una cultura personale più completa.

E’ una posizione di tipo costruttivista, che ripone fiducia nella padronanza di strutture fondamentali e nella pratica attiva della filosofia, confidando nel fatto che, grazie ad esse, i ragazzi possano conseguire un’autonomia, di metodo e di pensiero, che permetta loro di reperire le informazioni di cui eventualmente siano privi.

È un dato di fatto che gran parte delle metodologie e dei contenuti trasmessi in classe vengono rapidamente perduti e rimpiazzati da saperi più professionali e specializzati, una volta conclusa la scuola superiore. Di fronte  a questa inesorabile perdita, la scelta che viene proposta è quella di:

 

a)         fare apprezzare il piacere della ricerca filosofica (aspetto del gioco), in modo che – dopo la conclusione degli studi – rimangano agli studenti curiosità intellettuale e motivazione ad approfondire gli aspetti filosofici della cultura e della vita;

b)        fornire alcuni strumenti e metodi intellettuali tipici della filosofia (formazione intellettuale), che possano essere trasferiti anche a campi molto diversi dalla filosofia.

 

Tenendo conto di questa doppia articolazione (approcci storico/per problemi e, rispettivamente, approccio tematico/metodologico), risultano complessivamente quattro tipologie di attività laboratoriale. Una tabella a doppia entrata può forse aiutare  a sintetizzare il quadro complessivo in maniera schematica:

 

 

Approccio per

Problemi

Approccio

Storiografico

 

Approccio

tematico

Laboratorio teoretico

Comprensione, ricostruzione e valutazione

di problemi e teorie filosofiche

Laboratorio Storico-tematico

Storia di teorie,temi e problemi filosofici

(cfr.programmi Brocca: nuclei tematici)

 

Approccio

metodologico

Laboratorio dei metodi

attraverso l’analisi e la produzione di concettualizzazioni e argomentazioni

 

Laboratorio Storico-metodologico

Storia dei metodi, attraverso l’analisi dei

Classici (es. dialettica in Aristotele)

 

Si compone, come si può osservare, un quadrilatero metodologico, la cui area meno esplorata e, a nostro modo di vedere, più interessante è quella relativa al laboratorio dei metodi; ciò non toglie, tuttavia, che anche le altre tipologie siano importanti dal punto di vista formativo e, in certa misura, imprescindibili.

Il problema è a questo punto, chiarire che cosa significhi esattamente lavorare nel laboratorio dei metodi. Occorre anzitutto dedicare un’attenzione centrale alle procedure argomentative tipiche, se non esclusive, della filosofia; ciò a cui si mira è quel particolare tipo di conoscenza delle strutture dell’argomentazione che si congiunge con la capacità di usarle opportunamente: in poche parole, la padronanza metacognitiva dei processi argomentativi.

Nell’ambito degli studi metacognitivi si possono individuare, però, due tradizioni di ricerca distinte: l’una assegna importanza prioritaria alla conoscenza dei processi al fine della loro regolazione; l’altra parte dall’idea che occorra prima sperimentare e misurare le proprie capacità, per ricavare da queste esperienze alcune prime indicazioni astratte sulle procedure, per poi ritornare all’azione e nuovamente ricostruire, a partire da essa, nuove generalizzazioni operative (approccio induttivo).

È questa seconda opzione metacognitiva che ci sembra più felice, in quanto meno prescrittiva e più adatta a colmare il solco tra una consapevolezza astratta e improduttiva (tassonomie argomentative) e competenze argomentative reali.

Riteniamo, inoltre, che solo la riflessione su contesti “caldi” di discussione permetta di acuire il senso dell’osservazione analitica e motivi realmente alla modificazione delle strategie argomentative spontanee.

In terzo luogo, ci sembra che l’approccio metacognitivo induttivo corrisponda meglio alle caratteristiche psicologiche degli studenti. I ragazzi, infatti, manifestano frequentemente l’esigenza di un procedimento di apprendimento per tentativi ed errori e di una minore passività nella situazione educativa.

In quarto luogo, vi è da considerare l’aspetto degli stili cognitivi e dei correlativi stili di insegnamento. La scuola “di tutti” [26] non può permettersi di adottare uno stile di lavoro univoco; è noto, infatti, che la metodologia della lezione frontale corrisponde all’idea di un sapere già ben ordinato, logicamente strutturato, cioè deduttivamente ed assiomaticamente predisposto. [27]

Questo maniera di procedere seleziona in partenza il tipo di studenti rispetto a cui risulta efficace; esprime una involontaria preferenza per uno specifico stile di apprendimento: gli studenti che riescono meglio - in questo tipo di relazione educativa - sono quelli abili nella codificazione logico-analitica e nella visione strutturata del sapere. Nella loro mente le sequenze di informazioni si ricompongono come i pezzi di un meccano dall’ingarbugliata e splendida struttura.[28]

Gli psicologi suggeriscono, però, l’esistenza di altre intelligenze ed altri stili di apprendimento. Se non vogliamo considerare i risultati di queste ricerche come un alibi elegante per rassegnarci all’insuccesso di alcuni studenti, dobbiamo trarre le conseguenze di queste scoperte psicologiche: la necessità della diversificazione degli stili di insegnamento e delle situazioni di apprendimento. Si tratta, in sostanza, di creare contesti favorevoli per l’apprendimento non solo dei “suonatori di violino”, ma dell’intera orchestra.

Le modalità di lavoro induttive si prestano bene a questo scopo.

Vi sono ragazzi che desiderano comprendere la regola astratta perché questa rappresenta per loro uno strumento potente che subito riescono ad applicare a contesti nuovi; questa esigenza è tipica dell’atteggiamento logico-analitico.

Vi sono, invece, studenti, per cui la regola è un’inerte suppellettile il cui uso rimane inizialmente misterioso. Se, però, forniamo loro dei contesti reali, delle situazioni concrete su cui ragionare, essi giungono per questa via a reperire le strategie e le soluzioni necessarie. Non solo: riescono anche ad elaborare quelle regole che permettono la generalizzazione dell’apprendimento (sebbene, magari, con un linguaggio che può apparire inizialmente inelegante e impreciso alle orecchie degli esperti nella codificazione logico-verbale delle informazioni).

Hanno, in questo modo, effettuato i passi richiesti dal percorso formativo, ma in un ordine inverso rispetto alle nostre aspettative: sono risaliti dal caso concreto a generalizzazioni intermedie, alle verifiche e, infine, alla scoperta della regola. L’insegnante, tenendo conto dell’esistenza di questo ordine psicologico, parzialmente difforme dall’ordine logico del sapere sistematico, dovrebbe abituarsi ad una diversa strutturazione del proprio percorso di insegnamento. Non crediamo che ne deriverebbe una disarmonia educativa, bensì una pratica didattica concepita come un’arte della fuga, in cui le medesime operazioni si possono ripetere in una varietà di sequenze diverse.

Questa alternanza di approcci può arricchire anche gli studenti che già abitualmente consideriamo abili nello studio. Per loro, abbiamo detto, la comprensione della teoria, della concatenazione logica delle  asserzioni e l’applicazione delle regole e delle procedure note non costituisce in genere una difficoltà eccessiva. C’è tuttavia un aspetto che può metterli in difficoltà: il trasferimento delle conoscenze e dei metodi noti a contesti parzialmente nuovi, a situazioni sensibilmente  diverse da quelle sinora affrontate. Queste occasioni di apprendimento si creano specialmente affrontando dei casi concreti, degli esempi in forma di problema.

In casi come questi, vengono messe alla prova le loro capacità di procedimento induttivo, per prove ed errori e la flessibilità ideativa; proprio per questo ne possono risultare esperienze estremamente istruttive.

Lungi dall’apparire come un riempitivo o una perdita di tempo, l’approccio induttivo può, dunque, risultare un’opportuna e proficua variazione dell’usuale metodologia di insegnamento.

 

 

La scelta del modello pedagogico

 

L’esigenza di buone metodologie didattiche è fondamentale per evitare il rischio che il sapere filosofico venga considerato marginale nel profilo educativo scolastico e poco significativo nella formazione dell’individuo.

Nell’ambito più generale della cultura, la filosofia non è affatto marginale: lo dimostrano la vitalità e la reviviscenza di interessi per le questioni che essa pone e la sequela di nuove pubblicazioni filosofiche anche di livello divulgativo. I problemi e le argomentazioni filosofiche fuoriescono dal ristretto ambito delle discussioni specialistiche, per mostrare la loro concretezza nelle molteplici applicazioni sociali, morali e politiche: le questioni etiche, gli interrogativi esistenziali, le decisioni sociali e le scelte sulle tecnologie.

Solo nella scuola ci si ostina a perpetuare un insegnamento accademico, improntato ad una impostazione prevalentemente storicistica e ad una metodologia che, di fatto, risulta accessibile solo ad una fascia ristretta e selezionata di studenti con un discreto background culturale.

Si tende a proporre un modello pedagogico incentrato sulla conoscenza e analisi della tradizione e dei testi classici; dimenticando che, invece, la richiesta sociale di formazione è diretta verso abilità di riflessione, creatività, padronanza autonoma di metodi: non ci si accontenta per nulla di rispettare e conoscere la tradizione culturale, si chiede, piuttosto, di  interpretarla, rinnovarla, utilizzarla in forme nuove.

L’impressione è che nella scuola di tutti si continui ad utilizzare un modello pedagogico superato e tipico dell’educazione élitaria del passato. Si insiste nel richiedere una formazione filosofica più riproduttiva che produttiva, basata sulla conoscenza accurata di informazioni storiche e testuali, mentre le competenze più fertili – le capacità di problematizzazione, di ricerca e produzione di soluzioni nuove – restano talvolta in ombra.

È necessario, viceversa, delineare un modello pedagogico alternativo, che insita maggiormente sulle abilità intellettuali complesse.

Le ipotesi che presentiamo di seguito non pretendono certo di rivoluzionare il significato del lavoro filosofico; cercano solo di evidenziare maggiormente il significato formativo della filosofia, dal punto di vista della crescita personale e della cittadinanza.[29]

 

Il primo problema da affrontare, nella strutturazione di un percorso didattico nuovo, è quello del modello pedagogico da utilizzare. Nella discussione degli ultimi anni è ormai consolidata l’abitudine di articolare la presentazione dei modelli indicando i nuclei della disciplina, le competenze e le strategie didattiche. Useremo quest’ impostazione con le seguenti specificazioni terminologiche.

