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Comunicazione Filosofica n. 14 gennaio 2005

 

 

La poetica dell’inconscio:

Blue velvet di David Lynch[1].

 

“How can a heart that’s filled with love

Start to cry?

When did the day  with all its light

Turn to night?

Was it me? Was it you?

Question in a world of blue” [2]

(D. Lynch)

 

“Il bello è sempre bizzarro”

(Ch. Baudelaire)

Tutto è artificio e illusione nel cinema di Lynch, regista che mutua dalla storia del cinema una vocazione sperimentalista che lo porta a prediligere aspetti linguistici di rilevanza teoretica. La messa in scena registica nella sua produzione è infatti tale da creare una sorta di raddoppio fra il piano tematico – ovvero i contenuti narrativi - e quello espressivo –  cioè la sua personale sintassi cinematografica - nel tentativo di accedere, pur senza voler risolvere sul piano logico[3], alla dimensione latente e dominante dell’Id. L’inconscio fa da padrone nella sua poetica delle immagini[4], la quale si riferisce, in qualche modo, in primis al lato più gotico del romanticismo  inglese e tedesco, ma si sviluppa, poi, nell’ambito della cultura psicoanalitica del Novecento, come appare in modo evidente in Blue Velvet[5], fra i primi testi filmici del regista..

Tra sogno e incubo, in bilico fra onirismo e surrealismo, il plot narrativo  pone in essere molti passaggi che tendono a sovrapporre, talora ad  affiancare, alla descrizione ‘realistica’ dei luoghi[6] e dei contesti la dinamica sommersa della psiche nei suoi meandri reconditi. La tecnica di ripresa e di composizione dei quadri prediletta da Lynch è, non a caso, l’”avvicinamento” messo in atto  attraverso lo zoom sul personaggio o sull’oggetto profilmico che si pone come chiave di s-volta  del racconto: nel caso di Blue Velvet[7] è un orecchio mozzo, brulicante di insetti, entro la cui tromba di Eustachio la macchina da presa. immette lo spettatore, come in una sorta di buco nero. Ancor prima, nella sequenza iniziale, Lynch mostra un uomo – il padre del protagonista – che cade a terra colpito da un infarto mentre sta annaffiando il perfetto e fiorito giardino di casa: il suo orecchio entra in contatto con il terreno, con il livello organico della vita, con i suoi suoni animaleschi e sotterranei, quelli emessi da una miriade di insetti brulicanti che lottano per la sopravvivenza  con bestiale violenza sopraffatoria. Non è dunque casuale che allo zoom  nell’orecchio mozzo corrisponda la discesa agli inferi dello sguardo per accedere al lato oscuro della mente e per avviare la quest, la detection. Quest’ultima è utilizzata con un’assoluta infedeltà alle marche di genere, essendo dominante, invece,  lo stile del regista sulla concezione del ‘genere’[8]: Blue Velvet è, infatti, un falso thriller con risvolti melodrammatici e psicoanalitici, dato che la reverie vi viene visualizzata con tutti i meccanismi che la psicoanalisi freudiana ha individuato: persino la sceneggiatura  di Blue Velvet  nasce, del resto, per stessa ammissione di Lynch , da un  sogno:

 

“ Ero su una panchina e all’improvviso mi ricordai il sogno della notte precedente : era il finale di Velluto Blu: il sogno mi fornì la radio della polizia, il travestimento di Frank, l’arma nella  giacca dell’uomo in giallo e la scena in cui Jeffrey si trova nel retro dell’appartamento di Dorothy e manda il messaggio sbagliato sapendo che Frank lo udirà.” [9] .

