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Comunicazione Filosofica n. 14 gennaio 2005

 

Fabio Minazzi

Insegnare a filosofare[1]

 

«Non deve essere studiato nulla che al di là del suo contenuto sostanziale non apporti un contributo alla vita dello studente - sia esso un potenziamento dell'energia, che sostiene funzionalmente questo studio, o attraverso il senso ulteriore operante che questo contenuto acquisisce per l'approfondimento e la chiarezza, l'ampiezza e la moralità dello studente. L'uomo attivo intellettualmente, il cui presente è al tempo stesso futuro, del quale è responsabile, colui che si impegna “sforzandosi”, svolge ogni compito, come se stesse lavorando a qualcosa di più. In rapporto alla sua vivacità intellettuale trae da ogni compito, come prodotto ulteriore, un rafforzamento, un'abilità per la sua personalità complessiva, portando così ad un grado superiore la totalità del suo futuro, che permane in lui vivo e in continuo sviluppo, ed eleva ad un grado superiore tutta la dinamis imprevedibile del suo agire successivo».

            Georg Simmel, Schulpädagogik[2]

 

 

1. Le scuole devono necessariamente annoiare?

 

«Fu durante gli ultimi terribili anni della guerra, probabilmente nel 1917, al tempo in cui soffersi di una lunga malattia, che mi resi conto molto chiaramente di ciò che per lungo tempo ero stato pienamente convinto: che nelle nostre famose scuole secondarie austriache (dette “Gymnasium” e - horribile dictu - “Realgymnasium”) stavamo scandalosamente sprecando il nostro tempo, quantunque i nostri insegnanti avessero una buona formazione e cercassero con tutte le loro forze di fare delle scuole le migliori del mondo. Che molto del loro insegnamento fosse estremamente noioso - ore ed ore di tortura disperata - non mi era nuovo. (Mi avevano immunizzato: da allora non ho mai più sofferto la noia. A scuola era possibile essere scoperti se si pensava a qualcosa che non era in rapporto con la lezione: si era costretti a stare attenti. E così, in seguito, con un conferenziere noioso fu possibile intrattenersi coi propri pensieri). C'era una sola materia in cui avevamo un insegnante interessante e veramente ispiratore. La materia era la matematica, e il nome dell'insegnante era Philipp Freud (non so se fosse parente di Sigmund Freud). Ma quando rientrai a scuola, dopo una malattia durata più di due mesi, trovai che la mia classe non aveva fatto proprio nessun progresso, nemmeno in matematica. Questo fatto mi aprì gli occhi: mi rese impaziente di lasciare la scuola»[3].

 

Così testimonia emblematicamente Sir Karl Raimund Popper a proposito del suo rapporto con il mondo della scuola che, effettivamente, sul finire del 1918, si interruppe definitivamente, perché l'epistemologo austriaco, classe 1902, decise infine di ritirarsi dal Gymnasium e di studiare per suo conto per poi iscriversi, sia pur ancora quale studente non-immatricolato, all'università di Vienna. Certamente da allora molte cose sono cambiate, anche nel mondo della scuola. Né si può neppure negare come il Gymnasium austriaco d'inizio secolo fosse profondamente diverso non solo dai nostri tradizionali licei, ma anche dalla contemporanea scuola italiana secondaria superiore. Tuttavia, come poi negare che proprio queste ben diverse e differenti realtà scolastiche condividano comunque un punto di convergenza per nulla secondario come quello attinente il tedio che spesso domina sovrano tra le aule scolastiche? Le scuole austriache d'inizio secolo non sono affatto analoghe ai nostri licei, i difficili e terribili anni della prima guerra mondiale sono ben diversi dal mondo di opulenza materiale dei primi anni del secondo millennio, tuttavia le scuole di questi due mondi eterogenei possiedono ancora un singolare comun denominatore, rappresentato dalla comune noia e dallo scandaloso, e assai diffuso, spreco del tempo.

   Come si é visto l'epistemologo austriaco è anche riuscito, vichianamente, a trasformare una sua difficoltà oggettiva - quella di dover stare formalmente attento alle noiosissime lezioni liceali - in una feconda virtù, coincidente con la capacità di prestare pubblica attenzione a qualunque noiosa relazione intrattenendosi liberamente, nel contempo, con i propri autonomi pensieri. Virtù invero nascosta e segreta cui molto spesso, sia pur con differente capacità di “camuffamento”, ricorrono moltissimi studenti che cercano, in qualche modo, di “scappare” ed evadere dalla disperata tortura prodotta dalla noia scolastica, rifugiandosi nel loro mondo, nei loro pensieri, nei loro interessi più veri. Da questo punto di vista dall'inizio del secolo e dalle scuole austriache alle scuole italiane del nuovo millennio sembra non essere cambiato molto. Né del resto l'autorità cui in genere si ricorre per rompere con decisione questo grave iato tra mondo scolastico e mondo personale del discente riesce veramente a risolvere il problema. Semmai quest'ultimo è solo rimosso con un atto di forza la cui efficacia, peraltro, spesso si dissolve nel momento stesso in cui sembra invece conseguire il suo obiettivo: infatti lo studente richiamato con la forza dell'autorità all'attenzione dovuta nei confronti della noiosa lezione, nel momento stesso in cui sembra aderire all'ordine impartitogli in realtà sta già navigando con la mente verso altri lidi più attraenti e stimolanti. Il risultato di questo silente ma vigoroso braccio di ferro tra l'autorità del docente (e, più in generale, della scuola) e il mondo degli interessi autonomi dei discenti pone le migliori premesse per generare la discutibile virtù della dissimulazione in virtù della quale lo studente camuffa sempre più un interesse formale dietro il quale si cela, in realtà, un disinteresse alquanto radicale e diffuso. Entro questa contraddizione la noia si riproduce a vista d'occhio e lo spreco del tempo è incrementato a dismisura.

   D'altra parte proprio questo problema del tedio prodotto a dismisura dalla scuola e del conseguente spreco del tempo costituisce una questione sistematicamente rimossa e non mai affrontata articolatamente e compiutamente, a differenti livelli, dagli stessi responsabili dell'educazione scolastica. Esito tanto più singolare nella misura in cui la noia prodotta dalla scuola non concerne unicamente i discenti, ma finisce per coinvolgere e tediare gli stessi docenti che, molto spesso, praticano il loro mestiere con una stanchezza e una malinconia che finiscono poi per fargli porre in uggia le stesse discipline da loro insegnate. D'altra parte la sistematica rimozione istituzionale e culturale di questo problema dell'infinita noia prodotta dalle scuole d'ogni ordine e grado e nelle diverse latitudini costituisce forse la migliore documentazione dell'effettiva diffusione di questo problema e della sua stessa pervasività. Proprio nell'ambito del rimosso, del non dichiarato e di ciò di cui non si vuol neppure parlare si radica la devastante presenza di un male istituzionale assai diffuso e virulento che viene paradossalmente difeso e tutelato proprio attraverso un singolare e complessivo meccanismo di rimozione istituzionale. Ma, in realtà, non si parla mai della noia prodotta dalla scuola proprio perché si sa bene come la disamina di questo problema rimetta in discussione non tanto questo o quell'aspetto del mondo scolastico, ma sia in grado di sollevare una questione d'ordine generale che investe l'intera realtà scolastica ab imis fundamentis. Se infatti le differenti scuole nei diversi paesi finiscono invariabilmente per produrre noia è evidente come questo “effetto” finisca per essere particolarmente connaturato con l'istituzione scolastica e la sua organizzazione. Conseguentemente occorre chiedersi se veramente la noia si debba necessariamente configurare come il prodotto primario e inevitabile della scuola. La scuola, di per sé, coincide con la noia e la perdita di tempo? Scuola e noia sono necessariamente sinonimi? Andare a scuola vuol veramente dire perdere il proprio tempo? La fuga popperiana dal mondo scolastico rappresenta veramente l'unica soluzione praticabile e consigliabile? Certamente Karl Raimund Popper ha fatto bene ad abbandonare la scuola per fuggire la noia e per combattere una prassi scolastica che finiva per non incrementare adeguatamente la sua voglia infinita di conoscere. Ma veramente si può proporre come soluzione sociale questa fuga generalizzata dalla scuola? Semmai, da un punto di vista più ampio e comprensivo, la scelta operata da Popper può invece rappresentare, per il suo stesso carattere davvero emblematico, connesso con l'eminente personalità intellettuale dell'epistemologo austriaco, un sintomo particolarmente interessante e singolare di un grave problema sociale che deve essere affrontato e risolto con altre strategie e con nuove riflessioni.