Intendiamo i nuclei fondanti come gli aspetti formativi caratterizzanti l’esperienza filosofica scolastica; essi indicano il significato formativo e l’utilità specifica dell’insegnamento – già  al livello scolastico superiore –  della filosofia; spiegano per quale motivo la cultura di un giovane dovrebbe includere la filosofia, per potersi considerare completa.

Alcuni di questi nuclei sono dominio quasi esclusivo della tradizione filosofica; altri riguardano competenze trasversali alle discipline. Anche in quest’ultimo caso, però, la filosofia può contribuire ad un significativo potenziamento di esse.

Ciascun nucleo non rappresenta un “atomo” di sapere, ma un aggregato di corpuscoli e di forze, di contenuti e di capacità. Ogni nucleo è una “famiglia” dalla composizione a volte più allargata, a volte più ridotta.

I nuclei specifici della filosofia corrispondono a quelle che sono state chiamate, nella tradizione psicopedagogica, le strutture [30] della  disciplina, cioè l’insieme delle teorie, degli strumenti e dei metodi utilizzati dai filosofi.

Con il termine macrocompetenza intendiamo indicare quelle capacità più generali e macroscopiche che il filosofo esperto padroneggia e che, di conseguenza, cerchiamo di fare acquisire al giovane che intraprende lo studio della filosofia.

Una grande quantità di equivoci si è creata relativamente all’uso del concetto e del termine di competenza (collegato, peraltro, all’idea di modulo didattico). Senza entrare nel merito di questioni pedagogiche abbastanza articolate, precisiamo che vi è una doppia accezione del termine e del concetto di competenza: un significato operativo e un significato culturale.

Le competenze del primo tipo sono di tipo applicativo ed esecutivo: si tratta di un “saper fare” codificabile e, in modo relativamente semplice, esemplificabile.

Prendiamo un semplice esempio: servire correttamente un piatto ad un cliente in un ristorante. Anche in questo caso l’operazione non è solamente un esercizio scolastico – in cui sia sufficiente applicare una procedura univoca e nota – in quanto l’esecuzione prevede il controllo di variabili situazionali, imprevisti e relazioni comunicative: tutto ciò che fa la differenza tra un locale in cui ci troviamo a nostro agio ed un altro apparentemente  impeccabile, ma freddo e poco ospitale.

 Le competenze culturali sono qualcosa di relativamente diverso, perché la componente meramente esecutiva è, in questo caso, piuttosto ridotta.

Le competenze culturali costituiscono il metodo tipico, il modo di operare caratteristico di un esperto che si trovi ad operare nella soluzione di questioni specifiche del suo campo di sapere. Nel caso, ad esempio, della lingua straniera, una competenza caratteristica è la capacità di traduzione simultanea.

Gli ingredienti generali delle competenze – culturali e operative – sono simili, ma la proporzione è diversa: in quelle culturali prevalgono aspetti di transfer,[31] mentre in quelle operative prevalgono aspetti semplicemente applicativi.

In entrambe, però, sono rilevanti gli atteggiamenti e/o le componenti relazionali. Né le une né le altre hanno a che fare con il tradizionale esercizio scolastico in cui si dimostra semplicemente di avere compreso e di saper applicare una determinata procedura.

Le strategie didattiche. L’idea di un metodo d’insegnamento è vista, nella tradizione italiana, - più orientata verso il disciplinarismo - con qualche sospetto. Si tende ancora a ritenere che il metodo sia intrinseco alla disciplina e che l’insegnante competente ed appassionato di filosofia sappia di per sé presentarla nel modo più efficace.

A questa posizione (di impronta gentiliana) se ne oppone un’altra: l’idea secondo cui possa esistere una metodologia generale per l’insegnamento, adatta a tutti i luoghi e a tutte le circostanze.

Una prospettiva di questo genere può, ad esempio, radicarsi nell’impostazione psicologista: si prende come punto di riferimento una qualche tassonomia delle operazioni psichiche coinvolte nei processi di apprendimento e se ne desume una corrispondente tavola delle operazioni didattiche da attivare nel corso dell’insegnamento. Questa meccanica  trasposizione si basa sulla convinzione che le operazioni di ciascun campo disciplinare siano un calco o la copia-carbone del medesimo gesto mentale, tante volte ripetuto con le stesse caratteristiche.

Ci pare più verosimile un’altra visione pedagogica, secondo cui le operazioni psicologiche di apprendimento rappresentano delle categorie, dei tipi generali di abilità che si concretizzano, si articolano e si differenziano a seconda dei diversi campi disciplinari.

Prendiamo, ad esempio, la classica tassonomia di Bloom: il significato dell’operazione di “applicazione” delle conoscenze acquisite risulta chiaro solo se si specifica il campo cognitivo ed i contenuti rispetto a cui si esegue quel tipo di operazione mentale. Esistono svariati tipologie di “applicazioni” e tra esse sussiste solo un’affinità.[32] In matematica, l’applicazione del calcolo letterale non ha molto a che vedere con le operazioni applicative della geometria euclidea; e, tantomeno, con quelle dell’analisi testuale in letteratura.

Più che di obiettivi “trasversali” si dovrebbe probabilmente parlare di competenze analoghe in campi disciplinari distinti. Le somiglianze che sussistono tra esse giustificano alcune intersezioni nel lavoro didattico, soprattutto con lo scopo di permettere la generalizzare di alcune strategie fondamentali, comuni a campi conoscitivi diversi.

Nel proporre di dedicare uno spazio particolare alle strategie didattiche, intendiamo tenerci lontani sia dall’antididatticismo sia dal didatticismo estremo (come teoria di una didattica generale).

Intendiamo le strategie didattiche come i metodi tipici e le procedure utilizzabili, nell’insegnamento della filosofia, per la razionalizzazione dei percorsi di insegnamento.

Tali strategie sono formulate tenendo conto di un doppio vincolo:

 

a.        le caratteristiche generali dei processi di apprendimento (individuali e di gruppo);

b.       le operazioni caratteristiche del pensiero filosofico.[33]

 

Riteniamo che l’insegnamento della filosofia richieda una metodologia specifica (riconducibile al cosiddetto laboratorio filosofico), con caratteristiche distintive rispetto ad altri campi di sapere.

 

 

Il modello pedagogico

 

Nella seguente tabella riepilogativa sono indicati, in forma sintetica, i nuclei, le strategie didattiche e le macrocompetenze del modello pedagogico che illustriamo nei paragrafi seguenti. [34]

 

Nuclei

didattici

Strategie

didattiche

Macro

Competenze

Centralità dei problemi

Domande filosofiche

Problematizzare

Centralità del metodo

Laboratorio del metodo

Argomentare

Apertura culturale

Esplorazioni filosofiche

Selezionare le informazioni

Costruzione intersoggettiva

Laboratorio delle teorie

Concettualizzare

Complessità interpretativa

Studio di casi

Interpretare

Conoscenza storico-filosofica

Lettura dei testi

Valutare le fonti

Apprendimento attivo

Dialogo e lavoro di gruppo

Valutare le argomentazioni

 

 

 

 

Nuclei fondanti

 

1. Centralità dei problemi. Alcuni studenti nutrono aspettative elevate nei confronti della filosofia: la concepiscono come una disciplina che li aiuti ad orientarsi nella ricerca di fondamentali risposte per la vita individuale o per quella sociale; altri si accostano al sapere filosofico con circospezione, privi di aspettative positive e con l’idea di non trovarvi altro che un inventario delle più originali ed astruse elucubrazioni che la mente umana ha prodotto nel corso della storia.

Vi è da chiedersi in che misura l’approccio didattico consueto fornisca un’adeguata risposta a questi atteggiamenti spontanei. Apparentemente in modo piuttosto limitato. Gli studenti meno motivati non traggono alcun incentivo dall’impostazione didattica di tipo storiografico “tradizionale” (basata unicamente sull’illustrazione storico-cronologica di autori o opere).

Gli studenti più motivati, invece, vanno alla ricerca di conferme alle loro convinzioni spontanee, esprimendo simpatie o idiosincrasie per l’uno o l’altro autore. Il lavorio mentale di valutazione degli argomenti rimane, però, questione privata di cui l’insegnamento non si occupa. Le ragioni che spingono alla scelta – tra diverse visioni filosofiche –  non sono sottoposte ad una discussione intersoggettiva e, a volte, paiono sconfinare nel campo delle simpatie o antipatie “di pelle”, piuttosto che rappresentare delle riflessioni articolate.

In genere gli studenti hanno idee ben chiare (seppure non sempre condivisibili) a proposito delle questioni morali, religiose o politiche, ma troppo spesso tali convinzioni assomigliano a delle fedi, piuttosto che a tesi argomentate o argomentabili.

Lo studio paziente dei classici e la lunga sequela di testi ed autori non riescono ad intaccare questa situazione; per questo occorre ipotizzare un diverso approccio alla filosofia, partendo da problemi “autentici” – cioè direttamente ed esplicitamente connessi con i problemi della vita e della cultura contemporanea – affrontati dapprima in una chiave più vicina al discorso ordinario e alle teorie spontanee (più o meno ingenue), per arrivare – anche attraverso i testi classici, i temi filosofici e gli autori – alla riformulazione più rigorosa e ricca (dal punto di vista teoretico) delle medesime questioni.

L’elenco dei nuclei problematici su cui concentrare l’attenzione risulta ampio; senza voler fornire un’elencazione sistematica si potrebbero, ad esempio, indicare: le questioni di bioetica, il diritto dei popoli, i diritti fondamentali dell’individuo, la questione dell’eguaglianza e della giustizia, la certezza delle scoperte scientifiche, fede e ragione, il problema della vita felice, la coscienza e le macchine. Questi problemi risultano più chiari, “autentici” e comprensibili per chi si avvicina alla filosofia, rispetto alle problematiche di tipo storico-culturale generalmente proposte dalla scuola.

Proponiamo, perciò, di partire sempre da domande di senso, di verità e di valore, affrontando con metodo il tentativo di articolare una descrizione raffinata delle questioni ed una visione più feconda delle argomentazioni.

