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Comunicazione Filosofica n. 14 gennaio 2005

 

PER UN’ESTENSIONE DELL’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA
Armando Girotti

Un sondaggio
Giorni addietro volli sondare tra la cerchia di amici e conoscenti quali fossero i motivi che avrebbero addotto per convalidare la presenza della matematica nella scuola italiana di ogni ordine e grado; e l’automatica risposta fu, quasi corale, come se fosse di una ovvietà inconfutabile, “perché la nostra mente è portata a riflettere quantitativamente sulla realtà e perché serve per la vita”. Questa risposta, peraltro soddisfacente, mi indusse a porne un’altra: “e perché è stata esclusa la filosofia?” La risposta quasi concorde, a parte per gli occhi sbarrati di qualcuno cui la domanda sembrò fuori luogo, fu: “perché la filosofia è troppo difficile”.

Dal sondaggio ad una serie di precisazioni sulla natura e finalità della disciplina filosofica
Questo sondaggio mi ha condotto a riflettere che per quanto concerne la seconda risposta siamo lontani le mille miglia dall’aver adeguatamente percepito che cosa significhi insegnare filosofia; evidentemente di questa disciplina non si è colto il vero animo. Forse la causa di ciò va imputata ai programmi ministeriali per quanto l’hanno fatta cogliere al pubblico non specializzato come una tiritera di nomi, relegati all’interno della cronologia storica, quasi si dovessero preparare degli eruditi in questo campo. Non mi si fraintenda, non ho nulla contro la storia della filosofia, e chi mi conosce sa bene che spesso l’ho difesa dagli attacchi di chi la voleva affossare, ma non si scambi storicità o contestualizzazione storica con cronologia; quest’ultima non può conglobare in sé la vastità delle interpretazioni che possono essere date al lemma ‘filosofia’. Non era questa l’interpretazione che aveva fatto decidere Gentile per l’inserimento di questa disciplina nella scuola secondaria superiore; ma poi De Vecchi, come si sa, con i suoi programmi ministeriali la ridusse in brandelli e così la fece percepire proprio in questo modo anche a quei docenti, evidentemente poco attenti alle finalità di questa disciplina.
Se con filosofia, alla luce della lezione socratica, si intendesse il “far filosofia assieme all’interlocutore”, allora non capisco perché non la si possa estendere anche ad altri livelli di scolarità. Non sto qui perorando la causa della Philosophy for children, non è questo lo scopo del mio discorso, sto solo cercando di mettere a fuoco che in passato, quando si è proceduto alle riforme della scuola, il legislatore si è quasi sempre soffermato sull’indispensabile funzione dei contenuti e così ha approntato per l’insegnante un programma ministeriale che permettesse a quest’ultimo di sentirsi a posto con la coscienza in ogni momento del suo svolgimento; in fondo la ‘scuola del programma’ è stata sentita spesso come trasmissione di nozioni che gli studenti dovevano imparare e quando i docenti se ne sono discostati lo hanno fatto per loro iniziativa, interpretando l’insegnamento della filosofia al di là di quella restrizione, consapevoli che il contenuto non può deputarsi, sic et simpliciter solo per il fatto di esistere, come finalità esclusiva della disciplina.
La linea di demarcazione tra senso e non senso della disciplina sta, a mio giudizio, a monte dei contenuti, nella funzione che le si assegna e alle finalità cui si mira con quell’insegnamento; i contenuti così possono essere visti funzionali alla conoscenza (sapere di Aristotele, di Vico, di Hegel, di Schopenhauer) per cui in questo caso sarà la trasmissione dei sistemi filosofici a governare la rotta, oppure possono essere utilizzati per ‘riflettere su’ o per ‘far riflettere su’, per cui l’insegnamento da una parte potrà aprirsi al rinvenimento della sintassi del pensiero dei filosofi, dall’altra, tenendo presente la sintassi del pensiero dello studente di una ben determinata età, all’acquisizione di particolari capacità.

