Brano 10
PENSARE E POETARE: IN CAMMINO VERSO IL LINGUAGGIO
Il linguaggio che meglio rivela la natura del linguaggio, e che più di ogni altro sconfessa la concezione tradizionale del linguaggio come semplice segno, è la poesia. Utilizzando i risultati raggiunti nell'indagine sull'opera d'arte, Heidegger osserva che come l'arte non è "imitazione" nel senso di riproduzione di un mondo, peraltro già dato e aperto, ma è apertura di un mondo, così il linguaggio poetico non è "segno" che rinvia a qualcosa che è già dato, ma è il luogo in cui l'essere si dà, si eventua. La "sera d'inverno", di cui parla Trakl [..], non è qualcosa che si possa incontrare anche fuori della poesia e che la poesia si limiti a "richiamare", perché non "rappresenta" una sera possibile nell'ambito della nostra esperienza. La parola poetica, come l'opera d'arte, è un cominciamento assoluto, è l'aprirsi di un mondo, in cui qualcosa di assolutamente nuovo viene all'essere come "aureo albero delle grazie", che "fiorisce nella fresca ninfa della terra", come "errare silenzioso del viandante" il cui "dolore ha pietrificato la soglia", come "nuda sofferenza dell'uomo! Colui che, muto, ha lottato con gli angeli".
Tutto questo conduce a pensare il linguaggio come quell'apertura che dischiude l'originario rapporto che lega l'uomo all'essere. Ma che cosa significa apertura, o, meglio ancora, l'aperto? "Aperto significa qualcosa che non sbarra chiudendo; qualcosa che non sbarra perché non limita, non limita perché è privo di ogni limite. L'aperto è il grande insieme, il tutto di ciò che è senza limiti".
La limitazione all'interno dell'apertura senza limite, è prodotta da quel pensare rappresentativo che riduce e conclude il senso delle cose che appaiono nell'ambito circoscritto delle anticipazioni matematiche che in sé risolvono ogni possibile senso e significato. Il pensiero chiuso della rappresentazione anticipante, nasce quando l'uomo non si coglie più nel mondo, ma pone il mondo innanzi a sé e, oggettivandolo, ne dispone in vista del suo impiego, della sua manipolazione, del suo dominio.
Nel chiuso recinto della sua rappresentazione, l'uomo dispone la natura affinchè questa soddisfi le sue esigenze, pone a propria disposizione le cose che gli occorrono, traspone quelle moleste, antepone le utili posponendo le meno vantaggiose, si oppone a quelle che ostacolano i suoi intenti, espone le cose che vuol proporre al commercio e al consumo, propone i suoi piani per il conseguimento dei fini che si è proposto. "In tutte queste forme di porre manipolativo, il mondo è portato dal suo stare nel ob-stare. L'aperto diviene ciò che sta di fronte (oggetto) e ruota intorno all'essere umano. L'uomo si pone di fronte al mondo come di fronte a un oggetto e propone se stesso come l'ente che, di pro-posito, impone tutte queste posizioni".
A questo punto il linguaggio dice solo la parola del (pensiero che calcola), e la cosa, disposta nel chiuso di questo linguaggio, non dice più di sé, ma dice semplicemente la sua corrispondenza al calcolo del pensiero. Dal pensiero calcolante la cosa è proiettata nella rappresentazione che la include.
Il tipo di proiezione è così forte da superare la stessa caducità delle cose; il loro venir meno è surrogato dalla loro sostituzione; trattandosi di cose prodotte per l'uso, quando più rapidamente sono usate tanto più rapidamente occorre sostituirle. Il permanere della cosa non riposa più su se stessa, ma sulla continuità tecnica della sua sostituzione, che, non concedendo vuoti e interruzioni di sorta, dà fiducia e sicurezza all'uomo che così più non si cura della fine di ogni cosa.
Il venir meno delle cose familiari non toglie all'uomo sicurezza, perché la tecnica ne garantisce la sostituibilità, ponendosi in questo modo come salvaguardia delle cose. Quale meraviglia a questo punto che il linguaggio si uniformi a questo tipo di pensiero e affidi a parole come "Consumo" e "produzione", "ritrovato" e "costruzione", "programma" e "pianificazione" il compito di attenuare l'insicurezza del presente e il timore del futuro. Là dove ogni rischio non oltrepassa il calcolo economico e la ricerca di mercato che consentono di calcolare anticipatamente persino i limiti di sicurezza e i margini di rischio che cosa può dire l'uomo di nuovo che non sia già detto? Quale futuro l'attende che non sia già passato? Che salvezza può chiedere quando tutto è già salvaguardato?
Qui si smarriscono le tracce del sacro, e, in questo smarrimento si ripropone, insospettato, il rischio più grande [...] Il pensiero che calcola non capisce la parola, e il mondo che esprime non ne comprende il senso. Ma proprio qui si nasconde il pericolo estremo che è quello insospettato e imprevisto. Il pericolo di non scorgere il rischio che investe l'essenza dell'uomo ridotto a funzionario del pensiero che calcola e che non vede, nel rapporto con l'ente, altro senso che non sia il suo uso e il suo impiego. "Il pericolo consiste nella minaccia che investe l'essenza dell'uomo nel suo rapporto con l'essere, e non in qualche pericolo momentaneo. Questo pericolo è il pericolo. Esso si nasconde nell'abisso che nasconde ogni ente. Per vedere il pericolo e rivelarlo occorrono mortali che sappiano giungere più rapidamente nell'abisso" [...]