Un’impostazione di questo genere richiede una visione più umile e pragmatica della filosofia; le grandi questioni (il bene, il bello, il vero) vanno esaminate al loro livello “elementare”, cioè nelle forme più concrete ed accessibili. Ogni domanda deve essere affrontata a partire dal sapere applicato e da una prospettiva concreta, per acquistare progressivamente maggiore generalità.

I testi classici non perdono affatto, in questa impostazione, la loro importanza; ma non basteranno più rinsecchite citazioni più o meno lunghe, come fiori recisi dalla pianta; occorreranno ampi estratti testuali, opportunamente scelti e graduati per complessità e pertinenza rispetto al problema da esaminare. Non più la brevità epigrammatica e quasi oracolare dei piccoli estratti, bensì l’ampiezza distesa di un lungo ragionamento di cui apprezzare, valutare o mettere in dubbio le ragioni.[35]

 

2. Centralità del metodo critico-argomentativo. Se l’obiettivo è quello di accompagnare gli studenti nell’acquisizione di una visione teoreticamente più solida e matura dei problemi filosofici, posti dalla cultura contemporanea, è certo che occorrerà insistere maggiormente sulla padronanza dei metodi tipici della riflessione filosofica.

La rilevanza culturale della filosofia consiste, da un lato, nella ricchezza delle ipotesi – a volte assai originali – formulate per dare risposta alle domande più difficili e, apparentemente, insolubili. Dall’altro lato, consiste nella elaborazione di un metodo generale di conduzione della riflessione razionale nel campo dell’incertezza e della complessità. Il patrimonio specifico, dal punto di vista metodologico, della filosofia è costituito da un insieme di strategie razionali e argomentative, la cui consapevolezza è già presente fin dalle origini greche della filosofia (metodo dialettico).

La filosofia non può certo pretendere di fornire, oggi, un metodo generale per la ricerca razionale: il campo delle “metodologie delle scienze” si è arricchito ed articolato enormemente, dalla logica (intesa come logica matematica, cioè metodologia dell’argomentazione matematica di tipo assiomatico-deduttivo) all’esperimento, dal calcolo delle probabilità  alla metodologia delle scienze storiche.

Resta, però, il fatto che le scienze esatte, o quelle della natura, non esauriscono affatto il campo del sapere umano. Le questioni più quotidiane e, all’opposto, quelle più cruciali e difficili - per la società o l’individuo - rientrano in un campo di riflessione più vasto delle singole scienze, in cui il “gioco” delle ragioni è assai più sfumato, controverso e indecidibile. In questo campo il metodo filosofico della “dialettica”, arricchito dai contributi moderni della teoria dell’argomentazione, conserva una sua indiscutibile attualità ed utilità.[36]

Una malintesa visione epistemologica ha portato ad identificare il pensare con il dedurre, l’argomentare con il ricavare logicamente da ipotesi e con il determinare in misura rigorosa la maggiore o minore corroborazione di una tesi. Si è ingenerata la convinzione che possa esservi una perfetta sovrapponibilità tra i metodi “forti” della scienza e quelli della riflessione argomentativa, e che le differenze siano unicamente di tipo qualitativo:  l’incompletezza e l’approssimazione logica da una parte, il rigore dall’altro.

Una differente tradizione di pensiero ha rivendicato, invece, l’esistenza di un metodo diverso da quello strettamente sperimentale e da quello assiomatico, testimoniandone la presenza diffusa fuori ed entro la scienza (ad esempio, nel campo giuridico e, rispettivamente, nelle discussioni argomentative sulle interpretazioni più plausibili dei risultati sperimentali): un livello di riflessione argomentativa, rispettosa della logica, ma non sovrapponibile ad essa.

Buona parte delle scelte individuali e sociali richiedono un’indispensabile competenza tecnica, ma non sono disgiunte da valutazioni di tipo argomentativo e critico, nel senso tradizionalmente sperimentato dalla filosofia: definire in modi alternativi un problema, chiarirne la struttura, esplorare gli argomenti opposti, valutare la plausibilità e la coerenza delle argomentazioni a favore o contro una determinata conclusione ipotetica.

La cultura di ogni giorno è imbevuta di procedimenti argomentativi e filosofici, ma non ci accorgiamo della foresta che ci troviamo davanti; continuano a citare e considerare solo modelli di razionalità inadeguati, come la dimostrazione matematica o l’esperimento.

L’importanza del metodo nell’insegnamento della filosofia è stata oggetto di numerosi interventi. Non basta, a nostro parere, evidenziare la centralità di questo fattore formativo; occorre anche farne un obiettivo esplicito (non episodico), graduale e ciclico del percorso di insegnamento. Senza, però, confondere la “competenza argomentativa” con la semplice conoscenza delle principali classificazioni e definizioni della teoria dell’argomentazione o della storia della dialettica.

 

3. Apertura culturale. I filosofi si sono sempre felicemente interessati di questioni apparentemente non filosofiche. Vi sono questioni e problemi che non sono immediatamente etichettabili come filosofici (ad esempio, il problema della mente o quello dei metodi scientifici); è il modo di affrontarli, le domande  e le deduzioni che ne derivano, a caratterizzarli come ascrivibili alla filosofia.

Altri problemi sono più chiaramente riconducibili al campo della filosofia (ad esempio, il problema del divino o dell’esistenza), ma anch’essi potrebbero essere affrontati in modi alternativi: il problema dell’esistenza di Dio, ad esempio, può essere affrontato dal punto di vista dell’argomentazione razionale o della semplice credenza; da una parte avremo la filosofia della religione, dall’altra una qualche forma di fideismo.

È vero, in un certo senso, che non si può non filosofare, dato che il rifiuto stesso di discutere le proprie ragioni rappresenta – di per sé – una scelta di campo filosofico; ma, in senso proprio, indichiamo con la denominazione di “filosofia” proprio l’aperta disponibilità a sottoporre le proprie ragioni ad un controllo intersoggettivo. La filosofia potrebbe essere caratterizzata come un tentativo di chiarificazione razionale di questioni poste dal senso comune, dalla cultura e dalle scienze e di cui né il senso comune, né le scienze possiedono una risposta esauriente.

L’immediata conseguenza didattica di questa visione è, a nostro parere, la seguente: i testi e le questioni di cui si occupa il filosofo o lo studente di filosofia dovrebbero essere sia testi e problemi classici - in cui la tradizione ha depositato i risultati più originali ed importanti della riflessione filosofica - sia documenti di vario tipo, particolarmente significativi, forniti dalla cultura contemporanea.

Se, infatti, il filosofo elabora le sue concezioni nel confronto tanto con gli autori del passato, quanto con le molteplici e disparate influenze della cultura e della scienza odierna, altrettanto dovremmo prevedere per gli studenti.

Il testo classico può venire affrontato più efficacemente accostandolo ad altri testi e documenti più recenti che possano “contestualizzarne” il significato, rispetto alla forma attuale dei problemi filosofici classici.

 

4. Costruzione intersoggettiva. Si è ripetuta con insistenza, negli ultimi anni, l’idea della filosofia come occasione formativa entro cui porre domande di senso, di verità e di valore difficilmente collocabili in altri momenti dell’attività educativa. Questa impostazione formativa ripropone l’ideale di una cultura umanistica, contrapponendosi ad una visione segmentata del sapere, della vita e della personalità.

Si tratta di una sfida culturale tra le più rischiose, piuttosto che di un’avventura di cui sia scontato l’esito positivo; gran parte del “comune sentire” - ed anche l’opinione di molti studiosi - è orientata in ben altro senso: all’idea di un’inevitabile frantumazione ed opposizione dei saperi. Si sostiene che la cultura è inevitabilmente specializzata e scomposta in una babele di multiformi conoscenze e competenze (il cui significato complessivo sfugge agli stessi protagonisti della ricerca), in una rincorsa inarrestabile verso l’ampliamento del sapere.

Nessun senso, nessuna verità, nessun valore sembra emergere, in apparenza, da questo sforzo composito, la cui unica giustificazione pare essere l’inesauribile curiosità umana ed il desiderio di potenza. Non vi sono argomentazioni o ragioni più plausibili di altre: ciascuno vive nel chiuso delle proprie convinzioni, che sono simili a delle fedi più o meno illuminate, a riti privati e superstizioni personali oppure a riti condivisi da molti.

L’orizzonte della tecnica ci rinchiude nelle nostre soggettive interpretazioni del mondo, tracciando una netta separazione tra lo spazio della discussione scientifico-tecnica (entro cui è plausibile un discorso intersoggettivo e l’adozione di criteri di razionalità condivisi) e lo spazio soggettivo delle convinzioni personali, entro cui le carte si confondono e strumenti e criteri oggettivi di razionalità sembrano mancare.

Al più, ciascuno di noi può provare a chiarire i presupposti  delle proprie convinzioni (le sue credenze fondamentali) e dedurre correttamente da esse le conseguenze che ne derivano, giustificando, in tal modo, le proprie scelte; ma non esiste la possibilità di una discussione critica pro o contro tali presupposti.

La difesa di una concezione umanistica del sapere si basa, invece, sulla scommessa della possibilità di un confronto intersoggettivo, sulla convinzione che una formazione richieda, per essere completa, anche l’abitudine ad affrontare questioni di senso, di verità e di valore, per quanto esse risultino estremamente complesse. La loro complessità, infatti, è proporzionale alla loro rilevanza, sia a livello personale che a livello sociale.

Non si tratta, semplicemente, di far emergere il vissuto personale degli studenti – le loro convinzioni o i loro pregiudizi – giustapponendoli alle teorie dei filosofi (sperando in una “fusione fredda” che talvolta inaspettatamente si verifica, ma più spesso non si realizza). L’obiettivo del lavoro filosofico a scuola può essere un altro: scandagliare le convinzioni personali, portarle a galla, definirne i contorni sfuocati, problematizzarle, farle collidere con opinioni diverse ed autorevoli, innescare la reazione a catena della discussione e dell’argomentazione, soppesare le soluzioni, distinguendo quelle con un valore intersoggettivamente accettabile dalle convinzioni meramente personali.

Fare questo significa concepire il gruppo degli studenti come comunità di ricerca per la costruzione - personale, ma intersoggettivamente controllata - delle argomentazioni di senso, di verità e di valore.