 

Lynch non ha mai nascosto la sua predilezione per le forze ‘altre’ che agiscono accanto al Logos[10]: da una parte, le forze del caso, che alterano la sorte rendendola luogo di conseguenze necessarie[11], dall’altra la forza dell’inconscio:

 

“ Quando sgorga da qualche parte, sotto la forma del flusso continuo, il cinema possiede la grande occasione di dare forma al subconscio[12]

 

Già il sovvertimento dei generi e la loro reinvenzione, uniti alla tematica/tecnica del sogno, dell’inconscio, basterebbero a deporre  a favore dello sfondo romantico della regia lynciana: come i Romantici, infatti, Lynch si rifiuta di conformarsi alle regole dei generi disconoscendone la nozione stessa: Lynch è un romantico visionario nel senso letterale del termine, e popola le sue visioni di immagini che sembrano derivare immediatamente da W. Blake. Se infatti si approfondiscono gli elementi categoriali del film, si nota facilmente come in Blue velvet sussista la dicotomia fra innocenza ed esperienza[13], come pure il tema della metamorfosi mostruosa dei corpi, del fuoco come emblema della darkness. Di Coleridge, invece, Lynch sembra assumere la metafora della Wanderung – la detection da parte del protagonista – che comporta nel contempo il viaggio/vagabondaggio fra caso e necessità, nell’oscurità e nell’orrore, e la ricerca, quest’ultima intesa come iniziazione e rito di passaggio nello stile del romanzo di formazione, altra struttura narrativa tipicamente romantica. Infatti, la formazione di Jeffrey passa attraverso il rovesciamento di sé nell’alienante alterità: l’’io rovesciato’ dell’idealismo tedesco si rende ‘io oppositivo’ in un percorso di identificazione e di ritorno An Sich che, tuttavia, – in questo la specificità di Lynch – non sortisce necessariamente alla catarsi del personaggio né alla crescita della sua consapevolezza, come invece sarebbe necessario nella logica del Bildungsroman. L’enigma rimane infatti tale, in quanto l’indovinarlo non implica centrare una soluzione nella quale tutto ciò che è problematico si risolverebbe: come afferma Heidegger, infatti,

 

“ L’indovinare questo enigma deve piuttosto arrivare a sapere che esso non può essere tolto di mezzo come enigma”.[14]

 

L’accesso alla ‘notte’ è immersione dell’io nel delirio ossessivo, più che non nella dimensione magica del Blaue blumen di Novalis[15], così come il ‘blu’ sembra rappresentare sì il colore del buio della ragione, dello spegnimento del lume razionale, ma nel senso del ‘sonno’ dell’Io a favore della fuoriuscita pulsionale dall’Id. Jeffrey si trova  per caso in un mondo di orrore e di paura, ma riesce a fuggire: infatti, capisce ad un certo punto che non deve oltrepassare il punto di non ritorno, altrimenti finirà per perdersi, pur avendoci provato ed essendo stato sconfitto. Il suo viaggio si sviluppa entro un tempo dilatato, non sottoponibile alle definizioni cronologiche, ed entro uno spazio decisamente simbolico, del quale la strada diviene emblema dominante, accanto al bosco, alla stanza chiusa e claustrofobia di Dorothy: come in Strade perdute[16], la strada nei film di Lynch fluisce veloce e incontrollabile sotto la macchina da presa, il cui asse oscilla costantemente da un lato e dall’altro della linea di demarcazione, rimandando alla impossibilità di delineare la normalità non solo in Frank, ma  persino in Jeffrey,  descritto sin dall’incipit come tale, alludendo così al dark side della mente:

 

“Indicando i moti perversi come fattori nelle psiconevrosi, abbiamo straordinariamente aumentato il numero delle persone che si potrebbero annoverare fra i pervertiti… Data la straordinaria estensione delle perversioni, siamo costretti a supporre che anche la disposizione alle perversioni non sia affatto una rara particolarità, ma anche un elemento di quella che è ritenuta la costituzione normale”[17]

 

Il termine ultimo della ricerca/viaggio di Jeffrey è tuttavia il sublime[18], non tanto nel senso kantiano del sublime statico e dinamico, bensì in quello coniato da Burke: il sublime dell’imperfezione, in dialogo con Eros. Nella sua teoria sul sublime contrapposto al bello, infatti, Burke annoverava la mostruosità o la deformità come elemento della polarità attrazione/repulsione che connota il sublime stesso, producendo  una tensione del desiderio simile alla curiositas e fonte di piacere. La protagonista del film, infatti, è una Dorothy che, recitata dalla bellezza di Isabella Rosselini, viene tuttavia mostrata nella deformazione del proprio corpo a causa delle ecchimosi causate dalla violenza di Frank: in quel corpo deforme, come nel disgusto del padiglione auricolare in decomposizione, sta l’estetica del sublime di Lynch nella sua tensione fra Eros e Thanatos, Libido e Destrudo, rinvenibile sia nella definizione del personaggio di Frank – sadico – sia in quello di Dorothy – masochista -, di fatto uniti in modo profondo come doppi  in reciproco completamento :