Matematica e filosofia tra contenuto e metodo
Posta questa premessa e immaginando di trovare almeno parzialmente d’accordo con me il lettore, vorrei fargli fare un salto indietro nel tempo ponendogli la domanda intorno al senso del fare matematica trasmessagli dai suoi insegnanti che non fosse il banale utilizzo pratico della materia, quel terribile ‘far di conto’ dei programmi della vecchia scuola elementare, per intenderci. Non credo di essere l’unico al quale sia rimasto nascosto per lungo tempo quel senso fino a quando, incontrando Galilei e Kant, non scoprii, grazie alle pagine del Saggiatore, che il mondo è scritto in linguaggio matematico e poi, nella Critica della Ragion Pura, non compresi che ciò è possibile perché in noi preesistono determinati schematismi. È il linguaggio quantitativo, dunque, quello che unisce la mente del soggetto al mondo esterno; ed essa lo struttura in tal senso perché in quella abitano degli schemi mentali che pongono al mondo delle domande di tipo quantitativo e così il mondo risponde in termini di estensione, o di quantità continua, ed ecco la geometria, o in termini di quantità discreta, ascritta al numero, ed ecco l’aritmetica.
Mi sembra allora che per comprendere il senso della matematica occorra andare al suo ruolo che fondamentalmente consiste nell’essere scienza strutturante la realtà (con rigore logico) attraverso un particolare tipo di linguaggio, quello quantitativo. Ebbene, con le passate riforme scolastiche questa disciplina è sempre stata inserita in tutti i gradi della scuola italiana in quanto, a giudizio degli estensori, la dimensione quantitativa, con le sue rigorose procedure, rispettose delle regole logiche, avrebbe permesso agli studenti di crescere nella sistematicità del pensiero. Ma poi, in pratica, quasi esistesse un automatismo tra presenza della matematica e acquisizione o accrescimento delle capacità logiche, è stata interpretata nella sua funzione più ridotta, come semplice strumento di calcolo. E così generazioni di studenti, invece di coglierne il senso, si sono avvicendate nell’imparare regole, convalidate poi dagli esercizi; si formavano così, in questa circolarità tautologica tra esercizi e regole, una mentalità che scambiava come fondamentalmente ‘vera’ ogni conclusione logico-matematica.
Non sono dunque i contenuti matematici quelli che veicolano il senso della disciplina, ma una riflessione sul sapere matematico, quasi una seconda riflessione che rimanda al valore del ‘fare matematica’; e di insegnanti che si sono posti su questa via ce ne sono, e molti. Allora mi vien da sottolineare come quegli studenti che hanno compreso il senso della disciplina non possano ascrivere il merito ai semplici contenuti, semmai il pregio è da attribuirsi a ‘come’ quei contenuti sono stati comunicati dal loro docente.
Credo che la stessa conclusione, per analogia, valga parimenti per l’insegnamento della filosofia e cioè non è la scelta tra un insegnamento secondo l’asse storico o secondo lo sviluppo dei problemi (per richiamare la vecchia diatriba che oggi mi sembra non abbia più ragione di ritornare a galla) che automaticamente risolve la difficoltà del senso della filosofia, semmai a fare la differenza è il ‘modo’ con cui la si insegna, interpretando la filosofia come un museo di quadri oppure, come uno strumento da consegnare nelle mani dello studente per risolvere in modo critico il suo approccio con il reale.
Per un cambio d’ottica
L’operazione da compiere dunque, nella prospettiva dell’insegnamento della filosofia nella scuola del terzo millennio, va intesa all’interno di un cambio d’ottica che, incidendo sulla professionalità del docente (con ricadute anche sul relativo versante metodologico), lo impegni da una parte a diventare ricercatore del senso della disciplina, e dall’altra a manifestarlo ai suoi studenti.
A ragione i miei lettori mi diranno che dunque non è più solo sul ‘che cosa è’ la matematica e sul ‘che cosa è’ la filosofia che si scova il senso del loro esserci nella scuola, ma su ‘come’ queste discipline vengono svolte; ed io sono completamente d’accordo con loro, se pongono il fresco primato del metodo sul logoro predominio del contenuto.
