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Comunicazione Filosofica n. 14 gennaio 2005
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© 2004 Fulvio Cesare Manara
Le nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione e la Filosofia
1. Qual è l’impatto delle TIC sulla filosofia?
La mancanza di consapevolezza degli effetti
di qualsiasi forza è disastrosa,
soprattutto se si tratta di una forza che noi stessi abbiamo creato.
Mc Luhan
1.1. Paradigmi noetici ed epistemologici
1.1.1. le domande “metanoetiche”
“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”… Sono questi gli interrogativi con
cui di solito si riassume, invero sbrigativamente, il compito del domandare
filosofico. A volte si ripetono le celeberrime “tre domande” kantiane: Che cosa
posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?
Qui ci occuperemo non tanto di essi, quanto di quelle “domande nascoste” che si
celano dietro o dentro tali interrogativi.
Non si tratta infatti soltanto di chiedersi cosa potrebbe cambiare se questi
interrogativi fossero posti in un contesto espressivo e comunicativo segnato dai
nuovi media…
Solleviamo piuttosto alcuni interrogativi “nascosti”, ossia quelle domande che
potremmo definire “domande metanoetiche”.
Queste “domande”, che spesso restano nascoste dietro gli interrogativi
filosofici tradizionali, possono essere infatti, almeno: Come siamo giunti a
pensare in questo modo? Cosa ci permette di pensare in questo modo e di porre
queste stesse domande? In base a quali pratiche di espressione del pensiero ci
chiediamo “chi siamo?” Quali strade abbiamo battuto, quali pratiche ci hanno
orientato ad assumere questo paradigma di pensiero piuttosto che un altro? Quali
sono i paradigmi di pensiero che strutturano il nostro pensato? Che relazione
c’è tra il pensiero e le pratiche espressive e di elaborazione dell’informazione
o di comunicazione che abbiamo adottato?
Attorno a queste domande pare ormai aperta la strada della ricerca filosofica,
perlomeno riguardo a due grandi piste (senza dubbio interconnesse l’una
all’altra):
a) lo studio antropologico che ci permetta di comprendere l’emergenza dell’infosfera;
b) il “costruzionismo critico” che permetta di elaborare una nuova filosofia
della conoscenza come “ontologia della conoscenza”, senza la quale vano sarebbe
ogni tentativo di far si che la “filosofia dell’informazione”, come teoria
unificata dell’informazione, possa divenire parte costitutiva e fondante della
nostra philosophia prima .
1.1.2 media e mente
Oggi abbiamo a disposizione nuove tecnologie dell’espressione, della parola,
delle immagini e della comunicazione. Si dice che siamo usciti dall’era
gutenberghiana per entrare in quella degli ipermedia e della telematica.
Ciò ha spinto in questi ultimi dieci-quindici anni a prendere coscienza in modo
rinnovato e radicale di quanto il rapporto mente-medium è l’ambito stesso in cui
si sono definite forme di coscienza, assetti noetici ed epistemologici, assetti
culturali, determinatisi nel corso della storia .
Le tecnologie della parola, dell’immagine e dell’espressione, i media della
comunicazione non sono “enti” neutrali. Essi “plasmano” il pensiero umano, le
forme dei saperi e della cultura.
1.1.3 la mediamorfosi
La mutazione mediale, o mediamorfosi, comporta dal punto di vista filosofico
perlomeno due questioni, che non è opportuno sottovalutare:
a) a livello “noetico”: nel rapporto medium-mente vengono a costituirsi le
pratiche stesse del pensiero, le forme del pensare. Le tecnologie
dell’espressione, prima di tutto, sono gli ambienti in cui il pensare si
“realizza” – virtualmente rispetto al mondo fisico, ossia “culturalmente” . Le
nuove tecnologie mutano tale rapporto medium-mente, e se la filosofia è
“ambientata” per sua natura all’interno della tecnica della parola orale e di
quella scritta che destino potrà avere all’interno del nuovo ambiente mediale?
b) a livello “epistemologico”: siamo orientati verso nuove maniere di intendere
la conoscenza, la sua “costruzione” e la sua comunicazione. Le nuove tecnologie,
lungi dall’essere semplici “sussidi”, si rivelano sempre più luoghi in cui si
affermano nuovi modi di conoscere, apprendere, dialogare, esse rappresentano i
nuovi “anfiteatri della conoscenza” . Come si ridefiniscono quindi gli assetti e
i paradigmi epistemologici della conoscenza all’interno di questo nuovo
“universo”?