 

“Il nome libido può…essere usato per le manifestazioni delle forze dell’Eros, allo scopo di distinguerle dall’energia della pulsione di morte. …Nel sadismo, dove la pulsione di morte storce al suo significato la meta erotica pur soddisfacendo completamente il desiderio sessuale, noi  riusciamo a discernere nel modo più chiaro la sua natura e la sua relazione con Eros”.[19]

 

L’ambiguità di tale rapporto assume infatti sostanzialità nel corpo dell’immagine attraverso l’apparizione di una figura – il caso di Dorothy – dallo statuto incerto: sospesa fra la vita e la morte, volto segnato dal dolore e dalla tortura fisica, è la Life-in Death delle The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, una sorta di figura dannata ma seduttiva[20] in forza delle sue manifestazioni orrorifiche ma affascinanti[21]:

 

“Are those her ribs through which the Sun/ Did peer, as through a grate?/ And is that Woman all her crew?/ Is that a Death? And are there two?/ Is death that woman’s mate?/ Her lips were red, her looks were free/ Her locks were yellow as gold:/ Her skin was as white as leprosy,/ The Nightmare Life in Death was she/ Who thicks man’s blood with cold.”[22]

 

Già  Coleridge, proprio come farà Lynch nella già menzionata sequenza dell’orecchio, fa precedere l’epifania del sublime orrorifico dall’arrivo della nave fantasma, il cui avvicinamento è, nella Terza Parte, descritto proprio attraverso l’espediente stilistico che corrisponde, sul piano linguistico, al già citato zoom visivo:

 

“When looking westward, I beheld/ A something in the sky./ (…) It moved and moved, and took at last/

A certain shape, I wist./ (…) And still it neared and neared./ (…) Without a breeze, without a tide/ She steadies with upright keel!”[23]

 

Lo zoom è in Lynch strumento di apertura dell’immagine a dimensioni altre, anche quando, come nel caso di Blue velvet, la struttura narrativa appare più semplice e lineare,  essendo presentati eventi in ordine di successione temporale senza le ellissi spazio-temporali insistite nelle altre produzioni. Esso è ancora da intendersi, in senso baziniano, come introduzione nella sintassi filmica di una forte componente di ambiguità e di ‘non detto’, il che comporta, come si dirà in seguito, un ruolo spettatoriale attivo ma soprattutto un ritorno alla sopraccitata romantiche Verwirrung, allo scompiglio offerto da pathos dell’oscurità, dell’incomprensibile, dal sospetto circa il fenomeno che occlude lo sguardo sulla realtà latente.

L’avvicinamento è del resto una figura retorica che consiste nel progressivo ridursi della distanza fra percepito e percepiente[24]: la carrellata, lo zoom e la metafora sono espedienti assimilabili in tale prospettiva. In Blue velvet infatti la felicità edenica dell’incipit – le casette del quartiere, i giardini etc. – viene proposta in campo lungo, mentre il piano ravvicinato ha il compito di rivelarne il sottobosco[25]: la dialettica che ne deriva è in prima istanza di carattere cognitivo che porta alla predilezione del ‘dentro’ rispetto al ‘fuori’, del dettaglio rispetto alla unità di senso. Lo sguardo preferisce i mondi chiusi e profondi, a partire proprio dagli sfondi – i campi lunghi – per poi arrivare al piano ravvicinato che contiene infinite piccole storie di minuscoli esseri viventi in perenne dinamismo, proprio come lo sfondo pulsionale della coscienza umana[26]: non si tratta dunque di scomporre analiticamente la superficie ma di aprire alla complessità parcellizzandola, dimostrando ancora una volta l’inconsistenza della presunta ‘normalità’.