 

 

2. Lo iato tra scuola e società: non scholae sed vitae discimus

 

Il problema della noia invariabilmente prodotta dalla scuola costituisce infatti l'altra faccia di una medesima medaglia: quella in base alla quale la scuola, in genere, si presenta come del tutto scissa dalla vita e dagli interessi diretti dei discenti. In questa profonda scissione tra il mondo scolastico e il mondo della vita degli studenti si radica infatti l'humus specifico e più vero che alimenta continuamente la noia scolastica. Lo studente non segue con passione quelli che percepisce come i “riti” scolastici perché non li avverte come direttamente connessi e radicati con la sua vta, le sue tensioni, le sue pulsioni e i suoi problemi diretti od esistenziali. Si badi: paradossalmente, entro certi limiti, questo iato è invero del tutto fisiologico e francamente inevitabile per una scuola degna di questo nome. Non per nulla l'educazione, come indica anche il significato etimologico del termine, deve appunto aiutare il discente ad essere “educato”, vale a dire ad essere “e-dotto”, idest “tratto fuori”, condotto e guidato verso altre dimensioni e altri mondi non necessariamente coincidenti con quello della sua immediata prassi di vita, anzi tali da configurarsi come del tutto antitetici a quel mondo originario da cui proviene lo studente. Da questo specifico punto di vista la reale positività dell'azione educativa si radica proprio nella sua capacità di liberare il discente dalla schiavitù attinente il suo immediato mondo della prassi, onde inserirlo in altre dimensioni di vita e di riflessione da lui radicalmente ignorate e non percepite. Tuttavia, è anche vero che molto spesso questo scopo decisivo dell'educazione viene vanificato proprio nella misura in cui la prassi scolastica si illude che sia sufficiente presentare un mondo del tutto alieno da quello della vita concreta del discende, onde innestare un autentico processo educativo di crescita. Ma se manca il “sacro fuoco” in grado di accendere un reale ed autonomo percorso di crescita e di ascesa personale, il risultato conseguito è del tutto opposto: non si ha alcun processo di approfondimento ma si genera solo la noia e si spreca il tempo (individuale e sociale). In genere, si innesca quasi sempre un processo alienante e tediante, in virtù del quale quel mondo diverso viene vissuto come del tutto irreale e affatto privo di un suo nesso specifico -  nesso critico, dirompente e liberante - rispetto all'ordinario mondo della prassi dello studente. In questo caso l'insegnamento impartito dalla scuola non entra affatto nel ciclo vitale del discente e finisce così per contrapporsi, in modo sterile e fondamentalmente autoritario, con la vita dello studente. Il risultato, allora, è quella produzione generalizzata della noia e quella sistematica perdita di tempo che trasforma la scuola in una tortura disperata la cui espressione fenomenologica più emblematica è forse rappresentata dalla modalità con la quale gli studenti escono dalla scuola quando suona la campana che indica il termine delle lezioni. Naturalmente i pedagogisti e i vari esperti del mondo scolastico prestano un'attenzione pressoché nulla a questo banale aspetto della vita scolastica quotidiana. Eppure questa esperienza è sotto gli occhi di tutti, quotidie: perché gli studenti, quando è finita la loro giornata scolastica, fuggono letteralmente dalla scuola? Che cosa spinge i discenti ad abbandonare con tempestività e notevole solerzia quei luoghi e quegli spazi scolastici che evidentemente non abitano in modo del tutto piacevole e felicitante?

   Come eventuale controprova basterebbe anche osservare il momento dell'ingresso mattutino a scuola degli studenti. Un rilievo, del resto, che non può limitarsi ai soli discenti, perché un fenomeno non molto dissimile può anche essere colto nella concreta fenomenologia dell'ingresso o dell'uscita da scuola degli stessi docenti. A conferma ulteriore che la noia generalizzata prodotta dalle scuole costituisce un problema che se investe più direttamente e più pesantemente i discenti, non lascia tuttavia immuni dai suoi malefici effetti anche il corpo docente. Sia pur con la differenza, invero per nulla trascurabile, che questi ultimi dovrebbero perlomeno riflettere autonomamente e criticamente su questo problema, invece di subirlo passivamente, trasformandosi spesso nel miglior strumento che consente alla noia di dilagare nelle scuole. Per non parlare, infine, dei cosiddetti “dirigenti scolastici” e della molteplice pletora dei vari e diversificati “esperti” ministeriali molti dei quali, tuttavia, amano in genere parlare della scuola tenendosi però rigidamente lontani sia dalle aule scolastiche, sia dalla concreta prassi scolastica quotidiana, che così finiscono per conoscere solo “per sentito dire” oppure per la loro, sempre più datata e “lontana”, esperienza scolastica diretta di ex-studenti (sommariamente ed estrinsecamente rinnovata, a volte, dalla partecipazione con la quale seguono le vicende scolastiche dei propri diretti familiari). Né si compie poi un'affermazione nuova nel rilevare come spesso gli stessi insegnanti desiderano letteralmente fuggire, appena possono, dalla routine del lavoro in classe. Quel che è peggio è rilevare come alcuni di questi insegnanti che hanno abbandonato tempestivamente il quotidiano lavoro in classe (come anche qualche “dirigente scolastico” che ha ormai abbandonato la prassi scolastica quotidiana) si trasformino, poi, a volte, in retorici e insopportabili esaltatori dell'infinita bellezza del lavoro scolastico quotidiano, pretendendo poi di trasformarsi in improbabili “educatori degli educatori” ai quali si rivolgono lodando apertamente il quotidiano lavoro dell'insegnamento in classe, quello stesso che loro stessi hanno fuggito (e che ancora fuggirebbero) come la peste. Ma questa peste è tale perché, come si è accennato, è anch'esso gravato da una noia incredibile: produce noia ai discenti perché annoia gli stessi docenti. E produce noia ad entrambi perché la scuola è sempre più scissa dalla vita e dalla società del suo tempo. Ed è paradossalmente scissa dalla vita e dal mondo della prassi proprio perché è sempre più povera culturalmente e teoricamente[4].

 

 

3. Una modesta proposta per debellare la noia scolastica

 

Ma come combattere la noia prodotta dalla scuola? E come debellarla senza venir meno al compito educativo della scuola? Per rispondere a queste impegnative, ma decisive ed ineludibili domande, occorre chiedersi, in primis, se effettivamente quella scissione culturale che sempre esiste - e deve giustamente esistere - tra il mondo della prassi quotidiana del discente e il mondo della cultura (quella dimensione della «più che vita», per dirla con Simmel[5]) debba essere necessariamente affrontata tramite una prassi didattica alienante e distorcente tale da produrre noia sia nei discenti, sia nei docenti.