Ecco la ragione per cui la maggior parte del dibattito attuale su queste
faccende non si svolge tanto al problema degli impieghi didattici (altrettanto
centrale, peraltro), quanto a ciò che la “multimedialità” (o l’ipermedialità)
oggi significa e rappresenta: ci si interroga sul valore simbolico e metaforico
che questo termine comporta.
1.4.
Sul piano strettamente epistemologico, è da considerare infine l’apporto delle
scienze cognitive. In esse si è fatto strada il “cognitivismo di seconda
generazione”, che nel dibattito internazionale viene indicato con il termine di
costruttivismo, con taglio più o meno marcatamente socio-culturale .
Inoltre, è fortemente in discussione il modello “reificato” nella teoria della
conoscenza, di cui esponente non secondario fu certamente anche Popper, con la
sua teoria della “conoscenza oggettiva”. Sembra necessario un paradigma capace
di comprendere meglio la non identità fra contenuto e processo di comunicazione
. In termini elementari, sembra che identificare la conoscenza con i contenuti
informativi sia riduttivo e inadeguato rispetto alla complessità del processo in
gioco.
1.2. Implicazioni teoretiche delle TIC
A fianco del pensiero logico-deduttivo-lineare, che ha trovato la sua massima
estrinsecazione nella stampa, si manifesta un ampliamento e un rafforzamento di
un pensiero logico-associativo-reticolare e di un pensiero
analogico-immaginativo e simbolico;
Si afferma il paradigma della complessità e della multidimensionalità dei
saperi, con la relativa tendenza all’a-centrismo e/o al pluricentrismo
Si manifesta una crisi delle gerarchie dei saperi (scienza e arte, saperi
colti e mondani ecc.), affiancata da una apertura alla contaminazione
transdisciplinare ed alla trasversalità;
Complessità e multidimensionalità della conoscenza (Morin, Varela, Prigogine);
conoscenza come attraversamento pluriprospettico (Wittgenstein);
Recupero del corpo come macchina conoscitiva; tecnologie della “mente-corpo”;
integrazione tra linguaggi analogici e digitali; conoscenza immersiva;
Concezione multipla e distribuita della conoscenza e dell'apprendimento (Olson,
Gardner, Cole, Bruner);
1.2.1. “crisi” della filosofia?
Con “crisi” ovviamente non si intende il “superamento” o la dismissione di un
modello di pensiero. Si intende la perdita della sua (presunta) univocità e/o
centralità, il suo essere rimesso in gioco assieme ad altri paradigmi e modelli.
Più che insistere sulla “crisi del razionalismo”, e quindi sui presunti “rischi”
per la filosofia, sarebbe opportuno comprendere meglio la plurivocità possibile
e non unideterminata del pensiero umano, proprio sulla base della chiara
comprensione storica dell’interdipendenza media-mente.
Se consideriamo con attenzione la pluralità delle pratiche, dei modelli di
razionalità e di pensiero, che si sono sviluppati nel corso della storia della
filosofia occidentale, apparirà chiaro che è assolutamente riduttivo pensare
alla tradizione filosofica qualificandola come la tradizione del razionalismo
“logico-deduttivo”. E come si comprenderebbero, allora, i quadri concettuali
aperti dagli aforismi, dai pensieri, dagli epistolari, dalle meditazioni, dal
poema filosofico? Non tutti questi “generi” filosofici rimandano necessariamente
a strutture argomentative; essi, piuttosto, dischiudono ampi spazi ad una
razionalità guidata dall’immagine, questione che molto deve far riflettere su
come, in questi casi, vanno a prodursi e a sedimentarsi le significazioni e le
interpretazioni.
1.2.2. pensiero per immagini e filosofare
L’immediatezza dell’immagine rende senza dubbio più veloci i processi cognitivi
e l’elaborazione concettuale; sviluppa e rinforza il procedere inferenziale e
l’induzione; favorisce il decentramento, il confronto, le connessioni, la
reversibilità e la divergenza. Questi processi, già resi possibili all’interno
della pratica della parola, risultano esaltati e rinforzati da una pratica
mista. Pertanto, gli strumenti multimediali, che privilegiano il ricorso
all’immagine visiva ed al suono, permettono il sorgere di costruzioni mentali,
concettualizzazioni e significazioni complesse, dotate anch’esse di un
apprezzabile spessore noetico e di un’alta carica comunicativa; caratteristiche,
queste, del filosofare.