Nel lavoro in comune dovrebbero essere messi a punto gli strumenti di una discussione che possieda i caratteri della fondatezza intersoggettiva, evitando invece i pericoli della emotività argomentativa. Nessuno rinuncerà alla passione delle proprie convinzioni, ma ciascuno si renderà conto del valore (razionale o meno) delle proprie argomentazioni e della possibilità che esse hanno di essere accettate dagli altri come ragionevoli.

Questo rappresenta, tra l’altro, il presupposto per la conquista della difficile capacità di rinunciare ad una propria convinzione qualora non si riesca in alcun modo ad argomentarla in maniera sufficientemente accettabile.

 

5. Complessità interpretativa.

Il “metodo dialettico”, maturato all’interno della filosofia, trova le sue applicazioni nelle zone più distanti della frammentata cultura contemporanea, dalle scienze dell’uomo a quelle della natura. La filosofia può, allora, essere considerata una palestra formativa per l’apprendimento di un metodo caratteristico della riflessione, di cui ci serviamo nel prendere decisioni o nel trarre conclusioni in contesti complessi, in base a dati incerti o incompleti.

L’arte dialettica (o metodo critico-argomentativo) prende in considerazione ragioni “verosimili” e utilizza complessi di dati ampi, ma non tali da permettere conclusioni certe o altamente probabili (come esempio si considerino le discussioni argomentative degli scienziati sui risultati sperimentali relativi al prione della “mucca pazza” o del HIV). È, dunque, la capacità di soppesare i fatti, le prove, gli indizi e le deduzioni, in vista di una conclusione o di una decisione.

Riteniamo che il ruolo formativo centrale della filosofia dipenda proprio dalla pervasività di questa capacità critico-argomentativa; essa, quindi, assume un’importanza fondamentale nella formazione culturale di qualsiasi cittadino che aspiri ad una formazione completa.

Questo “autentico” filosofare si esercita realmente solo in contesti di complessità problematica, di difficoltà argomentativa, di pluralità di esigenze concorrenti e di possibili soluzioni. Se lo studente riesce ad acquisire questa capacità di orientamento, di analisi, di riflessione e di decisione rispetto alla complessità delle questioni filosofiche, si determina un potenziamento di abilità fondamentali per  affrontare la “complessità sistemica” della realtà[37].

Solitamente i contesti complessi presentati agli studenti sono costituiti da testi classici ed i problemi da affrontare si limitano spesso alla contestualizzazione storica del testo, al riconoscimento della sua strutturazione interna, allo studio del rapporto dell’opera rispetto all’evoluzione del pensiero dell’autore, al riconoscimento delle somiglianze e differenze con altri filosofi, alla comprensione del lessico. Si tratta di attività certamente proficue, ma anche alquanto “fredde”, in un duplice senso: appaiono piuttosto artificiose e distanti dall’orizzonte dei pensieri e degli interessi di un adolescente; inoltre la loro rilevanza rispetto alla cultura contemporanea non risulta sempre chiaramente esplicitata.

Occorrerebbe innestare  questi percorsi storiografici su problemi e temi che risultino più vitali e “caldi”, affrontando testi di filosofia applicata, cimentandosi nell’analisi di casi, esaminando problematiche morali legate alla contemporaneità. In questo modo risulterebbe anche più facilmente comprensibili il significato e l’attualità culturale dello studio filosofico[38].

 

6. Conoscenza storico-filosofica. L’approccio storiografico-testuale[39] alla filosofia può risultare ricco di interessanti implicazioni formative; ma è sufficiente questo per farne una metodologia esclusiva?

L’operazione di recupero di documenti classici può essere condotta a diversi livelli e profondità. L’approccio più rigido è quello tradizionale, basato sull’idea che lo sviluppo delle correnti filosofiche (secondo la codificazione storiografica ottocentesca) costituisca una sorta di “fenomenologia dello spirito” che, per consonanza, contribuisce alla crescita filosofica della personalità dei giovani.

All’opposto sta l’altra concezione, secondo cui per educare filosoficamente non è necessario spingersi troppo indietro; è sufficiente recuperare il dibattito più recente (gli ultimi decenni), in ciascuna area filosofica, per essere certi di non perdere nessun elemento teoretico fondamentale.

Ciascuna di queste opzioni ha autorevoli sostenitori; rispetto alla tradizione italiana di studi filosofici - e in relazione alle caratteristiche dell’insegnamento secondario - sembra essere preferibile una soluzione intermedia che eviti sia l’aridità filologica di ricostruzioni storiografiche ineccepibili ma aride, sia l’avanguardismo di un approccio per problemi che escluda radicalmente la lettura dei testi classici.

Lo studio delle testimonianze del passato – prossimo o remoto – non è un valore in sé (dal punto di vista formativo), ma un’esigenza legata a domande filosofiche che siano (per lo studente) chiare e ben definite. L’insegnamento mirato esclusivamente e prioritariamente alla precisione filologica e storiografica risulta più adatto a studenti universitari che a quelli della scuola superiore; per questi ultimi, una impostazione rigorosamente storiografica ingenera rapidamente noia ed assuefazione.

La conseguenza naturale di ciò è che  la tradizione – dal punto di vista dello studente – ha significato non in quanto storia della filosofia tout court, ma in quanto può essere vista come lo “stato dell’arte” delle ricerche relative ad un certo tema o ad un problema.

Ciò non significa che si debba rinunciare ad esigere precisione nelle ricostruzioni storiografiche. La soluzione intermedia che, nella nostra esperienza, è risultata più efficace si basa sull’idea di prevedere alcuni moduli (due o tre all’anno) di inquadramento storiografico per grandi periodi storici e per autori, in modo da fornire una intelaiatura entro cui collocare sensatamente le informazioni più specifiche.

Dopodiché lo sforzo di contestualizzazione storica dei documenti – riferiti sempre a nodi concettuali e problematici ben chiari ed espliciti –  viene considerato un requisito strumentale necessario per “attualizzare” testi del passato, riferendoli alle domande e alle questioni di cui ci si sta occupando.

Si tratta di cogliere l’essenziale d’una posizione filosofica, distinguendolo dagli elementi di relatività storica. Ciò si realizza mediante una duplice operazione:

 

a)       intendere fedelmente il testo nel suo contesto storico e nella complessità degli intrecci culturali;

b)      distillare ed interpretarne il senso filosofico, per poterlo riferire alle domande significative da cui ha preso avvio la riflessione in classe.

 

I fraintendimenti sono naturalmente possibili e probabili, ma essi possono rappresentare un’occasione favorevole per intervenire con precisazioni e chiarimenti storiografici più mirati.

È ovvio che gli studenti non giungono sempre ad un rigore storiografico paragonabile a quello che ci potremmo attendere da studenti universitari; ma spesso essi dimostrano di possedere insospettabili risorse interpretative. Frequentemente sottovalutiamo le loro capacità di analisi e tendiamo a sostituirle con l’apprendimento mnemonico di un barocco apparato di note, introduzioni e schede di commento.

Seguendo questa impostazione, è probabile che, al termine del triennio di insegnamento filosofico, gli studenti non disporranno di una mole imponente di informazioni storiografiche (ma c’è da dubitare che la grande maggioranza degli studenti, che seguono un percorso più tradizionale, realmente le acquisisca e le conservi per un periodo più lungo di un quadrimestre o di un anno scolastico). Questa parziale perdita può, tuttavia, essere compensata dalla padronanza delle fondamentali strutture storiografiche (esse devono risultare essenziali, solide  e chiare), delle categorie specifiche del pensiero filosofico, degli strumenti e dei metodi di ricerca indispensabili per reperire informazioni.

Ci interessa soprattutto che gli studenti possano avvicinarsi direttamente alle opere filosofiche nella maniera più naturale – per trovarvi delle interpretazioni e delle risposte – dedicando parecchio tempo alla lettura di testi lunghi, ma accessibili e ben tradotti.

È importante, per noi, che, al  termine del loro percorso di studi, i ragazzi conservino il piacere di considerare la tradizione filosofica come un tesoro a cui attingere per trovare stimoli ulteriori per le loro riflessioni. Non vorremmo, al contrario, scatenare alcuna allergia da “indigestione” storiografica.

 

7. Apprendimento attivo. Abbiamo sinora sostenuto che l’obiettivo principale del lavoro filosofico a scuola è l’acquisizione di strumenti intellettuali, di metodi e strategie di pensiero, di attitudini riflessive e produttive; cioè di “competenze” filosofiche.

Questa impostazione comporta la drastica riduzione dell’insegnamento unidirezionale e cattedratico e il ridimensionamento dell’impostazione didattica astratta e deduttiva.

L’apprendimento di competenze è sicuramente condizionato dall’assimilazione di una grande quantità di conoscenze: non potrebbe esservi una buona competenza senza momenti intensivi di insegnamento in senso tradizionale (di concetti, di metodi, di teorie), cioè attraverso la mediazione delle lezioni dell’insegnante o dello studio di materiali strutturati. Ma l’apprendimento non si riduce solo a questo: è indispensabile una fase di rielaborazione attiva e di acquisizione della padronanza dei termini, dei concetti e dei metodi.

L’apprendimento, di conseguenza, non può essere semplicemente riproduttivo, cioè basato sulla conoscenza di informazioni o sulla loro comprensione analitica.

Né può basarsi sulla semplice conoscenza e comprensione dei metodi argomentativi, piuttosto che dei singoli filosofi e delle loro opere.

Si tratta di altro: occorre esercitare gradualmente e ciclicamente quelle abilità (di problematizzazione, concettualizzazione, argomentazione, confronto e valutazione) che riconosciamo come tipiche della filosofia. La riflessione su di esse e lo studio teorico rappresentano solo il momento di consapevole assimilazione e di strutturazione formale di quanto è stato sperimentato operativamente.

L’apprendimento attivo – cioè il laboratorio didattico – è connaturato alle finalità della formazione filosofica e non può essere considerato solo una significativa appendice di essa. Nel laboratorio gli studenti (individualmente, con l’aiuto dell’insegnante, o in gruppo, con o senza la presenza di stimoli strutturati) cercano da soli e induttivamente le risposte ad un problema (di vario tipo: storico-interpretativo, argomentativo, concettuale, testuale, eccetera).

 

 

Pratiche didattiche

 

1.       Formulazione delle domande filosofiche. Sono almeno tre le ragioni che spingono ad attribuire particolare importanza al momento della “problematizzazione” filosofica.