 

3. 1. Partire dai problemi, non dalle risposte

 

Una prima indicazione per invertire l'orizzonte della prassi didattica capace di produrre la noia infinita che regna nelle scuole è quello di non limitarsi più ad insegnare delle discipline o dei saperi acquisiti. L'insegnamento disciplinare risponde infatti ad un'esigenza prettamente burocratico-istituzionale. La cultura, invero, non conosce tanto delle discipline, ma solo dei problemi. Le discipline sono state spesso codificate per “incasellare” le diverse risposte che sono state avanzate per risolvere alcuni problemi. Ma se si inverte il rapporto esistente tra “risposte” e “problemi” originari si è allora in grado di scoprire una delle radici più profonde di una scuola in grado di annoiare sia i discenti, sia i docenti. Questa scuola che annoia fornisce infatti risposte già codificate e non richieste a domande inesistenti che si illudono peraltro di annullare definitivamente i problemi. Invece che partire dalle risposte già date a problemi non avvertiti dai discenti, la scuola dovrebbe invertire coraggiosamente il suo percorso didattico. Occorre insomma ribaltare i termini della questione, partendo da domande reali per fornire risposte plausibili a questioni sempre aperte. Del resto questo atteggiamento culturale non costituisce forse il “fondamento” più stabile di ogni autentico sapere? Quest'ultimo non si basa forse anche storicamente sulla capacità di rimetterlo continuamente in discussione? Già John Stuart Mill osservava come «le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate»[6]. La scuola deve pertanto incrementare questa attitudine critica, proprio perché «se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono». La capacità di incrementare il sapere critico richiede pertanto la piena consapevolezza che «la costante abitudine a correggere e completare la propria opinione confrontandola con le altrui non solo non causa dubbi ed esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento stabile di una corretta fiducia in essa». Bisogna pertanto partire dalle domande che gli stessi discenti avvertono come questioni aperte per educarli a meglio interrogarsi e a dubitare criticamente e sistematicamente delle risposte cui si riferiscono nel loro stesso mondo della prassi quotidiana. L'insegnamento scolastico dovrebbe pertanto partire da alcuni problemi aperti per far ripercorrere allo studente lo sforzo con cui le migliori intelligenze dell'umanità hanno cercato di individuare alcune possibili soluzioni.

 

 

3. 2. Praticare un insegnamento dinamico dei problemi

 

Ma, in secondo luogo, per compiere questo ribaltamento critico la scuola non può non porsi il problema del ruolo di un insegnamento dinamico all'interno della sua stessa organizzazione disciplinare ed istituzionale. Più in generale una scuola seriamente intenzionata a partire dai problemi aperti che hanno generato le differenti “discipline” non può non interrogarsi seriamente sul ruolo che deve essere attribuito alla storia del pensiero - e, più in generale, alla storia della scienza - per studiare i differenti problemi. L'approccio storico-critico consente infatti di rendere molto più comprensibile non solo il particolare problema affrontato, ma anche le differenti soluzioni prospettate onde cercare di risolvere la questione in discussione. Chiunque abbia anche un minimo di esperienza della prassi didattica sa bene come l'attenzione dei discenti aumenti enormemente non appena da una presentazione astratta e del tutto statica di un problema, si passi alla sua presentazione dinamica e storica, capace di ricostruire i termini esatti nei quali quel particolare problema si è definito all'interno delle differenti culture storiche. L'approccio storico ha infatti il pregio di porre il discente nella migliore condizione per meglio intendere non solo la genesi della questione considerata, ma anche la delineazione delle differenti soluzioni che sono state via via proposte. Questo spostamento di accento dalle discipline ai problemi e questa apertura coraggiosa ad un approccio storico-critico allo studio delle differenti questioni permette immediatamente di “umanizzare” profondamente i vari saperi, consentendo allo studente di riappropriarsi criticamente del senso e del significato preciso che può e deve essere attribuito a quanto sta studiando.

 

 

3.3. Non eludere mai il problema del significato culturale di quanto si insegna

 

  D'altra parte questo approccio dinamico allo studio ha inoltre il pregio di far emergere nel contesto della lezione un aspetto che molto spesso è del tutto negletto, quando non è addirittura negato e conculcato. Intendo riferirmi al significato di quanto si studia. Rispondere alle molteplici domande concernenti il significato di quanto è insegnato e di quanto deve essere studiato consente infatti di affrontare un problema che si radica al cuore non solo di un'autentica prassi educativa in grado di formare compiutamente i discenti, ma anche della stessa ricerca posta in essere dall'uomo nelle differenti fasi della sua riflessione. Solo chiarendo il significato di ciò che è insegnato e di ciò che deve essere studiato si consente al discente di comprendere, nel miglior modo possibile, il valore, il limite e l'importanza di quanto è preso in diretta considerazione dall'insegnamento scolastico. In caso contrario, se non si affronta con precisione il problema del significato di quanto deve essere studiato, si vanificano le premesse più valide per incrementare un autonomo sapere critico da parte del discente. In assenza di un chiarimento del significato di quanto insegnato lo studio non può che trasformarsi in un apprendimento mnemonico, del tutto ininfluente sulla vita e la cultura del discente. In questo senso specifico la scuola si trasforma in una realtà sempre più separata dal mondo della prassi del discente, configurandosi, paradossalmente, come una dimensione priva di significato che può essere studiata e appresa solo dogmaticamente, per via prevalentemente mnemonica. Quanto spesso si sente dichiarare da alcuni studenti che il significato di quanto studiano sfugge loro? E allora lo studente, privato di un'autentica comprensione critica di quanto sta affrontando, si riduce necessariamente a studiare un determinato argomento in un modo affatto peculiare e culturalmente deleterio. Infatti in questo caso lo studente, pur dichiarando apertamente di non comprendere bene quanto sta studiando, si trincera poi nel più chiuso dogmatismo, dicendo che comunque occorre studiare quel dato argomento in quel particolare modo specifico perché così è richiesto dal docente. Questo atteggiamento dogmatico e del tutto anti-culturale si traduce poi nel consueto consiglio che gli studenti si scambiano tra di loro onde garantirsi un esito scolastico positivo: «tu di in questo modo perché è questo che il prof. desidera sentire». In tal modo non si incrementa alcuno spirito critico, ma l'insegnamento si trasforma, al contrario, nel perenne rinnovamento di un dogmatismo acritico e acefalo in cui alla comprensione dei differenti problemi affrontati dallo spirito umano nel corso della sua storia, si sostituisce il modello dogmatico dell'ipse dixit, mediante il quale l'insegnamento scolastico si trasforma nella più radicale negazione della cultura e del sapere, creando le più vere premesse per la costruzione di un luogo in cui la noia trionfa sovranamente.

 

 

3. 4. Dal mondo della prassi alla koiné: la scuola quale dinamico laboratorio seminariale interdisciplinare

 

In quarto luogo, onde combattere alla radice il male della noia, occorre invertire il tradizionale approccio in base al quale la scuola affronta i differenti saperi disciplinari. Non basta infatti prendere le mosse dai problemi aperti affrontati dall'umanità nel corso della sua evoluzione, né è sufficiente incrementare uno studio storico-critico dei problemi, diffondendo uno studio dinamico, capace di chiarire il preciso significato delle questioni affrontate. Queste interessanti e invero decisive mosse didattiche possono infatti produrre i migliori frutti educativi se l'insegnamento medio ha anche la virtù di saper agganciare il proprio oggetto di studio al mondo della vita e della riflessione degli studenti. Questo obiettivo è certamente difficile e ambizioso, perché bisogna essere in grado di conseguirlo senza perdere peraltro di vista il compito autenticamente “educativo” dell'insegnamento scolastico, quello in virtù del quale si forma appunto il discente, ponendolo in condizione di staccarsi criticamente dal quel mondo consuetudinario nel quale si è formato e pur sempre vive. Anzi, a ben considerare il problema in tutta la sua radicalità, proprio questa quarta dimensione costituisce l'aspetto veramente decisivo e strategicamente costitutivo dell'insegnamento scolastico: come e-ducare un giovane consentendogli di penetrare criticamente nel mondo della cultura?