Si può dire che la nostra attività mentale, nel complesso, non potrebbe fare a
meno delle immagini mentali. «Non esiste pensiero senza immagini», afferma De la
Garanderie , «l’immagine mentale è la materia della comprensione e della
memorizzazione». Le immagini, siano esse auditive o visive, influenzano i nostri
processi di pensiero, la nostra capacità di comprendere, di apprendere, di
memorizzare, e via dicendo .
Ma le caratteristiche del linguaggio delle immagini (auditive o visive che
siano) sono assai diverse ed in molti tratti incommensurabile rispetto a quello
della parola. Così esse generano diverse attività mentali, diversi processi
cognitivi e noetici, diverse forme di apprendimento, di comprensione e di
interpretazione della realtà, soprattutto se le confrontiamo con quelle dei
codici della lingua scritta.
Se univoco, l’apprendimento per immagini è un apprendimento “povero” rispetto a
quello della parola: attenua la distanza tra esperienza diretta e mediata dal
medium stesso, ed inoltre tende ad inibire il processo di rielaborazione e la
possibilità di cogliere il significato delle esperienze audiovisuali stesse, di
interpretarne il senso. Ma è anche vero che l’apprendimento per immagini stimola
e facilita una memorizzazione diversificata e più ricca, anche perché esso con
immagini e suoni, fa appello più fortemente alle emozioni del ricevente, e
l’emozione è senza dubbio una delle dimensioni fondamentali del processo stesso
della memorizzazione.
L’educazione filosofica ha rappresentato uno sviluppo di questo dominio della
parola, essendo centrata sulle capacità di concettualizzazione e di
argomentazione. In particolare, essa sembra strettamente connessa allo sviluppo
della scrittura, con la sua logica lineare, mediata e consequenziale.
Ma si è costituito, in alcuni casi, anche un vero e proprio “pregiudizio”: «la
nostra eredità razionalista ha condannato l’immagine mentale» . Nella tradizione
del pensiero filosofico si incontra spesso la tendenza ad ignorare ed emarginare
ciò che non è “logico”, inteso come il ristretto territorio “razionale” nell’uso
stesso della parola .
Suoni e immagini, sono oggi invece ineludibilmente linguaggi elementari della
comunicazione. Il linguaggio del cinema (“immagini parlanti in movimento”) e
quello audiovisivo in genere rappresentano la potente e inedita sintesi
complessa dei codici comunicativi: parola, suono, immagini (la realtà virtuale
coinvolge anche il “pensiero” motorio...).
1.2.3. l’essenziale nella pratica filosofica
Il rischio di perdere la dimensione filosofica del pensare deve essere
considerato, ma non dipende dalla natura della pratica di espressione e di
comunicazione cui faccio ricorso, e, in ultima analisi, non dipende affatto
dalla natura delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
La dimensione filosofica consiste infatti nello “stile” e nella “prospettiva”
con cui le pratiche espressive e di pensiero vengono messe in atto.
E lo specifico del pensare filosofico è solo la prospettiva critica, tesa a
costruire riflessioni, è la “fatica del concetto”, l’attenzione al significare
aperto, a porre domande e dubbi, a offrire prospettive e risposte su cui
continuare a dialogare, discutere e ri-discutere. Lo specifico del pensare
filosofico è l’interrogare radicale.
Come non basta “leggere” o “imparare” un libro di filosofia per filosofare, così
non è sufficiente un ipermedia di contenuto filosofico o la navigazione tra siti
di filosofia per filosofare: ciò che è cruciale non è ovviamente il contenuto,
né il media in uso, quanto lo stile e la prospettiva della pratica.
La pratica filosofica è racchiusa integralmente nel “domandare tutto e tutto
domandare”. Nell’interrogare radicale, che mette in discussione, senza fermarsi,
i presupposti stessi del suo operare, le sue stesse pratiche e le sue modalità
di espressione, formazione del pensiero e comunicazione.
1.2.4. il domandare filosofico e la sua natura “metamediale”
L’interrogare radicale, che opera all’interno della comunicazione filosofica
come pratica fondativa, non dipende dalle pratiche espressive e dai media, non
dalle stesse conoscenze che sono in gioco nel suo stesso costituirsi.