Essere senza cura è possibile solo là dove [...] nel rapporto con le cose, si arrischia un senso che per il pensiero che calcola è "inaudito", perché sfugge ai calcoli con cui questo pensiero solitamente si dispone a "udire" il senso delle cose. Dall'inaudito nasce un linguaggio che è impossibile per l'uomo che "vive costantemente nel rischio della sua essenza, tra il tintinnìo del denaro e il valere dei valori, per l'uomo che vive in continuo scambiare e contrattare, per il mercante. Questi, infatti, pesa e valuta di continuo, ma ignora il peso e il rango autentico delle cose, allo stesso modo che ignora ciò che nel suo stesso essere pesa veramente e quindi prevale".
Affinchè le cose possano essere riproposte per quello che sono e non per quello che valgono, affinchè possano essere sottratte dal loro essere oggetto di rappresentazione o di produzione è necessario un pensiero capace di uscire dall'ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola, e di arrischiare nell'aperto dis-chiuso del pensiero che pensa. Al pensiero che pensa spetta infatti quel dire che non è mero calcolare e numerare e che, dicendo, pone la cosa in relazioni che, oltrepassando il recinto delimitato del calcolo, chiamano in gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra.
Di questo dire sono capaci i poeti, i quali non cantano per questa o per quella cosa, ma per nulla. Questo nulla non è il niente, ma ciò che dal pensiero che calcola è taciuto. "Essi dicono il taciuto", dicono quella totale assenza di protezione che l'uomo tenta invano di mascherare col calcolo e col progetto, con la previsione e con l'anticipazione, quando non osa sporgere nell'aperto e arrischiare sensi imprevisti. Per questo i poeti sono i più arrischiati "perché arrischiano l'essere stesso e quindi si arrischiano nella regione dell'essere", mentre gli altri si trattengono nel commercio dell'ente. I primi arrischiano il linguaggio perciò "essi sono i dicenti"; i secondi usano il linguaggio e si trattengono nei modi di dire. A costoro il linguaggio non dice, il linguaggio serve.
Ora il linguaggio non può essere considerato come semplice mezzo di espressione per designare le cose, perché è dal linguaggio e nel linguaggio che la cosa è [...] posta nella sua cosità. Ciò significa che l'essere della cosa è nella parola che la nomina e non nel suo essere posta davanti a un soggetto. Questo perché la parola non è la semplice descrizione di uno stato di cose, come se questo fosse dato in qualche modo al di fuori di essa, ma è ciò che ospita ogni rapporto, che dischiude ogni senso, che apre ogni possibile significato.
Se oggi le cose si presentano come meri prodotti o come semplici rappresentazioni, ciò non dipende dalla loro cosità ma dal linguaggio che, limitando l'ambito dei significati a quello previsto dal pensiero rappresentativo, non arrischia altri rapporti che non siano quelli che si lasciano espreimere in termini di produzione e rappresentazione. In questo senso il linguaggio parla e col nome de-termina il modo di presentarsi della cosa e quindi ogni suo possibile senso.
Solo se ci si rende conto che il linguaggio è soggetto e non semplice strumento, allora si comprende il senso di quelle espressioni che chiedono di "arrischiare un linguaggio", di "dire il taciuto". Esse chiedono che si dischiudano rapporti che vadano oltre a quelli conclusi dal pensiero che calcola, onde consentire alle cose di aprirsi in una presenza che non si risolva immediatamente nella sua rappresentazione e nella produzione. Esse chiedono che si dischiudano mondi, che si aprano aperture, capaci di concedere al linguaggio un respito più ampio, e alle cose un senso meno dimentico della loro cosità, della loro appartenenza all'essere.
Ma per questo è necessario un pensiero che non si affidi ai suoi calcoli, ma alle parole del linguaggio, un pensiero che "prenda dimora presso il linguaggio: nel suo parlare, cioè e non nel nostro. Solo così possiamo raggiungere quel dominio entro cui può riuscire, come può anche non riuscire, che il linguaggio ci riveli la sua essenza. E' al linguaggio che va lasciata la parola". Per questo i poeti e i filosofi dialogano tra loro. "Il colloquio del pensiero con la poesia mira a evocare l'essenza del linguaggio, affinchè i mortali imparino nuovamente a dimorare nel linguaggio".
[da U.Galimberti, VIII. Heidegger e la ricerca del linguaggio perduto, in Linguaggio e civiltà. Analisi del linguaggio occidentale in Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, pp. 227-230]
Esercitazione
[Esercitazione relativa al passo tratto da di U.Galimberti, Linguaggio e Civiltà, brano11]
Utilizzando le seguenti domande come spunto per la riflessione, elabora uno scritto organico (indicativamente 4 facciate di foglio protocollo, 2-3 cartelle dattiloscritte) che faccia riferimento al significato complessivo emerso dalla riflessioni su Heidegger (dove esplicitamente richiesto, richiama anche il passaggio pertinente su Wittgenstein).