Per risolvere questo non facile problema può essere interessante prendere le mosse dagli stessi problemi che il discente avverte nella sua concreta vita quotidiana, onde poi fargli percepire tutto il significato e il valore che può essere attribuito alle diverse e conflittuali risposte che, a quegli stessi problemi, fornisce, in tutta la sua articolazione, il mondo della cultura umana. Si tratta certamente di un'operazione assai ardua in cui si manifesta tutta la maestria del docente. Quest'ultimo deve infatti evitare due scogli che rischiano di far naufragare miseramente il suo progetto didattico-educativo: quello di impantanarsi in quello stesso mondo della prassi che già egemonizza e domina la vita quotidiana dello studente e quello, opposto ma speculare, di infrangersi contro una dimensione culturale aulica e feconda che, tuttavia, non è in grado di parlare al discente immerso e quasi soffocato dalla sua concreta ed effettiva dimensione della vita quotidiana, dalla quale, tuttavia, deve comunque trarre quell'energia vitale con cui animare il suo stesso studio. Nel superare criticamente questo duplice e non facile ostacolo si dipana l'efficacia della lezione educativa posta in essere dal mondo scolastico che deve essere in grado di ricollegarsi direttamente ai problemi connessi con la vita dello studente per approfondirli e superarli criticamente, dando infine la possibilità al discente di recuperarli e di trasvalutarli su un piano culturale decisamente superiore e diverso, più ampio e comprensivo, ma tale anche da consentirgli di tornare poi a quella stessa dimensione del mondo della prassi con nuova e rinnovata forza. Ma l'operazione è delicata soprattutto nella misura in cui la conquista di una superiore consapevolezza critica deve essere conseguita senza tuttavia perdere la forza vitale e la concretezza che pure è intimamente connessa con il mondo della prassi entro il quale lo studente svolge quotidianamente la sua vita.

 

 

3.5 L'insegnamento e il ruolo dell'eros

 

  Un tramite importante, ed invero decisivo, per superare questo iato può essere individuato nella stessa funzione svolta dal docente. Infatti, come già ha rilevato Platone, la componente più importante, per qualunque insegnamento, si radica nell'opera posta in essere dal docente e, in particolare, dal rapporto erotico che il docente sa instaurare con l'oggetto del suo intervento educativo[7]. Anche questa peculiare dimensione erotica dell'insegnamento è sistematicamente rimossa e conculcata dalle tradizionali trattazioni concernenti il mondo della scuola. Eppure questo aspetto costituisce invece oggetto di senso comune per chiunque abbia mai insegnato in una classe: qualunque studente, anche quello più disattento e svogliato, percepisce infatti, immediatamente, se il docente ama oppure non ama quanto sta insegnando. L'amore sincero che il docente prova nei confronti di quanto insegna possiede una virtù potente e aggiuntiva perché è immediatamente in grado di contagiare attivamente l'orizzonte degli stessi discenti. E contagia significativamente questo orizzonte perché la dimensione erotica presenta molteplici aspetti che coinvolgono lo studente nel suo rapporto diretto con il docente e con quanto viene insegnato. Il rapporto d'amore e di sincero e profondo interessamento provato da un docente per l'oggetto del proprio insegnamento si trasforma così in un volano educativo di primaria importanza, mediante il quale lo studio di un argomento, di un problema o di una determinata situazione si trasforma in un'occasione di confronto tra persone e di comune crescita, entro il quale il docente viene percepito come una guida critica che aiuta il discente ad approfondire un tema o un problema che, in realtà, giace al cuore della loro stessa esistenza. Docente e discente sono così sovrastati e quasi superati da una comune dimensione - quella culturale della meta-riflessione - che richiede ad entrambi di trasformarsi in viator, in studenti, appunto, perché lo studio coincide con al ricerca e la volontà di approfondire continuamente la conoscenza. In questa precisa prospettiva si attua allora il “miracolo” dell'educazione che deve appunto essere in grado di accendere un fuoco critico nel rapporto tra le differenti generazioni (non solo tra quella del docente e i suoi studenti diretti, ma anche in quello che connette, più in generale, gli studenti a tutte le precedenti generazioni umane che hanno affrontato e dibattuto molteplici problemi). Questo “fuoco critico”  costituisce l'autentico punto archimedeo dell'educazione mediante il quale lo studio si trasforma da mera acquisizione acritica e passiva - producente quella noia da cui abbiamo preso le mosse - in un cammino personale di dialogo e di confronto, entro il quale il discente è posto nella migliore condizione per comprendere sia il significato dei differenti problemi, sia il carattere specifico della sua stessa esistenza che si è configurata all'interno di una determinata società storica. Solo se si vince questa sfida - che costituisce, in ultima analisi, una sfida autenticamente culturale - è legittimo sperare che la scuola possa infine sconfiggere la noia per ritornare ad essere quel luogo di crescita personale in virtù del quale ciascun individuo è posto nella condizione di poter conquistare una sua autonomia critica specifica per affrontare poi il mondo contemporaneo, vasto e terribile. Sempre in questa ottica si devono poi inserire anche tutte quelle tecniche didattiche - come quelle favorevoli ad una scuola attiva o ad una scuola-laboratorio, per mezzo delle quali il discente è sempre più direttamente coinvolto in modo personale ed autonomo alla costruzione del suo stesso processo di auto-liberazione critica e di auto-formazione personale. Ma anche in questi casi, tutte queste pur feconde ed interessanti tecniche didattiche - che nel mondo contemporaneo devono essere ripensate anche per mettere in grado la scuola di interagire liberamente con tutti quegli strumenti tecnologici (computer, chat, internet, sms, videoclip, cd-rom, fumetti etc. etc.) che gli studenti prediligono - possono esplicare una loro effettiva funzione educativa solo se vengono ricondotti entro quell'articolato orizzonte problematico che si è precedentemente richiamato.

 

 

4. Insegnare a filosofare

 

Nel quadro generale attinente la scuola, delineato nel precedente paragrafo, come inserire l'insegnamento della filosofia? Se si risponde a questa domanda prendendo le mosse dalla concreta ed effettiva prassi didattica posta in atto nella scuola italiana, di primo acchito non si può che rimanere assai stupiti nel dover constatare come, nel corso dei differenti e molteplici decenni (che ormai concernono anche più di un secolo), l'insegnamento della filosofia abbia conseguito, complessivamente, un risultato alquanto singolare e veramente paradossale: quello di aver sistematicamente messo fuori gioco e variamente ostacolato, quando non ha addirittura soffocato sul nascere, la capacità di pensare filosoficamente da parte dei discenti. In altri termini si può rilevare come in Italia l'insegnamento della filosofia abbia variamente conseguito, pur nelle diverse e contrastanti temperie storiche vissute dalla nostra scuola e pur con delle nobili eccezioni che non vanno trascurate, questo risultato complessivo assai curioso, ma alquanto deludente: di aver variamente ostacolato nei discenti la nascita di un'autentica capacità critica ed autonoma di saper pensare filosoficamente al proprio mondo, alla propria vita e, più in generale, a tutte le svariate e contrastanti possibilità che si configuravano nel loro orizzonte futuro.

   Perché mai l'insegnamento della filosofia ha conseguito un risultato filosoficamente così devastante e negativo? In ultima analisi perché le varie e pur conflittuali generazioni di docenti di filosofia hanno invariabilmente cercato, appunto, di insegnare la “filosofia”, come se quest'ultima costituisse una materia come tutte le altre discipline. Per la verità si è già accennato al fatto, assai rilevante, come anche tutte le altre “discipline” non-filosofiche dovrebbero essere invero sempre insegnate partendo non tanto dalle varie risposte codificatesi e stratificatesi nel corso storico della ricerca umana, bensì prendendo le mosse soprattutto dai problemi aperti cui si è variamente cercato di rispondere positivamente nel corso della storia del pensiero umano. Ma tant'è, questo atteggiamento aperto, critico e problematico è stato sistematicamente rimosso non solo nei confronti di tutte le materie, ma anche nei confronti di una disciplina molto più “anfibia” e problematica come la stessa filosofia. Se la pratica ormai millenaria della riflessione filosofica insegna costantemente come la filosofia sia forse la sola disciplina a essere costantemente problema a se stessa, ebbene sembra proprio che questo decisivo aspetto della ricerca filosofica sia stato invece sistematicamente rimosso dalle differenti generazioni di docenti di filosofia. Né vale rilevare come questi ultimi siano stati, appunto, per lo più, non tanto “filosofi” di professione, quanto “docenti di filosofia”, perché, semmai, si dovrebbe invece rilevare come quell'opera di sistematica “ipostatizzazione” reificante cui la scuola sottopone, in modo pressoché invariabile, le diverse discipline e i più vari problemi, abbia finito per esercitare una sua specifica tirannia culturale anche nei confronti di una “materia” assai problematica, critica, fluida, tipicamente mercuriale e difficilmente inquadrabile in una sola ed esaustiva formula o definizione come la stessa filosofia.