Ne trarrebbe beneficio tutta la scuola se questo assunto venisse adattato a tutte le discipline scolastiche; verrebbero escluse quelle ‘materie-scoria’ che nel tempo sono diventate dogmatiche e resterebbero solo quelle che effettivamente sviluppano capacità. Se una riforma scegliesse soprattutto le discipline in grado di indurre gli studenti a problematizzare prima e a dare una risposta coerente, logica, non contraddittoria poi, allora la scuola cambierebbe fin dalle fondamenta perché ogni disciplina, acquisendo senso agli occhi degli studenti, li appassionerebbe al sapere più di quanto non accada oggi. E in filosofia non si tratterebbe allora di imparare le risposte dei filosofi, quanto da una parte di sondare le categorie fondamentali con le quali costoro hanno posto le loro domande al mondo, dall’altra di scandagliare le categorie fondamentali della mente, cercando risposte che possano offrire nuovi sviluppi, quand’anche nuovi campi da investigare; filosofare, dunque. Giustamente ricordava Luigi Stefanini : “letale è l’amore dell’arte e della scienza e della bellezza che degenera in estetismo, la scienza che si corrompe nello scientismo, la matematica che inaridisce l’anima nel matematicismo, la tecnica che col tecnicismo automatizza l’uomo, l’interesse per le realizzazioni pratiche che si perde nel praticismo e altrettanto dicasi per la corruzione del diritto nel legalismo, dell’economia nell’economismo, della logica nel logicismo. La filosofia, che è autentica quando si richiama ai massimi problemi dell’essere, accetta per prima l’anchilosi spirituale se si pone sui piano del logicismo moderno, per il quale sarebbero pseudoproblemi quelli di Dio, dell’anima, del fine ultimo della vita, mentre ogni forma di conoscenza legittima dovrebbe chiudersi nell’interno d’un’astratta coerenza di termini, tanto più prossima alla certezza quanto più vicina alla tautologia”.
Restrizione o ampliamento
Allora mi chiedo, ritornando alla prima questione: “perché relegare questa disciplina solo in alcuni ambiti scolastici, escludendo così molti studenti dall’approccio col pensiero che va oltre il dato, col pensiero che sussume i dati in codici, ristrutturandoli nella ricerca delle possibili cause che li hanno prodotti, riorganizzandoli secondo processi logici non solo quantitativi, come fa la matematica, ma anche qualitativi, di relazione, di modalità?”
La tesi dunque secondo cui la filosofia serve solo agli studenti di un certo corso di studi e non agli altri, ad esempio agli studenti degli odierni istituti tecnici, tra breve licei anch’essi, è asserzione peregrina; la filosofia interessa la formazione di ogni studente, anche se non proseguirà gli studi filosofici, perché aiuta ad acquisire un atteggiamento di autonomo giudizio nei confronti della vita, fa diventare uomini liberi, cittadini coscienti, persone responsabili e non soggetti passivi e inerti, o assopiti e indifferenti. Nella progettazione dell’insegnamento al ‘filosofare’ molte sono le proposte, ma una dichiarazione è comune: nessuno mette in discussione il valore formativo dell’insegnamento della filosofia, anzi si sostiene la necessità di ripensare alla filosofia come ad un elemento comune per i diversi indirizzi di studio superiore in quanto esperienza culturale valida per tutti che deve essere proposta nelle scuole come ‘esperienza del filosofare’. La valenza formativa della filosofia in una società sempre più coinvolta nell’esaltazione dei metodi ‘scientifici’ va messa in primo piano per evitare che si dia per scontato il binomio ‘disciplina scientifica uguale a formazione”, senza considerare che è proprio la riflessione sui canoni scientifici a permettere loro di superare lo schiacciamento o l’appiattimento sul puro riscontro o sul dogmatismo disciplinare; e non è forse la disciplina filosofica il luogo in cui si possono sviluppare le abilità inferenziali, quelle epistemologiche, quelle che si incuneano nel secondo livello di riflessione?
Perché estendere l’insegnamento della filosofia
Ora una nuova riforma sta per essere varata ed ho timore che le passate proposte vadano perse; solo una serena riconsiderazione sul valore della filosofia potrebbe portare l’estensore della nuova riforma ad un’espansione di tale insegnamento. Sosteneva una precedente proposta governatitva, purtroppo abortita, che “l’estensione della filosofia anche alle scuole tecnico-professionali si configura come una scelta democratica che supera una visione elitaria della filosofia e che favorisce una crescita di consapevolezza culturale anche a chi sceglie più chiaramente l’indirizzo professionale (e sottolineo professionale): se la globalità della persona ci sta a cuore, allora non può essere negato a nessuno il diritto di collocarsi a pieno titolo nella storia, acquisendo strumenti di giustificazione consapevole della propria visione del mondo e fondata delle proprie opzioni” . E a sostegno di questa apertura citerei proprio il pensiero di Enrico Berti per il quale “la filosofia deve essere insegnata a tutti i ragazzi italiani a partire dai 15 anni, cioè nell’ultimo triennio della scuola secondaria. La convergenza su questo punto fu il ‘miracolo’ realizzatosi già nella Commissione Brocca. Questa è la vera svolta storica rispetto alla riforma Gentile, che fu altamente positiva, per quanto riguarda la filosofia, perché fece dell’Italia il paese in cui si studia la filosofia a scuola più che in ogni altro paese al mondo, e perché concepì questo studio come lettura dei classici, e non come stanca filastrocca manualistica, quale divenne poi con i decreti De Vecchi. […] Raccomanderei un approccio diretto alle opere dei filosofi (come avviene nell’insegnamento della letteratura), in prospettiva storica, non storicista (cioè non necessariamente relativistica), ma di tipo ermeneutico, con attenzione alle distinzioni concettuali, alle procedure argomentative, alle intuizioni valoriali.; […] raccomanderei anche un approccio di tipo critico, cioè problematico, argomentativo, valutativo, come avviene ad esempio nella più recente cultura filosofica di orientamento analitico, dove si studiano anche i filosofi del passato come interlocutori del dibattito filosofico attuale” . Se si ha rispetto per le idee e per gli uomini che hanno dedicato una vita alla filosofia sia praticata sia teoreticamente difesa non si può sottovalutare questa riflessione che interpreta il lemma filosofia nel suo significato più appropriato e che per di più fornisce lo stimolo per una metodologia didattica sulla quale occorrerebbe riflettere da parte di tutti.