La prima ragione è di tipo psicopedagogico: si tratta di far percepire in termini chiari e concreti qual è la questione di cui ci si sta occupando e in che cosa consiste la sua importanza.

Una mossa didattica di questo tipo è senz’altro favorevole, in quanto predispone gli studenti ad una curiosità mirata e ad un’attenzione selettiva: anche nell’intricato sentiero di ricostruzione di un testo o del pensiero di un autore, gli studenti avranno ben presente qual è la meta finale e qual è lo scopo che giustifica lo sforzo di interpretazione e di riflessione.[40]

Questo vantaggio si può però facilmente tramutare in un ostacolo, dato che sposta le aspettative degli studenti verso l’alto: se abbiamo fornito loro delle domande e dei problemi cui rispondere, essi si aspetteranno che il percorso didattico non si esaurisca nella conoscenza di un periodo storico specifico o di un filosofo, ma sia orientato alla ricerca argomentata o alla ricostruzione – nei testi letti – di risposte alle questioni poste. Un percorso che si apra con una problematizzazione, per poi proseguire secondo le modalità consuete della rassegna storica, manifesta un’intima contraddittorietà didattica, che viene presto colta dagli studenti. Non ha senso sollecitare delle dissonanze cognitive se esse non costituiscono poi l’occasione per una ristrutturazione del campo conoscitivo.

     La seconda ragione che spinge ad attribuire importanza alla problematizzazione è interna al discorso filosofico. Problematizzare significa recuperare la domanda di senso, di verità o di valore che giustifica la lettura di un determinato testo. Rappresenta, quindi, la fase di costruzione di una struttura concettuale di base su cui ramificare articolazioni più complesse di pensiero.

       L’esplorazione del ricco repertorio di teorie – complementari o alternative – elaborate dai filosofi  è troppo spesso considerata secondo un modello storicistico, in cui si sottolinea la permanenza di alcune grandi questioni e la organicità del pensiero rispetto al contesto storico-culturale.

       Si tratta di un modello storiografico a senso unico, cui sfuggono due circostanze:

 

a)         il fatto che le grandi questioni filosofiche sono soggette ad una costante riformulazione, in termini aggiornati rispetto alla situazione culturale del momento (ad esempio, le domande ontologiche permangono anche nella cultura contemporanea, ma non hanno più un ruolo di tipo fondazionale rispetto al complesso del sapere);

b)         il fatto che molto spesso gli studenti percepiscono il significato formativo dei percorsi storici in modo riduttivo rispetto alle intenzionalità educative dei docenti: la contestualizzazione storico-culturale che ci sforziamo di compiere in classe e la correttezza filologica dei riferimenti vengono intese nell’accezione ridotta di una relativizzazione storica dei problemi e delle risposte fornite dai diversi filosofi; si risolvono quindi in un depotenziamento dell’implicita carica problematica e dell’attualità del messaggio filosofico. Vi è il concreto rischio che il fare filosofia, al di là delle intenzioni esplicite, si tramuti nella confortante e consueta visione progressiva del divenire storico per cui, immaginandoci sulle gigantesche e robuste spalle del sapere presente, guardiamo con compiacimento ai modesti e incompleti contributi delle generazioni passate.

 

Collocare un testo nel suo contesto è indispensabile per capirlo, cioè per ricostruirne il senso razionale rispetto ad una domanda che  accomuna noi e chi, in passato, ha scritto e riflettuto sul medesimo problema.

La problematizzazione risulta fondamentale anche per un terzo motivo: rappresenta la fase di emersione e di attivazione dei saperi spontanei, delle concezioni più o meno ingenue.

Non si tratta di pretendere dagli studenti dei prerequisiti o delle condizioni vincolanti (semmai il problema dei prerequisiti ha a che fare con la capacità dell’insegnante di graduare opportunamente la sequenza degli apprendimenti); si tratta di prendere atto delle strutture cognitive già esistenti e delle spontanee elaborazioni di  precise visioni dell’uomo, della società e del mondo.

Nel momento stesso in cui si creano condizioni didattiche per l’affioramento di queste masse sommerse, si provoca un’onda sismica sulle strutture portanti del pensiero e si determina una prima interazione formativa: il conflitto delle interpretazioni rappresenta di per sé il terreno più fertile per l’operazione di problematizzazione.[41]

Un’ultima considerazione è, però, necessaria. Se la problematizzazione è da considerare una fase metodologica fondamentale, non per questo si devono sprecare le opportunità formative che essa offre. Questo primo momento didattico è estremamente favorevole alla presentazione di un modello di riflessione e alla sua progressiva interiorizzazione. Soffermandoci sulle fasi e sulle tecniche della problematizzazione, riusciremo a farla assimilare come mentalità e come competenza effettiva.

La problematizzazione, cioè, risulterà tanto più efficace quanto più saremo in grado di precisare quali tipi di abilità la compongono, in modo da farla divenire una padronanza autonoma (occorre quindi un’analisi di tipo sistematico che ne scandisca le fasi e le modalità: qual è il problema, quali gli aspetti in cui può essere suddiviso, quali le possibili soluzioni inizialmente disponibili, eccetera).

 

2. Il laboratorio dell’argomentazione. L’importanza della consapevolezza argomentativa può essere difficilmente sottovalutata da chi ritiene che la filosofia non sia semplicemente un sistema chiuso da proporre ai ragazzi, né sia una vuota rassegna delle più remote e singolari concezioni dell’uomo, della vita e del mondo.

Ritornare ai testi classici significa ridare voce ai problemi autentici che spingono, in ogni epoca, alla ricerca di argomentazioni ingegnose per tentare una risposta filosofica.  Non c’è, quindi, filosofia autentica senza esperienza dell’argomentazione.[42]

Detto questo, si aprono due prospettive e due scenari possibili.

Una volta posta con chiarezza la domanda filosofica cui un testo si riferisce, possiamo andare alla ricerca degli schemi argomentativi presenti in esso. Cercheremo, cioè, di estrarre dal testo la linea di ragionamento che conduce dall’enunciazione di ipotesi e problemi, alla “prova” delle tesi. In questo modo sollecitiamo abilità di comprensione e di analisi (testuale ed argomentativa).

Se, tuttavia, il laboratorio filosofico si riduce solo a questo, ci pare non ne derivi un arricchimento molto consistente delle competenze degli studenti. Si rischia semplicemente di sovrapporre alla comprensione intuitiva e globale di un testo una procedura schematica ed estrinseca, che si rivela, in poco tempo, superflua e demotivante.

L’altra possibilità è che l’analisi argomentativa si arricchisca progressivamente di aspetti nuovi, senza ridursi allo schema riduttivo della tripartizione tesi, argomenti, conclusioni. La sequenza dei testi dovrebbe costruire, in filigrana, una panoramica di differenti strategie argomentative, di complessità via via crescente.

Una volta individuato il tipo di risposta che l’autore fornisce, rispetto alla domanda filosofica da cui si è partiti, uno spazio di riflessione metacognitiva dovrebbe essere dedicato a queste strategie con un duplice obiettivo: acquisire consapevolezza delle loro diverse peculiarità e familiarizzare con l’uso di esse.

Se manca l’esercizio nell’applicazione graduale (da contesti più semplici e noti, a questioni più complesse e distanti da quelle originarie) non possiamo ritenere che vi sia realmente una competenza argomentativa; semmai c’è solo una conoscenza dei principali assunti della teoria dell’argomentazione.

Il laboratorio del metodo è uno spazio di pratica e di esercizio da inserire – con delle opportune “finestre” – all’interno degli usuali percorsi didattici, siano essi storici, tematici o problematici.

 

3. Esplorazioni filosofiche del testo.

Un testo compreso dopo un prolungato sforzo di decifrazione viene amato come un oggetto personale (o come un amico che parla difficile, ma che suggerisce pensieri profondi), ci lascia il gusto della conquista e la soddisfazione del riconoscerci capaci di risolvere un rompicapo interpretativo. Non scambiamo, però, il pensiero filosofico con la dorata cesellatura che lo fa risplendere. L’apprezzamento del testo, la sofisticata lettura della pluralità delle sue significazioni, rappresentano il livello estetico-letterario o storico-filosofico della comprensione.

Dal punto di vista più strettamente filosofico occorre andare oltre, in due distinte direzioni. Da un lato, ritornare alle domande teoretiche di partenza, individuando, nei testi, gli schemi di risposta. Cioè ricomponendo e ricostruendo razionalmente il ventaglio delle risposte possibili ad un dato problema. È la prospettiva dell’analisi sistematica di una questione filosofica, delle ipotesi di soluzione e delle argomentazioni ad esse relative.

Dall’altro lato, si può riflettere sulle strutture argomentative e critiche, sulle metodologie di valutazione delle prove e degli indizi. I testi forniscono occasioni per arricchire le capacità di criticare una tesi o di sostenerla in modo razionale (escludendo, naturalmente, uno scopo meramente persuasivo; semmai la filosofia dovrebbe insegnare a non cadere vittime, contro la propria volontà, di meccanismi retorici dell’argomentazione).

In conclusione, il testo è la fonte documentale primaria, ma rispetto a vincoli ben precisi: allo studioso di filosofia interessa prioritariamente circoscrivere i problemi di cui, nel testo, ci si occupa, e le strategie argomentative o critiche che esso racchiude.

 

4. Laboratorio teoretico. Nella lettura dei testi filosofici sono possibili due atteggiamenti ermeneutici piuttosto diversi. Si può, da un lato, sottolineare l’aspetto della identificazione per riconoscimento.

Secondo questa visione il processo di apprendimento si scandisce in tre fasi caratteristiche. Ogni lettore (studente o esperto) affronta il testo utilizzando un’insieme di precomprensioni e categorie interpretative “personali”; esse sono, in gran parte, il prodotto di esperienze culturali del presente e del passato (una sorta di identità filosofica in sé). Ciascun individuo le ha assimilate nel corso delle proprie esperienze formative e di socializzazione.

La conoscenza dei testi classici del pensiero filosofico oggettiva ed esplicita questi presupposti culturali, provocando una consonanza immediata e un confronto con le idee spontanee del lettore (identità filosofica per sé).

A questo punto, il lettore riorganizza il proprio vissuto personale e le proprie riflessioni spontanee in modo più consapevole, proprio grazie alle riflessioni sistematiche contenute nei “classici” (conquista definitiva di una identità in sé e per sé).

