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Comunicazione Filosofica n. 13 aprile 2004
Tempo lineare e circolarità: a proposito di Prima della pioggia di M. Manchewski
Cristina Boracchi
Una delle riflessioni di base elaborate in ambito filosofico sulla struttura del tempo attiene alla sua lettura in termini di linearità progressuale - la grande 'rivoluzione' del pensiero cristiano, e, da essa, tutte le forme di progressismo storicistico, da quello hegeliano a quello marxiano, positivista o scientista - o di circolarità che si avvolge su di sé - dalla mitologia orfica a Vico, all'eterno ritorno di tutte le cose di nietzschiana memoria - . Il cinema ha sempre cercato di giocare il tempo superando tale dicotomia attraverso le tecniche del montaggio - flashback, flashforward, linearità dentro la circolarità del narrare, montaggio parallelo e quant'altro - , spesso imponendo allo spettatore di farsi testimone o addirittura carpentiere del tempo diegetico, da lui stesso ricostruito, riavvolto secondo la logica della consequenzialità.
Nel caso di Po Dezju (Before the rain), di Milko Manchewski[1], la tematica del tempo si coniuga sul piano puramente linguistico, più che narratologico, con la riflessione sul destino e sulla libertà dell'uomo di operare scelte che possano determinare il flusso del tempo: inoltre, tale analisi viene compiuta con una costruzione dei ritmi (tempi) particolarmente adatta ad una mediazione didattica efficace.
"Il tempo non aspetta ; il cerchio non è rotondo": un'intera poetica e una concezione estetica stanno chiuse in questa magica affermazione. E' quello che il trentacinquenne regista macedone Milcho Manchewski ha saputo comunicare con il suo primo lungometraggio "Prima della pioggia", presentato alla Mostra di Venezia del 1994 e giustamente insignito del Leone d'Oro.
Un 'cinema dell'attesa', quello di Manchewski, fatto di sospensioni e accelerazioni, di 'momenti' isolati e nel contempo fra loro intimamente connessi: di paradossi , dunque, a partire sin dalla formula compositiva dello spazio e del tempo diegetici.
Infatti, nei tre episodi - "Parole"[2], "Volti"[3] e "Immagini"[4] - viene composta una 'storia' senza Storia, perchè i drammi ai quali si assiste appartengono alla 'Storia' di tutti e di ogni epoca: quello che si vede è, del resto, solo accidentalmente collocato ai nostri giorni, come il regista stesso ha voluto sottolineare in sede di presentazione del film. Ancor più, i destini incrociati di Kiril e Zamira, Nick e Anne, Aleksander e Hana - destini che si sviluppano in un universo geografico vertiginoso e multispaziale - sono come scomposti dalla regia in quella che potrebbe diventare persino una narrazione 'impossibile' , sfociando nella nullificazione stessa del 'raccontare' filmico. Il montaggio, in particolare, fa sì che invano ci si affatichi a ritrovare il 'bandolo', l''incipit', l'avvio/fine di vicende rinchiuse nel gorgo di un 'tempo' che è del tutto sottratto al divenire lineare di Kronos. Manchewski costruisce un trittico a struttura circolare con molti rimandi interni proprio a figurare linguisticamente anche i legami fra i personaggi, fra le loro vite spezzate dalla violenza fratricida nei Balcani proprio come in Occidente: tale mosaico è inoltre costruito attingendo alla classicità - Odissea, Amleto, Romeo e Giulietta - e sviluppandone il contenuto universale pur rimanendo al presente dei conflitti balcanci.
Una calma quasi opprimente, proprio come l'aria prima di un temporale, domina gli episodi, nei quali il regista traspone in tutta la sua incomprensibilità la tragedia della ex-Jugoslavia. Senza clamori, senza retorica o facili sensazionalismi, Manchewski ci cala nel quotidiano delle faide interetniche: un clima sospeso ci impone l'attesa di qualcosa che dovrà esplodere da un momento all'altro.
Così, in 'Parole' l'amore di Kiril - ortodosso che lascia il monastero e rompe il voto del silenzio - per la mussulmana Zamira erompe nella uccisione di quest'ultima per mano fraterna; in 'Volti', Nick, che cerca disperatamente di ricucire il matrimonio con Anne, viene massacrato in un ristorante di Londra durante l'esplosione terroristica di una guerra religiosa; in 'Immagini', infine, Alexander lascia il successo e l'amore occidentali per fare ritorno in una patria balcanica dilaniata dalla violenza interetnica e sacrifica se stesso per 'rompere' la catena della morte.