Il pensiero filosofico non sembra riducibile ad una costruzione, un’esplorazione
di territori di sapere, ma piuttosto ad un’esperienza. Far filosofia è
incontrare la situazione “critica” cui si accenna nel celebre passo kantiano
della Fondazione della metafisica dei costumi in cui egli, per definire in che
cosa consista la “posizione critica” e la “genuinità” della filosofia, sostiene
che essa consista proprio nel non poter “agganciare” la sua posizione «a nulla
nel cielo, o ad appoggiarla a nulla sulla terra» : l’esperienza del filosofare
fa perno sull’autonomia della sua stessa “posizione critica”, il fatto che essa
stia «salda, senza poter tuttavia trovare né appoggio, né appiglio in qualcosa
che stia in cielo o in terra». «Il “che cos’è” della filosofia — se si vuole: il
suo senso — sta anzitutto nel “come”, ovvero nella riflessione-domanda sulla
possibilità della sua forma che le conferisce internamente significato (la pone
in essere)» .
Come il filosofo è qualcuno che “sa tutto, senza aver imparato niente” (il
gentiluomo-filosofo, come dice Molière, Les femmes savantes): il filosofo
ricerca, ma la sua verità non poggia da nessuna parte — certo non sui mezzi
stessi della sua propria conoscenza. Proprio per questo non rifugge da alcuna
tecnica espressiva, e le pratica, a sua convenienza, tutte, senza identificarsi
in nessuna.
2. Le pratiche filosofiche e le nuove Tecnologie dell’Informazione e della
Comunicazione
Come le pratiche filosofiche si pongono entro il nuovo “anfiteatro della
conoscenza”?
2.1. Una diversa prospettiva: la questione della comunicazione filosofica
Il fatto che le rivoluzioni della cosiddetta “multimedialità” e della telematica
trasformino significativamente i nostri processi comunicativi spinge certo i
filosofi, o gli insegnanti di filosofia, a occuparsi anche di queste nuove
frontiere. Nella lezione A del percorso A abbiamo visto come si tratta di porre
con rigore la questione se e come l’insieme delle pratiche filosofiche possano
essere in genere trasformate dai mutamenti noetici, cognitivi e relazionali
posti in essere da queste nuove tecnologie. Ho messo a tema altrove alcuni
aspetti del problema di come affrontare i mutamenti epocali in corso nei sistemi
di comunicazione della costituenda “società dell’informazione”.
La questione del rapporto tra TIC e filosofia può però essere affrontata non
solo partendo dall’esterno (ossia dalla ricerca antropologica e dalla “filosofia
dell’informazione”), ma può essere considerata anche muovendo dall’interno del
campo disciplinare, ossia considerando la questione dal punto di vista delle
pratiche filosofiche e del loro porsi in essere all’interno del nuovo
“anfiteatro della conoscenza” fornito dalle TIC.
Una pista di ricerca che sicuramente si apre dinanzi a noi è quella che consiste
nel considerare la molteplicità delle pratiche filosofiche e di studiarne le
interfacce con le tecnologie dell’espressione e della comunicazione utilizzate,
o le variabili comunicative in atto nel momento della loro “immersione” entro le
TIC; ma soprattutto è interessante l’indagine attorno alla questione di
coglierne la possibile apertura alla “comunicazione etica” (come distinta dalla
comunicazione di sapere) (alla luce di quel che sostengo anche sotto al punto
2.).
Ma questo diverso “punto di vista”, altrettanto significativo ed importante
dell’altro, sembra consistere nel considerare con rinnovata attenzione a) la
questione dello “statuto epistemologico della filosofia” e b) la questione della
natura e gli assetti del problema della comunicazione all’interno delle pratiche
filosofiche.
Dal testo della Lettera VII del corpus Platonicum fino a oggi, del resto, la
ricerca filosofica non ha smesso di porsi l’interrogativo fondamentale sulla
natura delle sue pratiche, sulla sua “comunicabilità” e sulla sua natura in
relazione al territorio della conoscenza scientifica.
2.2. “Statuto epistemologico” della filosofia, filosofare e nuove tecnologie
Porre il problema dello “statuto epistemologico” della filosofia di fronte alle
nuove tecnologie può essere una maniera decettiva di porre la questione. Lo
stesso, se dicessimo che lo spazio multimediale “è un modello di filosofia” (Maragliano).
Come se le filosofie fossero determinate univocamente dal mezzo di espressione e
dalle tecnologie della comunicazione entro cui vengono ad essere.