Senza negare l’esistenza di processi formativi di questo genere, si può considerare un altro tipo di rappresentazione dell’apprendimento, una descrizione in cui prevale l’ibridazione costruttiva degli stimoli culturali, piuttosto che la semplice identificazione culturale.

Ciò che frequentemente si realizza, nella mente di un lettore e di uno studente, è l’affioramento di problemi simili, ma non del tutto eguali, a quelli affrontati dai filosofi del passato. Nella mente di ciascuno studente prendono forma le domande o il frastuono assordante dei grandi problemi irrisolti della nostra epoca e della nostra cultura (la guerra/la pace, il potere della scienza, l’identità dell’uomo, eccetera).

Nei testi classici i ragazzi scoprono – se vi è un’adeguata mediazione didattica - la ricorrenza di problemi analoghi a quelli che li riguardano. Da ciò nasce la curiosità di esplorare le possibili strategie di soluzione già sperimentate, nella speranza di coglierne qualcuna che possa – con gli opportuni adattamenti – essere trasferita anche alle situazioni culturali e sociali più vicine alla loro sensibilità.

L’autentico apprendimento filosofico non si verifica semplicemente con l’adesione a questa o quella tradizione di pensiero (a  meno che non si voglia identificare la filosofia con qualche forma di Scolastica), ma provando a strutturare teorie ed argomentazioni personali,  appropriandosi di materiali a volte disparati ed eterodossi.

L’atteggiamento costruttivista, più che quello imitativo-identificativo, ci pare più formativo e motivante rispetto all’apprendimento scolastico.[43] Ci pare che raramente gli studenti desiderino avvicinarsi alla tradizione filosofica semplicemente per comprenderla e per reperire dei modelli di identificazione; più spesso cercano di attingere alla tradizione per tentare soluzioni che comportano uno sforzo ideativo personale (per quanto limitate e manchevoli possano risultare le concettualizzazioni che ne risultano).

 

5. Studio di casi.

Nell’analisi complessa di un testo classico abbiamo solo un caso paradigmatico di situazione complessa. Abilità ancora più articolate sono necessarie per affrontare casi reali che abbiano una valenza filosofica (ad esempio, il problema etico della clonazione).

Le abilità testuali (cfr. il successivo punto 6), da questo punto di vista, sono fondamentali in quanto propedeutiche ad operazioni più elaborate. Studiare un caso significa identificare fatti, raccogliere argomentazioni e confrontare interpretazioni e soluzioni: agli studenti verrà proposto di confrontarsi con una pluralità di testi da interpretare e valutare, gravitanti attorno alla medesima questione.[44]

Solo operando “per casi reali” riteniamo si possa passare dall’esercizio di competenze testuali a quello, più complesso, di (incipienti) competenze filosofiche in senso proprio.

 

6. Filosofia e storia della filosofia. Ogni testo è una realtà complessa che si presta ad una pluralità di possibili interpretazioni; non possiamo riconoscere nel testo un significato universale, semmai possiamo dire che esso provoca una universale e ricorrente curiosità filosofica.

Insegnare a leggere un testo, dal punto di vista critico-argomentativo, significa far comprendere che qualsiasi testo, per potere essere inteso, dev’essere in parte ricostruito.

Ogni testo viene innestato nel nuovo contesto delle nostre domande e delle nostre riflessioni. Leggendo un’argomentazione o una confutazione, noi ne interpretiamo il senso, le omissioni, le premesse nascoste. Nel momento in cui ci affidiamo ad una autorità filosofica o ne contestiamo le ragioni, dobbiamo essere preparati a giustificare la adeguatezza della nostra interpretazione del testo, a non confondere ciò che noi asseriamo, da ciò che nel testo è documentato.

Questo, d’altra parte, costituisce un ulteriore esercizio di rigore critico: la capacità di distinguere i fatti dalle possibili interpretazioni con essi compatibili.

La contestualizzazione del testo è un’attività che si ispira ad un valore formativo fondamentale. Rappresenta un esercizio di precisione nella raccolta dei dati. È funzionale all’esigenza di evitare banalizzazioni e fraintendimenti che, ammessi nello studio storico, potrebbero divenire indesiderati modelli d’un atteggiamento superficiale: una pratica di avvio al pensiero rigoroso, alla capacità di distinguere meglio le somiglianze e le differenze, gli aspetti di permanenza e quelli accidentali.

L’accuratezza storiografica è un esercizio di onestà intellettuale; da questo punto di vista, ha un posto ed un ruolo importante nel curriculum, ma rischia di perderlo nel momento in cui diviene una pratica esclusiva di insegnamento.

Non possiamo pretendere che un adolescente ritenga interessante lo studio della filosofia per pura passione dell’accuratezza filologica e storiografica; a meno di non selezionare in partenza gli studenti in base alla preparazione e agli interessi (come prevalentemente accade nel caso della formazione “classica”).

Per tutti gli studenti possiamo invece pretendere che l’accuratezza costituisca un habitus da conquistare ed una capacità da apprezzare; ma, in questo caso, esistono svariati modi per sollecitare tale senso della precisione.

Un surplus di analisi storiografica si può, in genere, motivare solo con percorsi di approfondimento o di eccellenza, scelti dagli studenti ed opzionali, che facciano leva sulla motivazione ad approfondire un autore, un’opera o un metodo di lavoro. Vi sono, invece, due esigenze didattiche da salvaguardare:  fornire ai ragazzi coordinate chiare, essenziali e rigorose della storia della filosofia e garantire l’accesso diretto a testi filosofici originali sufficientemente ampi.

 

7. Dialogo e lavoro di gruppo. La formazione filosofica richiede necessariamente lo sviluppo di atteggiamenti di rispetto e la capacità di confronto.

Gli obiettivi di atteggiamento sono certamente tra i più difficili da raggiungere. Le mete ambiziose che la filosofia si propone possono difficilmente essere conseguite limitandosi a discutere delle differenti possibili interpretazioni di un testo. La modificazione di atteggiamenti richiede tempi lunghi, momenti di emozione e di passione riflessiva: ma nella scuola difficilmente si realizzano queste condizioni.

Gli studenti si animano nella discussione solo quando portano alla luce le loro convinzioni personali. Ma sono pochi coloro che, in questi casi, vanno al di là del “balbettio” intellettuale: non per incapacità loro, ma per mancanza di occasioni educative; nessuno ha mai chiesto loro di articolare un parere argomentato, se non, occasionalmente, nelle composizioni di italiano.

Occorre, invece, riportare il dialogo in classe, non come esplosione episodica ed anarchica dei propri pensieri in libertà, ma come pratica metodica del conflitto delle possibili interpretazioni a riguardo di problemi complessi e significativi. Si può sperare di raggiungere l’obiettivo solo offrendo occasioni ripetute di pratica del dialogo: senza escludere la discussione interpretativa di un testo, ma evitando di limitarsi a quest’unica tipologia.

Il dialogo ed il confronto tra studenti possono fornire una condizione ambientale favorevole all’interiorizzazione progressiva di atteggiamenti critici: la capacità di considerare i vari aspetti di un problema, la ricerca di interpretazioni alternative, il riconoscimento dell’illusorietà di soluzioni semplicistiche.

Il laboratorio di filosofia deve, inoltre, esibire e giustificare le regole di accettabilità condivise perché il dialogo abbia luogo e perché esso giunga “da qualche parte” – a una conclusione o a una decisone –  piuttosto che risultare emotivo e inconcludente. L’esperienza del dialogo non può essere, quindi, né occasionale, né spontaneistica, ma deve mirare alla codificazione progressiva di precise regole razionali.

Andrebbero, inoltre, studiate e sperimentate diverse modalità di confronto, senza limitarsi alla  discussione guidata o libera. Da questo punto di vista, ottime occasioni di apprendimento dialogico possono essere realizzate utilizzando le diverse modalità del lavoro di gruppo.

 

 

Le competenze critico-argomentative

 

Accenniamo brevemente alle competenze generali (macro-competenze) in cui si articolano, in modo naturale, i nuclei didattici sinora esemplificati. L’illustrazione vuole rendere conto della complessità delle competenze messe in gioco nell’attività filosofica (adottando il punto di vista critico-argomentativo), senza però la pretesa di fornire definizioni rigorose ed esaustive, né di evitare parziali sovrapposizioni tra l’una e l’altra area. Una formulazione più rigorosa e sistematica richiede un lavoro di ulteriore analisi, che risulterebbe utile soprattutto in funzione della possibilità di precisare con maggiore esattezza le micro-competenze (abilità) per ciascuna area e i percorsi graduali per la loro acquisizione.

Il tentativo di delineare una tavola delle competenze corrisponde all’esigenza di individuare le aree di abilità specifiche e caratteristiche dell’apprendistato filosofico, cogliendo sia le affinità con altri campi del sapere (presenti perché, come si è detto, le competenze critico-argomentative sono pervasive), sia le differenze specifiche.

 

1. Problematizzare. Il processo di problematizzazione consiste nella progressiva messa a fuoco di un problema o di una domanda che abbiano una specificità filosofica.[45] Si tratta di comprendere una precisa domanda filosofica, identificandola e distinguendola da problemi affini o collegati, di analizzare gli aspetti del problema suddividendolo in parti, di scoprirne aspetti non considerati inizialmente, di comprenderne la portata generale e le conseguenze operative.

 Gli spunti per la problematizzazione filosofica sono molteplici: un fatto, un’affermazione di principio, una convinzione diffusa, un caso problematico (che, cioè, solleva un problema filosofico).

Non si tratta solo di riconoscere un problema, ma, in alcuni casi, di scoprirlo e di definirne meglio i contorni.  La competenza filosofica è, anzitutto, capacità di porre in discussione ciò che solitamente non consideriamo problematico, oppure di mettere in dubbio le soluzioni consuete per un dato problema.

In questo senso si afferma che la radice della filosofia è la “meraviglia”: come capacità di individuare un problema dove solitamente non vediamo che l’ordine o il caos.

Naturalmente questa capacità problematizzante ha delle analogie con la problematizzazione scientifica: si tratta, dunque, di condurre i ragazzi a distinguere l’aspetto tipico della problematizzazione filosofica (il livello filosofico dell’analisi della realtà) e di far progressivamente interiorizzare le basilari strategie e tecniche di problematizzazione.