Posto che la filosofia sia da considerarsi “un’esigenza culturale valida per tutti”, perché non allargare il suo insegnamento anche agli studenti del biennio? “Nella fase pre-adolescenziale […] tale riflessione potrebbe concorrere - con le altre discipline - alla definizione di attitudini logico-argomentative in connessione con l’area scientifica e letteraria. Tutto questo può avvenire accostando gradualmente testi fruibili – oltre che significativi nell’ambito della tradizione filosofica – in grado di avvicinare alla problematizzazione delle proprie esperienze e alla consapevolezza delle strutture argomentative, implicite nel linguaggio quotidiano. […] Una preparazione alla sensibilità teoretico-storica degli allievi – asserisce Melchiorre – questo potrebbe essere il compito di una filosofia portata, per elementi essenziali e nel modo di assaggi emblematici, al livello di una generalizzazione dell’insegnamento nei curricoli inferiori; [...] in questa prospettiva una lettura che incroci teoresi e storia è ovviamente l’ideale. Come? Tutto dovrebbe partire da una domanda e da un interesse che viene dagli stessi allievi? Come, se oggi tutto sembra appiattito e inerte ad ogni stimolo? Il problema di fondo non è infine quello della situazione critica della attuale situazione giovanile? Ma forse si tratta di scavare oltre la patina dell’indifferenza e della sfiducia per far emergere quel naturale desiderio che i giovani, spesso senza averne una chiara coscienza, sentono come censurato dalle proprie abitudini, dalla propria condizione storica (consumismo, economicismo fini a se stessi ecc.). Mi chiedo se non si possa partire dalla lettura di un qualche frammento di pensiero, emblematico, fortemente simbolico, provocatorio (Eraclito, Platone, Pascal, Kierkegaard ecc.): aprire la discussione, sino a far emergere l’interesse per un tema o meglio per una sequenza esistenziale di temi. Un circolo di questo tipo dovrebbe essere via via precisato con una sequenza che dall’esigenza dell’esistente si sposti alle condizioni ontologiche, trascendentali, espressive: dall’etica all’ontologia, alla gnoseologia, alla metafisica, all’estetica. Questa sequenza circolare dovrebbe essere ricostruita nell’ascolto di quelle stagioni e autori da considerare come punti fermi e guadagno teoretici relativamente alle questioni poste” . Anche Melchiorre, dunque, come Berti non si ferma solo sulla validità dell’estensione dell’insegnamento della filosofia, ma si addentra pure sulle modalità con cui va avviato tale approccio; queste riflessioni possono fornire fondate giustificazioni per diffondere ad un bacino di utenza più vasto la possibilità di una crescita matura.
Va dunque sostenuto con forza che con la filosofia, fatta di continuità e di fratture tra mondo quotidiano dello studente e mondo dei filosofi, si fa esperienza di mediazione; essa deve ‘abitare la città’ mescolarsi tra i problemi della gente, senza per questo ritenere che perda la sua specificità caratterizzante; rimarrà sempre ricerca del senso complesso dell’esistenza, sapere rivolto alla totalità.