È vero, prima di tutto, che ci possono essere almeno due modi di intendere la
ricerca filosofica, e sostanzialmente, anche due modi diversi di accedere alla
Filosofia. Il primo è quello che si qualifica attribuendo alla Filosofia un
significato di tipo “dottrinale”. La Filosofia, da questo punto di vista, è un
sapere tra i saperi o anche una tecnica per l’elaborazione di un sapere
particolare in mezzo a tanti altri saperi. Una tecnica che permette di costruire
il discorso, sulla base del quale si da poi conoscenza o sapere, o sulla base
del quale si fanno circolare informazioni. E questa prima prospettiva può poi
dividersi a sua volta in due direzioni diverse. Di fatto la Filosofia è stata
sempre più nell’età moderna un ripensare se stessa, quindi l’oggetto del
discorso è la propria stessa storia, la storia della propria tradizione, ed ecco
allora la storia della Filosofia o la storia delle idee. D’altra parte questo
sapere che si elabora con una prospettiva particolare, può anche essere
orientato alla trattazione di problemi, i più disparati. Filosofia come un
sapere tra i saperi, quindi, al cui interno si opera la distinzione tradizionale
tra Filosofia intesa come ricerca storica, e la Filosofia come teoresi, o
problematizzazione. Abbiamo anche a livello disciplinare in Università
l’ipostatizzazione di queste due branche della ricerca, che abbiamo ereditate
dalla tradizione come nettamente distinte. E il grande dibattito cui senz’altro
molti di noi hanno assistito s’è appunto centrato sul presunto conflitto tra la
“storia della filosofia” e la filosofia “analitica” , o filosofia tout court. Ma
non è proprio vero però che queste siano due prospettive alternative, perché
entrambe partono dallo stesso comun denominatore: la filosofia è un sapere. E
poi, c’è un’altra possibile maniera di guardare alla filosofia. C’è un’altra
possibile concezione della Filosofia: la Filosofia intesa come un’attività, non
come una dottrina, un sapere fra i saperi. La Filosofia intesa come pratica,
come esercizio del pensiero, ma anche come maniera di essere, come modo di
vivere. Tutto sommato questa distinzione è abbastanza antica: se ci pensiamo, la
ritroviamo anche in Platone, che tra l’altro è uno dei protagonisti proprio
della conquista della consapevolezza profonda del legame fra tecnologia della
scrittura e pensiero. Nella Lettera settima, e in altri luoghi dei dialoghi,
Platone ci testimonia che la Filosofia è fatta di un lungo, rigoroso, duro
esercizio dialettico, faticosissimo, ma che essa non si identifica con questo
“controllo del discorso”, con questa “tecnica” della dialettica, del dialogare;
la Filosofia è qualcosa di più. Ci dice che la Filosofia «non è una scienza come
le altre», «non si può in alcun modo comunicare», è come «una fiamma che si
accende da un fuoco che balza, nasce d’improvviso nell’anima» . Insomma il
filosofare è un’esperienza interiore, personale, unica, e non si identifica con
i tentativi di concettualizzare, definire, trasformare in un sapere che possa
essere trasmesso. Essa non sarebbe pertanto un “discorso” su qualcosa, ma
proprio l’esercizio di un modo di esistere, di vivere . Platone, poi, è proprio
colui che tra l’altro, come sappiamo, ha elaborato la sua ricerca e la comunica
muovendo all’interno di un paradigma, che è quello permesso dalla scrittura, e
del paradigma della logica argomentativa che lo descrive. Il suo è il primo
modello organico di scrittura filosofica nella tradizione, e la discussa
polemica da lui condotta nei confronti della scrittura, che pure utilizza, non è
così paradossale come potrebbe sembrare, perché è proprio così che egli riesce a
cogliere lo specifico della pratica filosofica: su questo crinale difficile per
cui l’esperienza della Filosofia è si come una ricerca conoscitiva fra altre
ricerche, una ricerca particolare tra altre, ma è anche e soprattutto
un’esperienza, esercizio di pensiero di natura diversa rispetto alle esperienze
della ricerca conoscitiva. La dottrina platonica relativa alla distinzione tra
noesis e dianoia è abbastanza nota, ed importante, o quella husserliana tra
noesis e noema.
Così, quando Ong sostiene che «L’esistenza stessa della filosofia e di tutte le
scienze e le “arti” (…) dipende dalla scrittura» e che ciò significa che essa è
prodotta «non dalla mente umana senza aiuti, ma dalla mente che usa una
tecnologia profondamente interiorizzata, incorporata nei processi mentali
stessi». E conclude sostenendo che «La filosofia […] dovrebbe avere più
consapevolezza di essere un prodotto tecnologico, il che significa un tipo
speciale di prodotto molto umano. La logica stessa emerge dalla tecnologia della
scrittura» , egli si riferisce in tutta evidenza alla filosofia intesa nel primo
dei due significati sopra esposti. In questo senso essa ha uno statuto
epistemologico connesso con le tecnologie dell’espressione e della comunicazione
in cui è posta in essere.