  Questa pressoché sistematica reificazione della filosofia è stata operata proprio nei confronti di una disciplina che, per suo intrinseco statuto epistemico, sembra rifiutare nettamente ogni procusteo letto di contenzione concettuale. In questo caso, però, il problema dello statuto della disciplina è stato fatto immediatamente slittare in quello dei differenti e contrastanti contenuti di pensiero elaborati da questo o quel pensatore storico, col risultato di incrementare - a livello civile diffuso (sia pur con riferimento esclusivo ai discenti “elitari” della scuole secondarie superiori liceali o ex-magistrali) - la tradizionale, per quanto assai fuorviante, immagine ciceroniana della filosofia quale prodotto di menti più o meno alterate, alienate o pazze. In ogni caso, salvo rare eccezioni, dovute, per lo più, alla presenza illuminata di questo o quello specifico e particolare docente di filosofia, il quadro storico-istituzionale complessivo concernente l'insegnamento di questa disciplina non può che configurarsi, complessivamente, come alquanto problematico[8].

   Precedentemente alla riforma gentiliana l'insegnamento filosofico si svolgeva secondo la classica, e assai tradizionale, scansione di Logica, Metafisica ed Etica, entro la quale, inevitabilmente, una particolare impostazione teorica finiva naturalmente per imporsi come chiave di volta esaustiva dell'insegnamento filosofico secondario. Anche in questo caso a spese dirette, in ultima analisi, della stessa problematicità filosofica, vanificando, complessivamente, l'obiettivo di insegnare a filosofare ai discenti. Né, da questo punto di vista, strettamente filosofico, le cose cambiarono poi molto con la riforma gentiliana la quale riuscì certamente ad introdurre un più serio e approfondito studio storico del pensiero filosofico, ma non poteva, né voleva, impedire la manifestazione didattica di una particolare inclinazione teorica da parte del docente, né, tantomeno, riusciva mai a porsi, programmaticamente, la questione dell'insegnabilità del filosofare. In ogni caso la riforma gentiliana, puntando più decisamente sullo studio della storia del pensiero filosofico, aveva comunque messo in evidenza primaria l'esigenza di uno disamina diretto dei testi dei filosofi, il che avrebbe certamente favorito un insegnamento più critico della stessa riflessione filosofica. Ma, anche in questo caso, la concreta prassi didattica seguita, a partire dagli anni Venti fino ad oggi, dai docenti di filosofia ha infine avuto ragione degli stessi intenti filosofici della riforma gentiliana. Gentile intendeva infatti promuovere una lettura diretta dei classici del pensiero, vale a dire di quei testi in cui il filosofato si manifesta più manifestamente alla mente e all'intelligenza del discente, favorendo così un fecondo contatto tra il giovane lettore e il classico (il quale ultimo è tale proprio perché possiede l'invidiabile capacità critica e teorica di parlare creativamente a più e diverse generazioni). Di contro, la prassi scolastica finì, invece, progressivamente, per rimuovere completamente la lettura diretta del testo filosofico, che venne sempre più sostituita da un'esposizione storico-manualistica della storia della filosofia. Col risultato, inevitabile, che allora il testo di riferimento primario, per molte generazioni di studenti, non fu più la pagina del classico di filosofia, ma fu, invece, la riesposizione manualistica ed estrinseca dei differenti “sistemi filosofici”, così come si trovava definita sulle pagine di questo o quel manuale scolastico. Si studiava così la filosofia abbandonandosi, per lo più, ad una mera carrellata storica dei differenti sistemi filosofici, impedendo un serio contatto diretto e fecondo tra il discente e i testi classici dei vari pensatori. Con il risultato, altrettanto inevitabile, che la filosofia veniva spesso associata, nella mente degli studenti, ad una mera “filastrocca di opinioni”, più o meno strampalate e più o meno plausibili, il cui significato storico, culturale e concettuale finiva, sistematicamente, per sfuggire completamente al discente meno avvertito criticamente (vale a dire ai più). Studente il quale ultimo, anche se animato da serio interesse di studio, poteva comunque solo rifarsi alle varie “rimasticature” scolastiche del pensiero dei classici presenti nei differenti manuali di storia della filosofia. In tal modo la concreta prassi dell'insegnamento della filosofia aveva finito per aver ragione anche nei confronti della riforma scolastica voluta da un filosofo di indubbio spessore come Gentile, col risultato che solo a partire dagli anni Ottanta, con la progressiva utilizzazione dei programmi Brocca si è infine attuato un nuovo processo complessivo, grazie al quale si è progressivamente dilatata l'esigenza di porre i discenti a contatto diretto con i testi dei filosofi, secondo quanto era stato affermato all'inizio del secolo da Gentile. Tant'è: solo negli anni Ottanta la prassi scolastica quotidiana inizia infine a recepire lentamente questa esigenza, nel momento stesso in cui anche la natura e il taglio dei manuali scolastici di filosofia inizia a modificarsi profondamente. Durante tutti i decenni precedenti i manuali di filosofia per le scuole erano stati scritti e predisposti, per lo più, dai docenti universitari. A partire dagli anni Ottanta e Novanta finiscono invece per imporsi alcuni manuali scritti direttamente dai docenti liceali e non è forse un caso come proprio in questi manuali si inizi a dar spazio sempre più maggiore alla lettura diretta dei testi dei filosofi, col risultato, abbastanza paradossale, che in pochi anni questi manuali si trasformano in vere e proprie “bibbie” e “messali” di mole più o meno vasta, con un incremento della propria voluminosità che risulta essere, singolarmente, in proporzione direttamente inversa all'involuzione complessiva che la scuola italiana inizia sempre più a vivere proprio negli ultimi decenni del XX secolo.

  Nel quadro di questo cenno forzatamente sintetico non può comunque essere infine dimenticato come il forzato e del tutto arbitrario abbinamento dell'insegnamento della filosofia con quello della storia - voluto e consapevolmente perpetrato da Gentile in profonda sintonia con l'insegnamento filosofico e teorico del neoidealismo italiano d'inizio secolo - abbia generato, per suo conto, molteplici altri problemi, di non minore gravità culturale e didattica. Il principale dei quali può essere individuato nell'idea neohegeliana di abbinare strettamente l'insegnamento della filosofia alle sole discipline umanistiche, dimenticando come il profondo e storico nesso della riflessione filosofica col pensiero scientifico (e con i problemi della conoscenza) aveva invece rappresentato costantemente un indubbio punto di forza della pratica teorica di pressoché tutta la filosofia occidentale. Ma tant'é: anche questa arbitraria e impoverente scissione, del tutto anticulturale, tra scienza e filosofia contribuì non poco a diffondere la consolidata abitudine a non-filosofare (riducendo spesso l'insegnamento della filosofia ad un mero esercizio di memoria), trasformando, al contempo, anche le stesse conoscenze scientifiche in autentici dogmi, rispetto ai quali non sarebbe stato possibile operare né alcuna particolare interrogazione critica, né alcuna indagine finalizzata a chiarirne il significato culturale.