Una testimonianza dagli studi sulla psicologia infantile
Addirittura andrei oltre quella fascia di età cui mirava il Convegno di Ischia del 1997, sostenendo la plausibilità di questa estensione con motivazioni ricavabili dagli stessi studi psicologici di Piaget, Taylor e Petter per i quali il filosofico si trova là dove il soggetto supera la staticità di una conoscenza di tipo percettivo, affacciandosi alla rappresentazione chimerica delle cose. Attraverso l’immaginazione egli compie la prima operazione verso l’astratto, creando ipoteticamente una realtà diversa. Se poi si considera la sua capacità di riandare ai motivi che hanno prodotto le sue domande e i suoi ricordi, con la metamemoria di cui è in possesso,
non sarà impossibile attivare quelle funzioni che lo porteranno a riflettere, ad esempio, sul ‘filosofico’ della natura. Inoltre, posta la sua attitudine verso la metacognizione, intesa quale capacità di riflettere sui propri procedimenti mentali, e verso il metalinguaggio, che gli permette di rapportare la parola ad un significato, non credo sia inverosimile svolgere con lui un percorso di concettualizzazione, a meno di non buttare alle ortiche gli studi sulla psiche dell’età evolutiva svolti da studiosi altamente significativi. In effetti, dando loro credito, se dopo i 10 anni segno e significato non risiedono più solo all’interno dell’oggetto, ma vengono scomposti, non è difficile ipotizzare l’inizio di un discorso filosofico adattato a quella fascia di età. Perché escludere costoro dal ‘far filosofia’? Dunque, accogliendo l’aiuto offertoci dagli studi scientifici, non sarebbe esclusa l’opportunità dell’espansione dell’insegnamento filosofico ad età diverse da quelle nelle quali ha trovato finora cittadinanza, a patto però di rovesciare i termini che ci hanno condotto a congegnare programmi a partire dal contenuto, ossia a patto di spostare l’attenzione dai programmi già costituiti alle caratteristiche mentali del soggetto dell’educazione e, in seconda battuta, a patto di focalizzare l’interesse della riforma sul valore e sul metodo di approccio della disciplina.
Si sente ora da più parti parlare dei profili in uscita degli studenti cui sottomettere la composizione del curricolo; ebbene mi sembra che il pensiero logico, il linguaggio matematico, quello qualitativo ecc... possano ben entrare a far parte della formazione dell’uomo di ogni età. Ed invece di richiedere quali siano i motivi di un inserimento della filosofia in tutte le scuole italiane, cosa che peraltro da tempo e da più parti viene sostenuta ed argomentata, si giustifichino, invece, le ragioni che porterebbero ad una sua esclusione; sarebbe molto arduo argomentare seriamente tale estromissione. È vero che si pensa che la filosofia vada rivolta a quella fascia di giovani in grado di interiorizzare e dominare i problemi e quindi si potrebbe negarla ai soggetti pervasi da problemi personali non ancora riflessi, ma il timore può svanire se si pensa che proprio dai dodici anni in poi l’intelligenza (intesa come capacità di costruire ipotesi utilizzando strutture mentali) è in grado di affrontare, e di risolvere, in forma problemica la realtà; l’adolescente, posto di fronte ad un problema, cerca i pezzi mancanti, e li va a scovare all’interno del campo immaginativo; cerca mattoni che si incastrino e che permettano alla nuova costruzione di autoreggersi. E perché non dargli un aiuto attraverso una disciplina così particolarmente adatta a promuovere queste capacità logico-dimostrative com’è la filosofia? Se poi è vera, come sostengono gli studi sulla psiche dei soggetti in età evolutiva, la presenza di interessi epistemici, cioè del desiderio di comprensione del modo di accadere di un fenomeno, nonché dell’attenzione per le strutture dell’uomo nel conoscerlo, chi più del docente di filosofia, visto che si tratta di domande rivolte alla formazione della conoscenza, potrebbe aiutarlo a decifrare il problema?