Ma nello stesso tempo, il filosofare, se lo intendiamo come si è detto sopra,
ossia come “interrogare radicale” è l’esporsi ad un pensiero che non si conclude
nell’esercizio del conoscere e del sapere, perché in esso è trasceso. E qui,
“trascendere” non può essere inteso affatto come l’andare oltre, della
tradizione ontoteologica, quando come lo “scendere-tra” del pensiero nei mezzi
di comunicazione. Questa pratica del pensiero, nella terminologia platonica,
anche se forse in un senso anche non strettamente platonico, appunto, si esprime
nel termine dia-noia. Il fatto che la nostra mente possa essere plasmata dalle
più diverse tecnologie della comunicazione può farci comprendere non solo la
plurivocità delle filosofie possibili, ma anche l’unità del filosofare (noesis)
come possibile orizzonte/soglia del pensiero di poter-essere-altro rispetto ai
sistemi conoscitivi ed ai saperi in cui si estrinseca ed ai media in cui li ha
espressi.
Il che, naturalmente, non significa affatto introdurre uno iato tra filosofia e
filosofare (così come tra filosofia e scienze, dopotutto) quanto piuttosto
salvaguardare appunto la natura del pensare e quella del sapere, come distinti e
interrelati nello stesso tempo . L’ethos del filosofare, in conclusione, può
avere un suo “statuto”, ma esso, come tale, pertiene al vivere più che al
sapere.
2.3. La comunicazione filosofica e le TIC
Quanto spero si sia potuto cogliere nella maniera con cui abbiamo posto le
questioni del rapporto tra filosofia e tecnologie dell’informazione e della
comunicazione permette interessanti considerazioni sui luoghi e gli spazi del
filosofare.
Una prima serie di riflessioni sul problema della natura del comunicare
filosofico ho tentato di esprimere, ad ampio raggio, in un saggio cui rimando .
Qui propongo solo alcune osservazioni che ritengo prioritarie rispetto alla
possibile “babele” di riflessioni che questi interrogativi inevitabilmente
generano.
All’interno dell’orizzonte assai ampio di possibilità e di pratiche fornite
dalla moltiplicazione dei mezzi di espressione e di comunicazione, delle stesse
tecnologie dell’espressione e della comunicazione, la pratica filosofica non
rischia di perdersi, se non identificandosi univocamente con questo o quel
sistema logico, con la sua relativa interfaccia con la mente che è la tecnologia
dell’espressione e della comunicazione in cui esso si è espresso.
Non vedo pertanto altra possibilità per chi pratica il filosofare se non quella
di rischiare di “immergersi” nelle nuove tecnologie, nel farne pratiche di
comunicazione, senza dismettere il proprio habitus, che è quello di praticare la
“soglia” delle tecnologie della comunicazione. Comunicare filosoficamente
significa non mirare né al contenuto né al processo (facendoli salvi entrambi),
quanto mirare alla coscienza dell’essere immersi in una pratica, quale che essa
sia.
Alcune pratiche comunicative che sembrano “fertili” di nuovi sviluppi sono
quelle in cui la macchina non si sostituisce all’interattività umana, l’unica
reale e diretta. Così, per fare un esempio, le pratiche di scrittura che si
sperimentano in quella “seconda oralità” che è la scrittura nelle chat, che non
divengono chat “filosofiche” perché si parla di qualche particolare tema per sua
natura “pertinente alla filosofia”, ma possono diventare tali per lo stile del
dialogare, per le caratteristiche filosofiche della dialettica, ma ancor prima,
dell’ascolto, in sostanza la comunicazione del pensiero, o la conversazione
“pensata” e che “cambia la vita” tra i due interlocutori. Per non parlare
dell’universo del virtuale, come possibilità “reale” e tutt’altro che fittizia .
Ed altre, sicuramente.
Sono convinto che l’ambiente di comunicazione messo in essere dalle TIC possa
essere quell’agorà in cui le persone possono oggi incontrarsi e dialogare, se
vogliono, anche filosoficamente. Ma questo dipende dalla natura degli
interlocutori, ovviamente, non dal mezzo o dall’ambiente stesso che praticano.
Nell’agorà ateniese un sacco di persone circolavano facendo tutt’altro che
filosofare, e ancor meno pensare, come è noto.
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