Proprio entro questo inquietante quadro specifico, che si è qui sinteticamente richiamato, l'insegnamento finalizzato ad abituare i discenti a filosofare è stato così posto, sistematicamente, in non cale e la filosofia, diventata una disciplina come tutte le altre, è stata spesso insegnata svuotandola di ogni autentico significato culturale, riducendola, appunto, ad una filastrocca di opinioni, prive di senso e di ogni effettivo contenuto culturale. Donde la diffusa affermazione della “difficoltà” e dell'“inutilità” della filosofia - spesso denunciata dagli ex-studenti che, anche a distanza di anni dai loro studi secondari, dichiarano ancora di non aver mai ben compreso la natura, il ruolo e la funzione culturale e teorica della filosofia. Non per nulla intere generazioni di ex-studenti secondari confessano apertamente di aver spesso “superato” l'insegnamento della filosofia essendosi limitati a studiare mnemonicamente quanto non riuscivano neppure a comprendere, limitandosi così a ripetere, pappagallescamente, quanto richiesto da un docente che spesso non si rendeva neppure conto di uccidere sistematicamente la propria “disciplina”[9]. Questo esito complessivo, alquanto fallimentare, appare tanto più clamoroso e paradossale soprattutto  se si pensa che non sono certamente le pur valide e innegabili eccezioni a questo quadro a modificarne il complessivo valore negativo, sia a livello culturale, sia a livello sociale. Ma, in ogni caso, l'esito è comunque tanto più singolare e veramente bizzarro soprattutto se si pensa che il nostro paese presenta, comunque, un insegnamento medio della filosofia che risulta essere tra i più significativi rispetto a quelli  ancor oggi previsti, in media, negli altri paesi occidentali.

Ma tale esito negativo risulta ancor più peculiare anche se si tiene presente come nella riflessione di alcuni tra i più eminenti filosofi della tradizione occidentale non erano peraltro mancate delle puntuali e assai pertinenti indicazioni finalizzate a ben chiarire come l'insegnamento della filosofia non potesse mai configurarsi che come un serio avviamento alla capacità di filosofare. In particolare, come è ben noto, Immanuel Kant, in una delle sue opere principali, la celebre Critica della ragione pura, aveva insistito nel mettere in tutta evidenza come

 

«il sistema di ogni conoscenza filosofica, orbene, si dice f i l o s o f i a. E' necessario considerarla oggettivamente, se per filosofia si vuole intendere quel modello per valutare tutti i tentativi di filosofare, che debba servire per giudicare ogni filosofia soggettiva, la cui costruzione è spesso così varia e mutevole. A questo modo, la filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, mai data in concreto, alla quale tuttavia cerchiamo di avvicinarci per molte strade, sintanto che non venga scoperto l'unico sentiero, quasi cancellato dalla sensibilità, e sintanto che non ci riesca, per quanto è concesso agli uomini, di rendere la copia - sinora difettosa - uguale al modello. Sino a quel momento, non potremo imparare alcuna filosofia: in effetti, dov'è essa, chi mai la possiede, e da che cosa si può riconoscere? Si può soltanto imparare a filosofare, ossia si può soltanto esercitare il talento della ragione, applicando i suoi principî universali a certi esperimenti dati, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di indagare quei principî seguendoli sino alle loro fonti, per confermali o rifiutarli»[10].

 

Alla luce di queste precise (e preziose) indicazioni kantiane l'insegnamento della filosofia si dovrebbe conseguentemente configurare come l'educazione costante all'uso del talento critico della ragione. Per questo motivo non si può mai insegnare la filosofia (disciplina che nella sua dimensione “oggettiva”, appunto quale sapere filosofico dato e codificato una volta per tutte, non esiste neppure, né può mai esistere in tale forma, che, tra l'altro, finirebbe per tradire e conculcare la sua stessa natura epistemica più profonda), ma si può e si deve invece insegnare a filosofare, abituando cioè il discente a sviluppare il suo proprio talento critico della ragione, ponendolo in grado, infine, di riflettere criticamente, liberamente ed autonomamente sui più diversi problemi rispetto ai quali vuole poi esercitare la sua autonoma riflessione critica. Ma proprio questo obiettivo, come si è visto, è stato sistematicamente rimosso e mancato dal pluridecennale insegnamento della filosofia nelle scuole italiane. Pertanto se si decide di far proprio il programma culturale lumeggiato da Kant occorre essere ben consapevoli dell'autentico ribaltamento copernicano che si finirà per attuare nell'ambito della trasmissione secondaria della filosofia. In questa prospettiva, infatti, l'insegnamento della filosofia si trasformerà in un progetto finalizzato ad educare il discente all'uso critico dei suoi talenti razionali. Si potrà così rimuovere e distruggere ogni trasmissione meramente mnemonica della filosofia per comunicare, formare ed educare, invece, il gusto per una riflessione filosofica libera e critica, mediante la quale il discente sia infine messo, sempre più, in condizione di filosofare, cioè di riflettere liberamenbte sulle questioni che lo appassionano e gli interessano.

  Ma, si potrebbe allora obiettare, questa impostazione mira forse a trasformare necessariamente tutti i dicenti in “mini-filosofi”? Si e no! No, decisamente no, se si pensa ingenuamente di voler necessariamente trasformare uno studente in un filosofo nel senso pieno e compiuto del termine, vale a dire in un pensatore che consacra la sua intera esistenza allo studio filosofico. Solo un folle potrebbe perseguire tale improbabile disegno sociale.  Si, invece, se si immagina di trasformare lo studente - come del resto dovrebbe accadere per ogni cittadino di una repubblica democratica degna di questo nome - in un “giovane pensatore”, vale a dire in un giovane cittadino che non vuole mai rinunciare ad esercitare i talenti della sua propria ragione su gli argomenti più diversi e disparati. In questo caso l'insegnamento della filosofia dovrebbe allora porsi coerentemente l'obiettivo civile e culturale di favorire la formazione, all'interno delle singole classi, di “giovani pensatori”, vale a dire di giovani capaci di riflettere criticamente non solo su quanto studiano a scuola, ma su tutto quanto concerne la loro esistenza[11].

   Non può sfuggire come proprio la formazione e l'educazione di questi “giovani pensatori” contribuisca non solo a formare cittadini consapevoli di una repubblica democratica veramente degna di questo nome, ma aiuti immediatamente a colmare quel grave iato tra scuola e società che precedentemente si è denunciato come uno dei mali più gravi della scuola contemporanea, tale da ingenerare, invariabilmente, una grave perdita di tempo e una noia mortale tra i discenti delle varie scuole. L'esercizio dei talenti della propria ragione deve infatti indurre a reimpostare lo stesso studio del pensiero filosofico, ribaltando i tradizionali e logori termini di riferimento. Se in genere la considerazione storica del pensiero filosofico ha finito per incrementare uno studio passivo e spesso mnemonico delle riflessioni dei vari filosofi del passato, al contrario uno studio incentrato sull'incremento dell'uso dei talenti della ragione dei discenti non può invece che ribaltare questo rapporto, inducendo il giovane studente (e lo stesso docente) ad interrogare i testi filosofici del passato per indagare le concrete modalità concettuali con le quali i diversi pensatori, nel loro tempo storico, hanno variamente affrontato ed eventualmente risolto alcuni problemi decisivi dell'esistenza umana o del patrimonio conoscitivo del loro tempo. In questa nuova chiave critica il pensiero del filosofo viene allora studiato e considerato criticamente come un tentativo eminente per riformulare un determinato problema. Non solo: nella voce del filosofo - nel suo filosofato, vale a dire nel suo testo - si cercherà così un valido e fecondo interlocutore per la propria autonoma riflessione critica. Socrate, Platone, Aristotele, Democrito, Tommaso, Scoto Eriugena, Nicola d'Autrecourt, Galileo, Descartes, Leibniz, Hobbes, Spinoza, Newton etc. etc., per non fare che pochissimi ma eminenti nomi, saranno insomma studiati ed indagati per confrontarsi criticamente con il loro modo di ragionare, per considerare più direttamente la loro riflessione e il loro stesso mondo concettuale, onde ricavare indicazioni, spunti, problemi, suggerimenti e interrogativi per meglio sviluppare una nuova, autonoma e critica riflessione filosofica. In tal modo l'educazione all'uso dei talenti della propria ragione permetterà di diffondere un nuovo gusto al filosofare che non vuol tanto mirare alla formazione di tanti piccoli filosofi in erba, ma vuole invece restituire a tutti i giovani cittadini il gusto di ragionare con la loro testa sui loro problemi, evadendo dalla dogmatica tirannia del senso comune, della tradizione e da tutte quelle altre forme diversificate di alienazione mentale (più o meno delinquenziali) con le quali la nostra società soffoca sistematicamente ogni pensiero critico indipendente, per diffondere un'omologazione reificante di massa che incrementa solo l'indifferentismo dei più, nonché la loro eteronomia sociale.