 

2. Argomentare. L’argomentazione rappresenta la procedura di controllo caratteristica del discorso filosofico. Sebbene forme di argomentazione siano presenti in svariati settori della cultura e delle scienza (sia in quella passata che in quella presente), è proprio nella riflessione filosofica che essa assume una posizione centrale e predominante. 

Lo sviluppo della competenza argomentativa è uno dei vantaggi formativi che la filosofia può offrire, purché l’insegnante ne faccia un contenuto esplicito e consapevole della sua attività.

È fondamentale, per questo, che si recuperi, nella formazione dei docenti, l’aspetto della consapevolezza delle strutture argomentative, attingendo al patrimonio storico della filosofia ed evitando di utilizzare teorizzazioni estrinseche che non rendono conto dell’approccio teoretico al dialogo e alla discussione.

Questa complessità di elaborazione argomentativa è già presente  nell’Organon di Aristotele o, ancor prima, nelle esemplificazioni dialettiche dei dialoghi di Platone o nei testi dei Sofisti.

In queste opere è enucleata una metodologia razionale che non si esaurisce né nelle formalizzazioni della logica deduttiva (sebbene esse possano contribuire grandemente a chiarirne alcuni significativi aspetti), né nelle codificazioni dei metodi induttivi e sperimentali (sebbene la discussione dell’esperimento sia un caso particolarmente stimolante di procedura argomentativa).

Si tratta di recuperare esplicitamente questo tipo di abilità, continuamente esemplificate dai testi filosofici di ogni epoca, facendone un obiettivo intenzionale e graduale delle attenzioni didattiche e utilizzando, per agevolare gli studenti, le formulazioni teoriche più aggiornate.

Senza limitarsi ad illustrare una tipologia di forme argomentative, di generi, o di modelli storicamente determinati, ma puntando ad un vero e proprio tirocinio dell’argomentazione razionale.[46] Non è, infatti, la tipologia degli strumenti argomentativi a disposizione che più interessa, quanto l’utilizzo degli strumenti nella pratica argomentativa, in modo produttivo e via via più complesso.

 

3. Selezionare informazioni rilevanti. L’abilità nel reperire e selezionare dati significativi per la soluzione di un problema è fondamentale in molti campi del sapere.

Nel  caso della filosofia, si tratta di acquisire competenza nel determinare quali basi di informazioni abbiano una rilevanza per le questioni filosofiche; di saperle riconoscere, se già date, o di saperle cercare e individuare se non disponibili.

Occorre, poi, saper valutare l’attendibilità delle informazioni, secondo criteri oggettivi (ma non deterministici) di riferimento.[47]

La macrocompetenza cui ci riferiamo è connessa alla capacità, tipica dei filosofi, di padroneggiare la complessità, cioè di prendere in esame informazioni complesse – appartenenti a molteplici campi del sapere –  per estrarre da esse dati rilevanti e pertinenti, relativi a un dato problema (di tipo filosofico).

 

4. Concettualizzare. Intendiamo indicare con questo termine la competenza nella costruzione o nella manipolazione di strumenti concettuali adatti per la discussione filosofica.

Dal punto di vista didattico si tratta di strutturare le categorie fondamentali del pensiero filosofico – rispetto ad un’area specifica di interesse – e di articolarle progressivamente.

Parallelamente, l’obiettivo da raggiungere è la crescente familiarizzazione nell’uso di questi strumenti, in modo che divengano delle forme intrinseche alla riflessione.

Si tratta, inoltre, di sollecitare la capacità costruttiva ed innovativa del pensiero, perché gli studenti conquistino soprattutto l’autonomia nell’elaborazione induttiva di nuovi concetti, ogni volta che dispongono di sistemi di informazioni sufficienti.

La concettualizzazione è collegata ad abilità induttive, deduttive e applicative; a capacità di comprensione dei linguaggi e di definizione dei termini; ad abilità nella codificazione di procedure e di strategie.

Il campo della concettualizzazione comprende, in un certo senso, l’intera tradizione filosofica. In essa, infatti, è depositato un ricco patrimonio di strumenti concettuali, di categorie e di metodi; alcuni apparentemente più desueti, altri ancora efficienti e in buono stato.

 

5. Interpretare. Una competenza particolarmente significativa, per la filosofia, è la capacità di interpretare in modi alternativi sistemi complessi di dati.

In questo caso vengono messe in azione abilità come la flessibilità e la fluidità ideative, l’abilità nel passare dal piano astratto a quello concreto e nel passare da situazioni note a situazioni problematiche nuove (parzialmente o totalmente).

In queste trasformazioni sono sollecitate abilità fondamentali: valutare opzioni alternative per organizzare i dati, per analizzarli o per risolvere difficoltà interpretative.

Come si è detto, è nello “studio di casi” che si evidenzia maggiormente questa capacità ideativa e costruttiva del pensiero.

L’approccio a casi concreti (solitamente indicato come “filosofia applicata”) sollecita le abilità consistenti nell’applicare, trasferire e adattare modelli esplicativi noti a situazioni (parzialmente) nuove.

Per  mezzo di tali operazioni:

 

a)       il problema viene analizzato in maniera più specifica ed articolata;

b)      le conseguenze operative e concrete di ciascuna impostazione filosofica possono essere esplorate con maggiore precisione;

c)       le ipotesi e le soluzioni alternative possono essere apprezzate e valutate nelle loro conclusioni e nelle conseguenti decisioni.

 

 

6. Selezionare e valutare le fonti. La filosofia si caratterizza per la capacità di esplorare le regioni più distanti del sapere, alla ricerca di elementi e informazioni utili per la riflessione. Questa è la sua forza e, al tempo stesso, la sua debolezza, perché se, da un lato, viene favorita l’ampiezza di vedute, dall’altro, risulta impedita la codificazione di un sapere specializzato e sistematico.

Queste circostanze risultano rilevanti, dal punto di vista formativo. L’attività filosofica tende a sollecitare una specifica macrocompetenza, stimolata proprio dall’incessante andirivieni che lo studioso (o lo studente)  è costretto a compiere nelle sue esplorazioni tra arte, scienza, letteratura e sapere comune (tra i contemporanei o nei testi del passato). Si tratta della capacità di selezionare le fonti (storiografiche, scientifiche e culturali in senso lato) pertinenti alle questioni di cui ci si occupa e di stimarne il grado di autorevolezza e rilevanza.

 

7. Ricostruire e valutare argomentazioni. L’ultima e fondamentale area di competenza si riferisce alla capacità di riconoscere o costruire strategie argomentative/critiche complesse, in modo consapevole e controllato.

Questa  capacità presuppone anzitutto la consapevolezza della differenza tra schemi logici e strutture argomentative (in particolare, la ricorrenza continua di entimemi nelle argomentazioni).

Secondariamente, presuppone la consapevolezza dell’esistenza di strutture argomentative tipiche, schematizzabili e classificabili.

In terzo luogo, comporta la padronanza di criteri razionali per esprimere una valutazione sul grado di forza razionale di una struttura argomentativa rispetto alle interpretazioni alternative.

Si tratta di abilità complesse, ma fondamentali per la formazione razionale al dialogo. Senza di esse la formazione dialogica rimane esclusa dal campo delle metodologie razionali.

 

 

QUALE CLASSE DI FILOSOFIA?

 

L’immagine didattica che emerge da quanto siamo venuti dicendo è quella di una classe “aperta”, in cui si collabora per porre domande, per chiarire le proprie idee, per avanzare piste di ricerca, prospettare ipotesi di soluzione, dare una prima valutazione, fino a raggiungere quelle che, per ognuno, sono verità (o valori) irrinunciabili; ma che immediatamente dopo si scatena nel cercare di demolire criticamente le proprie e le altrui tesi e prese di posizione, nel rispetto di quelle regole che abbiamo più volte richiamato.

La classe di filosofia diviene, in questo contesto, sia una “comunità di ricerca”, sia un agone dialettico. La classe di filosofia diventa lo spazio in cui si affrontano problemi filosofici, si dialoga, confrontandosi con i grandi del passato (e del presente); ma diventa anche il luogo dove si pensa il pensiero, si portano alla luce le strutture logico-argomentative dei nostri ragionamenti, ci si esercita per impadronirsi in modo graduale a mettere in situazione quelle conoscenze e abilità che fanno la competenza logico-argomentativa.

Pratica argomentativa e teoria dell’argomentazione (insieme alla logica elementare) devono andare a braccetto. Parafrasando Kant possiamo dire che la pratica argomentativa  senza teoria è cieca, e la teoria dell’argomentazione senza la pratica di pensiero è vuota.

Il filosofare in classe rischia di scadere o in una seduta di autocoscienza, o nel raggiungimento di verità ovvie e banali, oppure di scadere nella vuota chiacchiera, a meno che non lo si veda come un utile apprendistato in cui gli studenti (oltre che fermarsi a riflettere su alcune questioni filosofiche fondamentali) imparano e si impegnano a rispettare le regole del gioco filosofico, riflettono su cosa fanno  quando ragionano per risolvere un problema, sui possibili errori, sulle modalità per controllare la tenuta logico-argomentativa delle proprie e delle altrui argomentazioni, assimilano, utilizzandole, strategie metodologiche di tipo euristico e tecniche di analisi e di valutazione dei ragionamenti (logici o argomentativi) che potranno essere usate in modo autonomo e trasferite da un contesto problematico a un altro.

 

 



[1] Cfr.  E. Bencivenga, Platone, amico mio, Mondadori, Milano 1997.

[2] “Il cittadino tipico precipita a un più basso livello  di resa mentale non appena entra nel campo politico. Ragiona e conduce le sue analisi in un modo che egli riconoscerebbe subito come infantile se usate nella sua propria sfera di interessi. Egli ridiventa un primitivo. Il suo pensiero torna ad essere associativo e affettivo…” Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit. in: G. Sartori, Democrazia. Cosa è,  Rizzoli, Milano 1994,  p.74.

[3] “Pensare bene non è un automatismo della mente umana, ma un’arte, qualcosa che si acquisisce e che può essere potenziato […]” (A. Oliverio, L’arte di pensare, Rizzoli, Milano 1997, p.8).