Questo modo di conoscere ‘diverso’, che nasce dallo sbirciare dentro le crepe, le fessure del quotidiano, corrisponde perfettamente alla matrice ‘di provincia’ del suo cinema: i piccoli luoghi circoscritti sono il teatro delle vicende dei suoi personaggi, da Blue velvet sino a Una storia vera, testo filmico del 2001. Lo stesso regista ha dichiarato:

 

“Mi piace pensare a un piccolo quartiere: una siepe,. Un fosso, qualcuno che scava un buco, una ragazza in una casa, n albero, e ciò che accade in quell’albero: un piccolo luogo all’interno del quale posso penetrare”[27]

 

Ed è esattamente quello che accade in Blue velvet quando, dopo una serie di inquadrature edeniche di Lumberton, si passa al giardino della casa di Jeffrey, il cui padre annaffia i fiori[28]: con una montaggio alternato Lynch mette in parallelo l’attorcigliarsi della canna dell’acqua attorno al rubinetto con il presunto attacco di cuore dell’uomo, quasi a rasentare il senso analogico del montaggio – la vena che si occlude, il sangue che non fluisce più - ; in seguito, con una carrellata in diagonale – metafora della caduta del corpo a terra – viene mostrato il prato nella sua superficie erbosa; infine, con una carrellata in avanti, lo sguardo del regista, identificandosi con la m.d.p. in una soggettiva che coinvolge  direttamente la visione spettatoriale, si insinua fra i fili d’erba e ne rivela il  mondo sotterraneo, microscopico ma frenetico. Il tutto, con un movimento centripeto che accumula significati anche simbolici alludendo  subito al tema del film stesso, che il regista invita a interpretare nella direzione dell’inner sight[29].

Dopo la discesa agli inferi, Jeffey si ritrova nello stesso giardino di casa, con accanto la sua ragazza Sally: la dimensione edenica sembra ricostituita, ma il cinguettio che conduce lo sguardo registico dall’orecchio del ragazzo alla fonte che emette tale sonorità evidenzia ancora una volta il dialogo stretto fra superficie e abisso: il pettirosso porta nel suo becco un maggiolino – e quindi non può cinguettare! - , a ricordare la violenza del mondo più nascosto.

Nessuna conciliazione, dunque, ma solo la necessità di fondere i due livelli: è come se l’accumulo di oscurità porti a una progressiva rilevanza della luce attorno a sé, esattamente come quando si entra in una stanza buia provenendo da un luogo luminoso: esattamente, dunque, come quando si entra nel buio della sala cinematografica. Il mondo solare della giovane bionda compagna finalmente viene a fondersi in Jeffrey con quello scuro della mora Dorothy, di Frank[30]: l’orecchio è la soglia fra i due mondi – quello del padre, quello di Jeffrey – ed è una sorta di dono dato in eredità, quello di passare tra i livelli del reale e del’immaginario, dell’inconscio, e di riemergere alla superficie portando seco ingenuità originaria e orrore morboso. Nulla esclude peraltro che per Jeffrey tutto sia stato solo un incubo, vissuto come viaggio nella propria interiorità deforme senza però mai muoversi dal lettino prendisole del giardino di casa, frutto di un attimo che diviene lungo quanto il film; ma certo è qualcosa che gli appartiene e dalla quale difficilmente si potrà separare.

L’ombra ed il frammento sono dunque sinergici nel disegnare la verità sommersa: se l’ombra permette infatti alla fantasia di operare la ricostruzione del reale, delle linee di demarcazione del visibile che appare, ora, poco definito, il frammento induce invece al sogno, conduce a ridisegnare  il mondo attraverso un altro taglio percettivo. Allo stesso modo, Jeffrey sembra sostituire i propri genitori, noiosi e poco interessanti, con la coppia Dorothy-Frank, perversa e nel contempo intrigante[31].