   In questa prospettiva il kantiano (ed oraziano!) sapere aude non può non trasformarsi nel motto di questo insegnamento critico della filosofia il quale non può che contrastare tutte le pur differenti posizioni pregiudizialmente dogmatiche, per incrementare, al contrario, la diffusione di un diverso abito critico, in virtù del quale il giovane è costantemente educato ad usare i talenti della propria ragione per riflettere criticamente su qualunque problema, onde trasformarsi in autonomo “condottiero” della sua propria esistenza[12]. Se Kant definiva, con formula più che felice, l'illuminismo come l'autoliberazione dell'uomo dalla stato di minorità intellettuale volontaria, l'insegnamento critico della filosofica non può non coincidere con questo invito permanente a ragionare criticamente, in modo libero ed autonomo. Già Kant ai suoi tempi lamentava come il militare non volesse incrementare l'uso critico della ragione presso i suoi soldati, perché reclamava, al contrario, ubbidienza cieca e pronta ai suoi ordini; analogamente l'uomo di chiesa combatteva anche lui apertamente la ragione critica, appellandosi all'autorità della fede religiosa, condividendo, in tal modo, un atteggiamento del tutto analogo a quello auspicato dal funzionario delle finanze il quale desidera soprattutto che il cittadino paghi tempestivamente le tasse, senza mai ragionare su ciò che deve pagare[13]. Contro questi tre modelli dogmatici ed autoritari, che reclamano, invariabilmente, ubbidienza ed eteronomia, Kant invita ed auspica, per dirla con Foucault, l'«indocilità ragionata» o la «disubbidienza motivata», mediante la quale il cittadino, autonomo e responsabile, è invitato ad esercitare costantemente i talenti della sua propria autonoma ragione critica, perché solo ragionando con la propria testa una persona può conseguire un'autonomia critica degna della sua stessa libera soggettività. In che cosa consiste infatti la criticità che esercitiamo e tuteliamo tramite l'applicazione dei talenti della nostra ragione? Ancora una volta con Foucault possiamo affermare che la critica coincide, in ultima istanza, con la capacità e l'arte di «non essere eccessivamente governati»[14]. I tutori dell'ordine, dello stato e della religione vorrebbero invariabilmente guidarci con le sicure dande dei loro ordini e delle loro decisioni, mentre solo l'uso critico dei talenti della nostra ragione ci consente di camminare, liberi ed eretti, entro un mondo complesso nel quale la tradizionale voglia di comandare e controllare contraddistingue, invariabilmente e sempre negativamente, i diversi “tutori” storici dell'umanità. Esattamente contro questi dispotici tutori del nostro bene e della nostra felicità il sapere aude kantiano suona come il motto di un atteggiamento critico che reclama la diffusione di un nuovo atteggiamento civile e culturale, in grado di tutelare la nostra libertà e la nostra libera realizzazione vitale.

 

 

4. La scuola come laboratorio seminariale e l'insegnamento della filosofia con metodo erotematico-dialogico

 

Affrontando il complesso problema dei differenti metodi nel quadro dell'incremento della perfezione della conoscenza, da conseguirsi attraverso la divisione logica dei concetti, Kant, nella sua Logica, ha precisato come

 

«un metodo è acroamatico quando qualcuno insegna solamente, erotematico quando interroga anche. Il secondo può venir diviso a sua volta in dialogico o socratico e in catechetico a secondo che le domande siano rivolte all'intelletto oppure soltanto alla memoria»[15].

 

Quale metodo è dunque meglio seguire per insegnare a filosofare?

Per rispondere a questa domanda non si può naturalmente prescindere da una considerazione più ampia ed articolata, concernente, più direttamente, il tipo di scuola nella quale si vuole operare. Se si condivide l'orizzonte problematico brevemente accennato nel precedente § 4 è allora difficile negare come la scuola che si dovrebbe auspicare e costruire dovrebbe assumere l'aspetto, in primo luogo, di un autentico laboratorio seminariale interdisciplinare, intendendo il lavoro da svolgersi a contatto diretto con i discenti come una sorta di seminario aperto, in cui l'insegnamento acroamatico, per dirla con Kant, deve progressivamente lasciare il posto e integrarsi in modo sempre più sistematico e diffuso con un insegnamento erotematico, in grado di suscitare un dialogo effettivo tra docente e discente, prendendo le mosse dal problema in discussione. Ma come poi organizzare concretamente tale indirizzo di insegnamento? Naturalmente non esiste affatto alcuna “via regia” per porre in essere questo orizzonte didattico-educativo, tuttavia alcuni punti di riferimento  possono essere accennati. Se infatti si condivide l'obiettivo - ad un tempo culturale e civile - di trasformare innovativamente l'insegnamento della filosofia in un'occasione per far uso critico dei propri talenti occorre allora riagganciare direttamente gli oggetti di riflessione proposti dalla scuola con i problemi connessi direttamente con la vita della società e degli stessi discenti. Si badi: questa connessione diretta non deve affatto mirare ad appiattire la scuola sul piano del mondo della prassi. Tale opzione finirebbe infatti per vanificare e distruggere l'azione stessa della scuola la quale non può mai rinunciare alla propria vocazione autenticamente educativa, mediante la quale deve appunto saper interagire criticamente con la vita quotidiana dello studente onde formarlo come cittadino autonomo. Per questa ragione di fondo occorre elaborare una diversa strategia culturale ed educativa, in virtù della quale l'energia tipica del mondo della prassi, ampiamente presente nella vita quotidiana del discente, venga opportunamente incanalata nell'ambito di un autonomo e libero processo di crescita, culturale ed umana, tale da porre infine in grado il discente di muoversi liberamente e, appunto, criticamente - secondo le differenti opzioni axiologiche e civili che riterrà più consone alle sue attitudini, alle sue scelte e alle sue stesse inclinazioni. Per compiere questo aggancio critico tra la dimensione dello studio patrocinata dalla scuola e il mondo della società non è però necessario voltare sdegnosamente le spalle ai problemi che nascono nel concreto mondo della prassi. Al contrario, lo studio può invece diventare un'occasione per approfondire criticamente proprio quegli stessi problemi, trovando stimoli, preziose indicazioni e molti altri spunti di riflessione strategicamente decisivi nella ricerca filosofica posta in essere dai classici del pensiero.

   In tal modo si può avviare una riflessione che parta dai contributi dei classici del pensiero per studiare collegialmente - attraverso una comune ed intelligente lettura critica dei testi dei filosofi - alcuni problemi di fondo che pure inquietano e travagliano l'esistenza quotidiana dei giovani studenti. Esattamente questa strada è stata del resto seguita nell'interessante esperimento dei “giovani pensatori” elaborato nel Salento, nell'anno scolastico 2003-04, dalla prof. ssa Ada Fiore del Liceo “Capece” di Maglie, la quale ha voluto affrontare con i suoi studenti quattro problemi emblematici e decisivi come quelli connessi alla chiarificazione di concetti come l'amore, la felicità, la morte e la libertà. Una volta individuati questi quattro temi, che sollecitavano un interesse diretto ed autonomo dei suoi studenti perché tali da coinvolgerli in prima persona nella loro stessa esistenza quotidiana, si è studiato il modo specifico con cui i filosofi dell'antichità - in questo caso in connessione diretta con i programmi da svolgersi in una prima classe del Liceo classico - hanno riflettuto, concepito, pensato ed eventualmente risolto questi temi. In tal modo si è immediatamente favorito, di primo acchito, un rapporto diretto con i testi dei filosofi dell'antichità, avendo inoltre per propria guida critica di fondo l'esigenza di approfondire un gruppo di problemi reali e vivi che non esistono unicamente nei testi dei pensatori dell'antichità, ma che si incontrano anche quotidianamente nell'esistenza di un giovane del nostro tempo.