[4] Vedi D. Massaro (a cura di), Metodologia e didattica del testo filosofico, Paravia, Torino 1998. Massaro si limita, però, a consigliare  “una metodologia filosofica congruente con l’obiettivo del pensare in proprio attraverso la ruminazione del pensiero altrui (i classici)”.

[5] E. Ruffaldi, Insegnare filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1999, p.179.

[6] cit. p. 140.

[7] Ci permettiamo di rimandare per una più approfondita analisi al nostro saggio Centralità del testo e ‘rapsodicità’ formativa. Insegnamento e apprendimento delle discipline filosofiche, in C.Tugnoli (a c. di), La filosofia nella scuola, Annali 2001, Iprase del Trentino, Franco Angeli, Milano 2001.

[8] Vedi M.Piattelli Palmarini, L’arte di persuadere, Mondadori, Milano 1995.

[9] Vedi anche N. Bobbio Prefazione al Trattato dell’argomentrazione, di C. Perelman e L.Olbrechts-Tyteca, Einaudi, Torino 1982, p. XIX.

[10] Vedi anche M. Dummett, Il pensiero fa progressi, Il Sole 24 Ore – 27 Luglio 1997. Reperibile in Internet all’indirizzo: http://www.symbolic.pr.it/bertolin/soleO.htm

[11] Vedi il bel libro di M. Baldini , Contro il filosofese, Laterza, Bari 1991.

[12]J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1981,  pp.39-84.

[13] ibidem., p.45.

[14] ibidem, p.63.

[15] Vedi il suo bel libro Giochiamo con la filosofia, Mondadori, Milano, 1990

[16] Vedi il saggio di M. Messeri, Temi della filosofia contro storia della filosofia, reperibile in Internet all’indirizzo  http://www.swif.uniba.it/lei/scuola/messeri.htm.

[17] Sembra che di questa esigenza si siano accorte anche le case editrici che negli ultimi tempi stanno pubblicando manuali innovativi che puntano alla dimensione argomentativa del filosofare. Pensiamo ad almeno tre testi che sono stati pubblicati in questi ultimi mesi o che sono in via di pubblicazione: Argomentare di G. Boniolo e P. Vidali per la Edizioni scolastiche Mondadori; Dal senso comune alla filosofia di  AA.VV. per  la Sansoni; La comunicazione filosofica di D. Massaro per la Paravia.

[18] In questo la filosofia è un’impresa intellettuale che presenta i medesimi  caratteri della Scienza, da cui si differenzia per altri aspetti, che non è qui il luogo di indagare.

[19] Per una critica di questa impostazione vedi M. Billig, Pensare e discutere, R.Cortina, Milano 1999

[20] Op.cit., p. 72.

[21] Cfr. A. Schopenhauer , L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano1991.

[22] Sarebbe tutto sommato sbagliato, da un punto di vista teorico, affermare la superiorità di un approccio rispetto all’altro; sebbene, dal punto di vista pratico, ciascun docente non possa non tradire il suo modo personale di intendere la filosofia, le sue simpatie ed idiosincrasie.

Da cosa dipende questa difficile coesistenza tra gli insegnanti della scuola superiore? Non è che il corrispettivo di un’analoga convivenza sofferta tra studiosi e filosofi più decisamente orientati ad un approccio teoretico ed altri più legati ad un approccio storico. L’inevitabile presenza di questa natura androgina appartiene profondamente alla filosofia. Il sapere filosofico aspira alla certezza, ma si scontra con la relatività storica; avvicinarsi alla filosofia significa, quindi, conoscerne la storia. Mentre nelle scienze la porzione della storia della disciplina che serve al ricercatore (lo “stato dell’arte”) è circoscritta al passato prossimo, in filosofia capita di raccogliere idee e suggerimenti risalendo alla lontana antichità. Le scienze si spostano con movimenti nervosi, mentre la filosofia ha il movimento invisibile delle piante millenarie. Ma c’è chi, nella pianta guarda il tronco solido e ben inciso, chi invece preferisce sperimentare gli innesti, gli incroci ed i nuovi frutti.

[23] Non a caso in tutte le esperienze laboratoriali viene citato lo strumento della mappa concettuale, che è l’intelaiatura ferrosa nella ricostruzione attiva dei testi filosofici.

[24] P. Alotto, R.Trolli, cit., in: C.Tugnoli (a c. di), La filosofia nella scuola. Tradizione e prospettive di riforma, F.Angeli, Milano, 2001, pp. 210-241.

[25] Cfr. M.H.Bornstein, M.E.Lamb (a c. di), Lo sviluppo,  percettivo, cognitivo, linguistico, R.Cortina, Milano, 1992, pp. 145-147.

[26] Preferiamo chiamare così la cosiddetta “scuola di massa”, per sottolineare meno l’aspetto anonimo – da vagone di metropolitana troppo affollato – della scuola pubblica e evidenziare di più la funzione civile di un sistema scolastico che spesso non riesce, nei fatti, ad abbandonare la propria tentazione élitaria, pur riempiendosi la bocca di un vacuo pedagogismo. La scuola di massa è realizzata, la scuola di tutti è ancora incompiuta.

[27] È proprio per questo, tra l’altro, che questa metodica viene frequentemente preferita: perché permette, in tempi rapidi e relativamente certi, di trasmettere un corpus di sapere organico, efficacemente connesso, con un notevole risparmio di tempo. Ed il tempo, si sa, è l’ossessione della scuola odierna e della nostra epoca.

[28] Molto spesso lo stesso insegnante – in quanto prodotto “eccellente” del sistema scolastico – condivide con questi studenti il medesimo stile di apprendimento. La scuola assomiglia ad un sistema che riproduce se stesso.

[29] Il concetto di cittadinanza deve ormai essere inteso nel senso della molteplicità delle identità e delle appartenenze, piuttosto che nel senso tradizionale della doppia cittadinanza umana e nazionale. Ciò accentua ancor di più il significato della filosofia come capacità di argomentare e, soprattutto, di aprire uno spazio di dialogo razionale, in cui le opposte ragioni possano essere valutate e le decisioni essere assunte in una forma pacifica e accettabile per i contendenti.

[30] Cfr. J.Bruner, Il processo educativo, Armando, Roma, 1997, pp.41-56.

[31] Si intende l’operazione di trasferimento di metodi noti a situazioni parzialmente nuove rispetto a quelle fino a quel momento incontrate; tale operazione richiede un adattamento delle procedure al nuovo contesto.

[32] Cfr. Pellerey, Progettazione didattica, SEI, Torino, 1994, pp. 53-68, 184-186.

[33] Cfr. A.Girotti, L’insegnamento della filosofia. Dalla crisi alle nuove proposte, Unipress, Padova, 19962, pp. 40-54; cfr. inoltre Proviamoci insieme, la programmazione modulare, Insegnare Filosofia 1 (2001),  pp. 17-23 e C.Laneve, Il campo della didattica, La Scuola, Brescia, 1997.

[34] Nell’elaborazione del modello abbiamo preso in considerazione, come punto di riferimento, il progetto dei Gruppi di Ricerca Metodologico-disciplinare dell’IRRE Emilia Romagna; una lettura comparativa può chiarire maggiormente le caratteristiche comuni e le differenze tra la proposta che formuliamo ed il progetto sperimentato dai colleghi in Emilia Romagna: cfr. C.Bonelli, M.Cogliati, E.Rosso, Per avviare l’analisi disciplinare: dai nuclei alle competenze, Insegnare Filosofia 1 (2001), pp. 32-36.

[35] In questo senso la nostra proposta si distingue dal tradizionale metodo zetetico e si avvicina al metodo storico-critico-argomentativo. Cfr. A. Girotti, cit., pp. 24-25.

[36] Cfr. D.Massaro, La comunicazione filosofica. La grammatica della mente, Paravia, Torino, 2002, C.Perelamn, L.Olbrechts-Tyteca, cit. e S.Toulmin, Gli usi dell’argomentazione, torino, Rosenberg & Sellier, 1958.

[37] Cfr. E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, R. Cortina, Milano 2000, pp. 15-29.

[38] per la distinzione tra contesti caldi e freddi di apprendimento cfr. F. Frabboni, Manuale di didattica generale, Laterza, Roma-Bari 1992, pagg. 131-148; si tratta, comunque, di una impostazione che risale alla pedagogia di Dewey, cfr. ad esempio J. Dewey, Democrazia ed educazione, La Nuova Italia, Firenze 1992, pp.173-188.

[39] Cfr. A.Girotti, cit., pp. 55-69.

[40] Cfr. R.M.Gagné, L.J.Briggs, Fondamenti di progettazione didattica, SEI, Torino, 1990, pp. 218-221.

[41] Cfr. L.Vygotskij, Il processo cognitivo, Bollati Boringhieri, Torino, 1987, pp. 81-89.

[42]Cfr. M.DePasquale, Didattica della filosofia.  La funzione egoica del filosofare, cap.1, reperibile sul sito www.ilgiardinoideipensieri.com; cfr. inoltre M.Tozzi, Si può “didattizzare” l’insegnamento della filosofia?, Comunicazione Filosofica, Bollettino n.158

[43] Fermo restando che: a) si impara a costruire una concezione personale imitando inizialmente modalità di ragionamento osservate; b) i prodotti costruttivi di un principiante di filosofia difficilmente potranno risultare molto originali rispetto ai traguardi della ricerca filosofica più recente.

[44] Un esempio di questo felice incontro di testi di provenienza diversa gravitanti attorno alla medesima questione filosofica è fornito dal recente volume: C.Tugnoli (a c. di), La bioetica nella scuola, F.Angeli, Milano 2002.

[45] Cfr.. M.Tozzi e altri, Apprendere a filosofare nelle scuole superiori oggi, cap. 3, reperibile sul sito www.ilgiardinodeipensieri.com

[46] Resta vero il fatto che ciascun insegnante, a seconda della formazione più orientata alla analisi teoretica o a quella storiografica, propenderà maggiormente per l’esemplificazione storica delle argomentazioni o per la ricostruzione sistematica. Cfr. il paragrafo precedente Centralità del metodo e approccio metacognitivo.

[47] Questa competenza si collega alla capacità, indicata di seguito, di saper apprezzare la qualità delle fonti informative.



[i] Per eventuali osservazioni indichiamo i nostri indirizzi di posta elettronica: pietro.alotto@vivoscuola.it e robotrol@vivoscuola.it