L’immaginazione entra dunque in gioco e Lynch ce ne da almeno due esemplificazioni ottimali: l’apparizione del corpo di Dorothy nel giardino di casa di Jeffrey, apparizione del tutto inspiegabile e irrisolta; in secondo luogo, il ritorno di Jeffrey nell’appartamento di Dorothy, ove trova sulla destra Frank legato ad una sedia, morto e con un orecchio mozzo, mentre, sulla sinistra, incredibilmente in piedi, nota il poliziotto corrotto, inerte, ferito da un colpo mortale alla testa:

 

 “I fatti sono fatti, la nostra immaginazione li utilizza, ma essi non come funzione a priori di servirla”[32]

 

Lo scopo di Lynch appare quello di mettere lo spettatore in un rapporto con l’immagine molto più forte di quanto non lo sia con la realtà proprio in forza dell’apparizione, intesa come improvviso  verificarsi di eventi sinistri e desueti. Il disagio che si induce nello spettatore nasce da ciò che non  si riesce a capire né a vedere, e ne è dunque la diretta conseguenza: il luogo connotato dal Deep River Apartments – ancora un’allusione alla profondità magmatica della psiche – dove vive Dorothy è lo spazio dell’insopportabilità immobile – la lentezza dello scorrere del tempo la sottolinea - di un erotismo spinto sino al di là del principio di piacere. Quando Frank conduce nella notte profonda il giovane Jeffrey a fare quello che sadicamente osa definire “il giro del piacere”, infatti,  dichiara di volere scoprire tutto ciò che si muove mentre la m.d.p. lo fa scomparire inquadrando, invece, la linea della strada illuminata dai fari dell’auto: in tale modo, la notte è senza luna, senza luci, senza contorni o paesaggi visibili, luogo senza spazio, sogno per i carnefici e incubo per le vittime[33]. La fine della notte corrisponde per Jeffrey con il ritrovarsi solo in una landa desolata, su un viottolo di ghiaia fangosa, in una realtà marcescente.

Dal disagio spettatoriale nasce però lo statuto stesso del fruitore dell’opera d’arte, di cui Lynch sembra assolutamente consapevole: infatti, l’invisibile condiziona la costruzione del visibile e ciò costringe lo spettatore a questo  ruolo attivo, divenendo colui che introduce nell’opera un quid di autonoma interpretazione. E’ come se l’opera stessa, irrisolta, trovasse realizzazione nella lettura che ne viene fatta da molteplici sguardi: opera aperta, dunque, sempre allo status nascens.  I film di Lynch sono perennemente sospesi, irrisolti[34] anche per offrire allo spettatore la possibilità di interagire direttamente con essi in un compito che diviene esso stesso travagliato, inesauribile, come l’immaginario stesso di cui sono evocazione ed esplorazione.                                                         


NOTE:


 

[1] David Lynch trascorre l’infanzia traslocando di stato in stato a causa della professione del padre, un ricercatore scientifico. Cineasta, con l’interesse della psichiatria, cresce come artista nell’ambito pittorico, passando poi a lavorare per l’American Film Institute, così da soddisfare al bisogno di "mettere in pellicola" i suoi quadri. Realizza il lungometraggio Eraserhead ((1977),  subito divenuto un cult-movie che gli apre le porte a Hollywood, curandone regia, produzione, sceneggiatura, montaggio, fotografia ed effetti speciali. Il grande successo di pubblico e di critica arriva con The Elephant Man, un’opera emozionante e profonda, candidato a ben otto premi Oscar. La sua produzione vede nel 1986 la regia di Blue Velvet, che gli vale l’etichetta di autore dell’inconscio, come per le opere successive, fra le quali Strade perdute (1996) e Mullholland drive (1999). David Lynch è un artista poliedrico. Da anni collabora con un settimanale di Los Angeles, disegnando una striscia di fumetti e, oltre ad avere realizzato cortometraggi, film, serials televisivi (Twin Picks, 1990/91) e spot pubblicitari, ha anche prodotto un album di canzoni, di cui è l’autore dei testi.