Sommersa nell'apparente ciclicità ineluttabile degli eventi - che sembrano incombere irrimediabilmente su un'umanità dolente, lacerata da paure e da conflittualità fratricide - la dimensione dell'amore irrompe dunque nel suo drammatico confronto con le situazioni estreme determinate dall'odio razziale e interfamigliare: l'amore può nascere (Kiril e Zamira) o morire (Nick e Anne) per l'odio, l'amore può anche scegliere la morte (Alexander) per cercare di sconfiggere l'odio.
Pure, i tre episodi non sono solo superficialmente accomunati dal tema della denuncia della violenza e dell'intolleranza in tutte le sue forme. Proprio nel momento in cui il 'narrare' sembra diventare impossibile, infatti, ecco il primo paradosso: il regista ricompone nel finale (o è un incipit?) i frammenti del 'tempo', li articola ancora secondo una logica narrativa lineare, impone successione alle emozioni sciogliendo - nella pioggia - le attese e cercando le risposte alle domande che lui stesso ha indotto a porsi sui grandi 'perchè' della guerra e della violenza. Diventa solo allora chiaro anche la funzionalità narrativa del legame di parentela che unisce Kiril ad Alexander, suo zio, il quale non ha mai dimenticato Hana, madre proprio di quella Zamira che muore per avere amato lo stesso Kiril. Solo Anne - la donna inglese di Alexander - sembra rimanere a testimoniare tutto, donna della 'memoria' fissata nel negativo di una fotografia.
Ma è proprio questa fotografia, che ritrae la morte di Zamira, a fungere da nuova ambiguità, da immagine-affezione che condiziona imprescindibilmente la rottura dei quella circolarità degli eventi che sembrava fatale e necessaria. Nella successione dei fatti ricostruiti nella mente dello spettatore, molte sono infatti le vistose incongruenze che permangono : sono quelle che Manchewski stesso definisce 'paradossi' temporali, quasi degli slittamenti nella curvatura del tempo che impediscono alla vicenda di ripetersi esattamente identica nel gorgo del divenire temporale. E allora i segnali inquietanti e nel tessuto della vicenda acquistano improvvisamente senso, non sono dei semplici 'errori' di sceneggiatura: Alexander, dunque, può - ma è già morto! - fotografare la morte di Zamira, mentre Anne può ricevere una telefonata da Kiril - ma questi non può ancora avere visto morire Zamira -, e ancora Anne può avere le foto di Alexander - ma questi ancora non è partito.... Tali paradossi squarciano davvero la barriera del tempo non per definire l''assurdo' ma, anzi, per aprire al 'possibile', per creare dei varchi, delle uscite e delle soluzioni. Il cinema davvero diventa in Manchewski la infinita ipotesi da scrivere e riscrivere, ripercorrendola, rifacendola in un gioco continuo di dettagli - di 'parole', 'volti' e 'immagini', appunto - che spostano, fanno slittare gli esiti, sconfinandoli nell''altrove'.
E solo allora, forse, la pioggia non verrà invano, a purificare il mondo. E allora, forse, Zamira si salverà ritornando a correre verso il monastero...Forse, tutto è già accaduto, ma non ancora... la storia non si ripete... il cerchio non è rotondo.
[1] Milko Manchewski è regista macedone residente a New York. La sua opera prima si è distinta per la scrittura ponderata ma capace di coniugare una partecipazione commossa alla storia che racconta, senza ridurre il dramma dei Balcani a una serie di immagini
affascinanti ma stereotipe.
[2] In Macedonia, Kiril, giovane monco ortodosso votato al silenzio, accoglie in monastero Zamira, una ragazza albanese braccata da un gruppo di armati.
[3] A Londra, una donna che lavora in un'agenzia fotogiornalistica, Anne, si dibatte fra il rapporto con il marito Nick e la relazione con Alexander, un fotoreporter di guerra deciso a lasciare il lavoro per tornare nella nativa Macedonia dilaniata dagli odi etnici e dalle faide religiose.
[4] Alexander, tornato in Macedonia in cerca di quiete, si trova coinvolto nel conflitto fra i suoi parenti macedoni e i vicini albanesi; sceglie di proteggere Zamira, figlia di una donna, Hana, che gli era stata molto cara in gioventù, dalla vendetta dei propri cugini.