Posto che anche gli studi di psicologia infantile ci aiutino a decidere favorevolmente per l’anticipazione di questo insegnamento, in quanto ci inducono a coinvolgerlo nella ricerca del ‘filosofico’ presente nella realtà, il problema da risolvere in terza battuta concernerebbe l’ideazione di un programma. Non dovrebbe essere di certo la narrazione della cronologia a tener banco, occorrerebbe forse andare verso quella via già tracciata dalla Commissione Brocca per la quale il contenuto non va preso come un dato a se stante, ma va legato strettamente alle finalità e agli obiettivi della disciplina. È su questo versante che va posta la maggior attenzione. Come nota Piaget, la scoperta del concetto di luogo geometrico, anche se la sua formalizzazione non è ancora precisata, è la via che permette di vedere, sondando con la mente situazioni che partono dalla realtà, una soluzione alternativa a quelle proposte perché, con l’utilizzo di strutture mentali rivolte al mondo del “possibile”, si cerca la soluzione di un problema pensato per ipotesi. Ed è su questo pensiero ipotetico (prima induttivo e poi deduttivo) che lo studente può rapportare gli effetti alle cause, cercando di risolvere situazioni che vanno al di là del reale contingente. Allora non è peregrino pensare ad un adattamento dei contenuti a queste caratteristiche, invertendo con ciò i termini classici dell’insegnamento della filosofia. Se i nuovi programmi di filosofia, scombinando e rovesciando il rapporto oggi esistente tra conoscenza e soggetto, invitassero a ricondurre ogni evento complesso al pensiero ipotetico proprio dell’età dello studente, avremmo già una chiave che permetterebbe di organizzare l’insegnamento filosofico in più livelli scolastici. Non più narrazione della filosofia, ma neppure informazione filosofica, meglio riflessione sul dato che va scomposto e ricomposto, ricorrendo ad indizi, documenti, testimonianze ecc…
Questa valenza, che apre la porta della filosofia a tutti, questo approccio, che da insegnamento ‘della filosofia’ si sposta sul fronte del ‘filosofico’, saranno la chiave di volt per reggere la rivoluzione delle variabili, recuperando la centralità delle strutture mentali dello studente cui la filosofia va rivolta; saranno questi nuovi canoni a determinare il programma, rovesciando così una vecchia gerarchia consolidata, dal programma da svolgere al sapere da legittimare. Se la filosofia ha acquisito un’immagine negativa, tanto da essere considerata superflua, tanto da non servire alle giovani generazioni, forse non è estraneo il luogo in cui la si studia, nella scuola che, grande contenitore quale essa è, fa convivere tendenze storicistiche, ormai affievolitesi con il decadere dell’ispirazione idealistica, propensioni dossografiche ed orientamenti ideologicamente strumentalizzanti accanto a spirito di innovazione. Anche i ministri che si sono succeduti in questo ultimo cinquantennio, sconcertati di fronte alle difficoltà di una qualsivoglia riforma dell’insegnamento filosofico, non sono estranei a questa caduta di importanza della filosofia perché col loro atteggiamento hanno spesso accettato, con la falsa giustificazione della libertà di insegnamento, la convivenza di queste tendenze senza entrare con significatività nel merito della necessaria formazione metodologico-disciplinare del docente. Il grande pubblico così non ha potuto recuperare il vero significato di filosofia come capacità di riflessione sui problemi connessi alla ricerca della verità e a quelli del senso della vita; queste dimensioni vanno liberate dal termine perché è da lì che la filosofia si è originata, dalla problematizzazione del reale e non dallo studio meccanico delle visioni dei filosofi.
Allora, accettata la premessa che la filosofia non sia quella disciplina, alquanto noiosa, che si snoda attraverso un’esposizione del pensiero dei filosofi inseriti in una cronologia storica, per il quale insegnamento non può esserci posto nella scuola rinnovata, accettato che il termine filosofia diventi occasione per riflettere seriamente sulle cose e per ragionare in termini argomentativi adatti alla mente dell’età dello studente, allora credo che un posto nella scuola riformata questo tipo di insegnamento possa averlo, anzi le calzi a pennello.
Il problema poi sarà quello di chi dovrà insegnarla, ma la situazione scolastica consolidata nel tempo mi chiarisce la questione: siccome è sempre privilegiato l’intervento dello specialista là dove ce n’era bisogno; si è sempre pensato al supporto di personale qualificato là dove gli studenti presentavano maggiori difficoltà; allora penso che la risposta sia automatica: toccherà allo specialista, in questo caso al docente di filosofia, rinnovato da un adeguato aggiornamento e da una specifica formazione in servizio, entrare in quelle classi dove il filosofico può essere insegnato/appreso solo con la presenza di chi non solo “sa”, ma soprattutto “sa porgere”. Mi sembrerebbe strano che un docente di filosofia fosse chiamato ad insegnare tecnologie industriali o lettere italiane, e mi farebbe specie, parallelamente, se avvenisse il contrario. Dunque, una seria riforma dell’insegnamento della filosofia va legata con un impegno per il rinnovamento pedagogico di chi sarà chiamato a mobilitare le menti dei futuri alunni, previa attenzione metodologica per l’età propria dei soggetti in formazione.