[2] La canzone Question in a world of blue è di Lynch in collaborazione con Angelo Badalamenti, autore con il quale ha istituito un sodalizio di particolare affinità eleattiva. Si veda a tale proposito il saggio di D. De Gaetano, Il caso Lynch - Badalamenti, in AA.VV. David Lynch, Paravia, Torino 2000, pp. 55 - 65

[3] Non è infatti intenzione di Lynch cercare di dare ‘senso’ logico alla dimensione  a-razionale: la coscienza non ha accesso alla decodificazione del subconscio e pertanto neppure sul piano registico avviene – volutamente -  tale ‘risoluzione’ di senso.

[4] Non è un mistero che Lynch abbia mutuato molto della sua arte da Fellini, autore visionario per eccellenza. Junghiano per scelta nel suo stile che predilige la menzogna, il mentire nel senso etimologico del termine – immaginare, inventare – così da fare prevalere la realtà interiore su quella esteriore,  e nel fare della nostalgia e dei miti  - l’inconscio collettivo della ’sua’ Italia - gli elementi  chiave della sua ricerca estetica, Fellini fu però anche freudiano  nel porre la riflessione sul fatto che non tutto ciò che è vero sia reale. Si veda a tale proposito B. Fornara, T. Masoni, L’inconscio di Fellini, in “Cineforum”, n° 410, pp.48 – 54.

[5] Nella quieta cittadina di Lumberton (North Carolina) il giovane Jeffrey Beaumont, il giorno che scopre in giardino fra l’erba un orecchio umano, pensa subito di consegnarlo alla Polizia (il che gli permette non solo di incontrarsi col detective Williams, che subito gli raccomanda di non impicciarsi più della faccenda, ma anche di innamorarsi teneramente di Sandy, la figlia di questi). La fantasia dei due giovani, tra tentennamenti e curiosità, li spinge ad indagare nella vita privata di Dorothy Vallens, una cantante di un night. Introdottosi di soppiatto nell'alloggio di Dorothy, l'intraprendente Jeffrey si trova coinvolto in una sordida vicenda: dall'armadio, in cui si è piazzato per nascondersi, assiste alle violenze che Frank Booth, un drogato e psicopatico, impone alla cantante, ignobilmente ricattata perché l'uomo le ha sequestrato il marito e il bambino. Allontanatosi Frank, Jeffrey stesso è sottoposto, come affascinato, ad anomale richieste da parte della donna, che gli appare una ninfomane se non addirittura una pazza.Successivamente Jeffrey, deciso a fare luce sul mistero, viene catturato, picchiato e schernito da Frank e da una banda di canaglie. Il ragazzo fa il possibile per salvare Dorothy (che già lo ama e vede in lui il suo unico appoggio) e porre in grado la Polizia di metter fine alla brutta storia. Ci riuscirà, alla fine, facendo tornare Dorothy in possesso del bambino, ma non del coniuge, torturato e ucciso dal folle (era stata sua l'idea di tagliare l'orecchio per terrorizzare la donna), mentre troverà un altro cadavere, quello di uno dei soci della banda, impegolata in traffici loschi, e che è un poliziotto, collega del padre di Sandy. Lo stesso Jeffrey, nell'alloggio di Dorothy,  ucciderà il criminale Frank. Poi, nella tranquilla Lumberton, tutto torna all’apparente quiete consueta.

[6] Le location dei suoi film sono perlopiù luoghi reali di un’America che evoca, soprattutto nel film di cui si parla, quella di Hopper, delle casette in fila con giardinetti identici e lindi, ma che nascondono dietro la facciata delle inquietudini profonde. “Sono cresciuto in un ambiente simile a quello che si vede nel film: la cancellata bianca, le rose, tutto, all’inizio del film, è com’era nella mia infanzia. Ho visto la stessa cancellata nel giardino dietro casa dei miei genitori, Come Jeffrey ho corso nei boschi ed ho avuto le stesse curiosità. (…) Tutto era piacevole e il libro Good Times on Our Street, che tutti i bambini dovevano leggere a suola, restituiva questo clima”. Si veda  S. Boni, E. Vincenti, Lynch si racconta, in AA.VV., David Lynch, cit., pp.10-11

[7] Lynch dichiara di avere voluto questo titolo (Blue Velvet) non solo per citare una famosa canzone di Bobby Vinton degli anni Cinquanta ma anche proprio perché il velluto richiama la sensualità, l’organicità stessa. Cfr. S. Boni, E. Vincenti, Op. cit., p.11

[8] Nel film di David Lynch c'è tutto,infatti: dal particolare surreale al "giallo" vecchia maniera, dal fascino dell'avventura rischiosa alla "routine", dai rumori e misteriosi fruscii della notte ai meccanismi tipici di un thrilling.

[9] C. Rodley, Lynch secondo Lynch , Baldini e Castoldi, Milano 1998, pp.195-196

[10] Ibidem, p.37: “ Si deve sempre lasciare uno spiraglio affinché le altre forze possano agire”.

[11] Così l’uccisione dell’Albatross per i marinai di Coleridge

[12] Ibidem, p.201

[13] Riferimento immediato alle Songs of innocence, e alle Songs  of experience firmate da William Blake

[14] M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1995, p.245. Così, del resto, lo stesso Nietzsche (Aforisma 470), citato da Heidegger nelo stesso punto del suo saggio: “Profonda avversione per il riposarsi, una vota per tutte, in una qualche considerazione totale del mondo; fascino del modo di pensare opposto: non lasciarsi togliere lo stimolo del carattere enigmatico”.

[15] Si pensi alle riflessioni degli Inni alla notte come pure dell’Heinrich von Oftendingen di Novalis

[16] In Lost Highways, Lynch allude più direttamente alla schizofrenia del protagonista, personaggio in limine.

[17] S. Freud, Tre saggi sulla sessualità, Cap. I in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino,1970, Vol. IV, p.482

[18] A. Boschi, A. di Luzio, Lynch: la ricerca del sublime nell’imperfezione, in AA.VV., David Lynch, cit. p. 29.

[19] S. Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino,1978, Vol. X, p.605

[20] Quel corpo violato attrae proprio per questa sua connotazione  a sé il giovane Jeffrey, come pure inscena subito prima una sorta di teatralizzato atto sessuale con Frank .

[21] A. Boschi, A. di Luzio, Op. cit., p.33

[22] S.T. Coleridge, The Rrime of the Ancient Mariner, Parte terza, vv. 185 – 190.

[23] Ibidem, vv. 147 – 175 -

[24] F. Cattaneo, Zoomare per misconoscere la realtà, in “Cineforum”, 404, p.41.

[25] “C’è bontà nei cieli blu e nei fiori, ma ci sono anche altre forze – il male selvaggio, la decadenza – che accompagnano ogni cosa”. Così Lynch in A. Boschi, A. di Luzio, Op. cit., p.32

[26] U. Mosca, Curiosando fra l’erba dell’Ovest, in  AA.VV, David Lynch, cit., p.77

[27] Citato da  F. Cattaneo, Op. cit., p.404

[28] “ I paesaggi di Lynch sono come cartoline che pretenderebbero di esprimere e sintetizzare tutto, ma che in verità non riescono ad esprimere nulla, se non un’immagine preconfezionata e fuorviante” ( U. Mosca,  Op. cit., p. 82)

[29] In Una storia vera, l’andamento è identico ma opposto, essendo di marca centrifuga dovendo raccontare il viaggio in trattore di un uomo che vuole raggiungere il fratello prima che questi muoia: anche in questo caso, una cittadina anonima, Laurens, rappresenta lo sfondo dell’incipit, che vede la m.d.p. calare sul giardino della casa del protagonista per poi seguirne la fuga.

[30] Anche in Mullholland Drive sussiste questo parallelismo fra elementi opposti, doppi e completatisi. Un altro elemento presente è quello della scatola blu – ancora il colore dell’interiorità – aperta la quale la vicenda si ribalta e si raddoppia.

[31] F. Cattaneo, Op. cit., p.404

[32] A. Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1979, p. 297

[33] U. Mosca, Op. cit., p.82

[34] F. Cattaneo, in Op. cit., p.404, parla addirittura di una “curvatura ad anello” delle strutture narrative lynciane.