   In questa specifica chiave lo studio non appare più come l'approfondimento di un argomento che non presenta più alcun riferimento fecondo al mondo del discente, ma costituisce, all'opposto, una preziosa occasione per riflettere, con maggior serietà e approfondimento sistematico, su un tema che coinvolge anche l'esistenza quotidiana dello studente. Meglio ancora: lo studio e l'approfondimento di questo rapporto tra il problema affrontato e le considerazioni dei classici finiscono per aprire una feconda spirale critica, un autentico “circolo ermeneutico” tra il discente e il testo classico preso in diretta considerazione. Una spirale critica che coinvolge non solo lo studente, ma anche lo stesso docente il quale, nel momento stesso in cui guida il discente alla migliore comprensione critica del testo del classico, non può tuttavia sottrarsi al problema indagato giacché amore, morte, libertà e felicità costituiscono comunque dei temi ben presenti anche nell'esistenza e nella riflessione quotidiana dello stesso docente, non solo del discente. Né basta: in questa spiralità critica docente e discente sono ulteriormente coinvolti in un comune dialogo, mediante il quale il classico non finisce mai di comunicare ai suoi interlocutori critici - siano essi docenti o discenti - i suoi suggerimenti e le sue risposte, secondo la sua più autentica natura di “classico” che è tale, secondo la felice definizione di Calvino, perché, appunto, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire»[16].

   Ma l'approccio erotematico dialogico permette anche di sviluppare un rapporto eminentemente attivo con i problemi indagati e i testi presi in considerazione. Proprio perché ciò che muove lo studio e la ricerca non è più la comprensione passiva - meramente mnemonica di una determinata risposta - ma è, invece, l'elaborazione personale di una riflessione che deve nascere dal confronto con il testo del classico, dal dialogo con il docente, nonché dalla comune discussione che si deve porre in essere tra gli stessi discenti. In tal modo l'utilizzazione del metodo erotematico-dialogico costituisce occasione preziosa per stimolare i discenti a pensare autonomamente al problema preso in diretta considerazione, avvalendosi, peraltro, delle differenti e contrastanti risposte che al medesimo problema possono essere sempre rintracciate nei diversi testi dei classici. Anche perché così operando si riesce a comunicare allo studente l'idea che la stessa cultura non nasce dalla mera ripetizione acritica di una determinata risposta o di un determinato punto di vista, perché, al contrario, la cultura e il sapere, nascono sempre dal dialogo, dal confronto e dalla discussione tra tesi diverse quando non anche apertamente e decisamente conflittuali. Anzi: la stessa ricerca culturale richiede costantemente l'integrazione critica tra punti di vista diversi e anche opposti, apertamente conflittuali: conseguentemente la libera dialettica che può eventualmente realizzarsi nella discussione scaturita entro la lezione seminariale non può che giovare all'insieme dei partecipanti, facendo loro meglio intendere i diversi aspetti delle questioni affrontate. In questa prospettiva didattico-educativa la conflittualità teorica non costituisce affatto un limite della comune ricerca ma aiuta, invece, ad incrementarla in modo significativo perché favorisce la percezione critica di nuovi aspetti, di nuovi problemi, di nuove prospettive e abitua così ad una vera e propria “ginnastica” mentale collettiva ed individuale, mediante la quale lo studente è sempre più invitato (ed educato) a lavorare concettualmente con i diversi pensieri che incontra, con i problemi che intende affrontare, rendendosi progressivamente conto di come anche le diverse prospettiva indagate criticamente lo aiutino infine a liberarsi da molteplici pregiudizi per restituirgli infine, in un discorso che resta sempre problematicamente aperto, tutta la complessità di una determinata questione. Né occorre aggiungere come una tale prassi critico-dialogica aiuti anche a formare uno stile democratico in grado di contagiare positivamente sia le scuole, sia la società.

   In questa chiave didattico-educativa lo studente dovrebbe insomma essere guidato dal docente ad incrementare costantemente i suoi problemi, proprio perché lo studio della filosofia dovrebbe appunto trasmettere il gusto perenne di voler sempre ampliare, piuttosto che restringere, il proprio orizzonte prospettico. Non per nulla sempre Kant ha sottolineato come

 

«il sapere storico senza limiti determinati è polistorìa; essa rende superbi. La polimatìa riguarda la conoscenza razionale. L'una e l'altra insieme, cioè il sapere storico e il sapere razionale estesi senza limiti determinati, possono chiamarsi pansofìa. Nel sapere storico rientra la scienza degli strumenti della erudizione: la filologia, che comprende in sé una cognizione critica dei libri e delle lingue (letteratura e linguistica).

  La mera polistorìa è un'erudizione ciclopica alla quale manca un occhio: l'occhio della filosofia; un ciclope di matematico, storico, naturalista, filologo e conoscitore delle lingue è un erudito che è grande i tutti questi settori, ma che considera superflua ogni considerazione filosofica al riguardo»[17].

 

Al contrario un insegnamento filosofico consapevole può solo abituare il discente all'uso critico dei suoi talenti e non può quindi fare a meno di insegnare agli studenti, per la vita, ad utilizzare sistematicamente l'occhio della filosofia. In fondo se si vuole veramente insegnare a filosofare occorre saper insegnare ai propri studenti ad avvalersi, in tutte le circostanze della loro vita futura, di questo “occhio della filosofia”, mediante il quale riusciranno comunque ad avere un aiuto per approfondire la loro autonoma percezione critica di un determinato problema. In caso contrario, a dispetto del loro stesso sapere specialistico, rischieranno, invece, di acquisire ed incrementare sempre un'erudizione ciclopica, costantemente monocola. Senza aggiungere come l'occhio della filosofia incrementi la democrazia complessiva di una società, mentre la sua assenza favorisce, inevitabilmente, la diffusione di stili autoritari, fideistici e dogmatici.

 

 

6. L'«occhio della filosofia» e il sapere scientifico

 

Nel favorire sistematicamente uno studio più teorico e diretto dei singoli problemi che possono essere presi in considerazione a scuola, non si vuole affatto intendere di dover sminuire il ruolo e la funzione dello studio storico del pensiero filosofico. Tuttavia occorre anche avvertire, claris verbis, come si tratti di fornire, comunque, all'insegnamento della filosofia una diversa accentuazione. Non si può infatti negare come l'approccio storico allo studio della filosofia abbia finito, complessivamente, per compromettere seriamente (se non sistematicamente) l'autonoma capacità degli studenti di saper utilizzare liberamente i talenti della loro riflessione filosofica, trasformando spesso lo studio della filosofia nello studio mnemonico dei differenti sistemi teorici. Un approccio diretto ai problemi aperti dovrebbe invece essere in grado di restituire il gusto e la capacità di sviluppare un'autonoma riflessione critica, favorendo un incontro di pensiero e di riflessione con i testi dei classici. Naturalmente non si può però pensare di presentare un testo di un classico - come quelli di Platone, Democrito o Aristotele - come se fossero testi di contemporanei. In questa prospettiva l'insegnante ha il compito e il dovere specifico di aiutare i suoi discenti a saper leggere criticamente questi differenti testi, ricollocandoli nella loro epoca storica e nel loro preciso contesto storico-culturale: solo questa operazione potrà infatti aiutare il discente a percepire esattamente il pensiero stesso dell'autore che intende leggere e studiare. Ma per trovare un giusto e fecondo equilibrio tra il doveroso approccio storico-critico ai testi e l'incremento di uno studio espressamente finalizzato a far nascere in ogni discente l'«occhio filosofico» e l'uso autonomo dei talenti della propria ragione non andrà allora trascurato lo studio, strategicamente decisivo, della conoscenza umana. Per dirla ancora, e nuovamente, con Kant

 

«la cognizione della propria ignoranza presuppone dunque la scienza e rende al contempo modesti, mentre invece il presunto sapere rende superbi. Così il non-sapere di Socrate era un'ignoranza degna di lode: propriamente, per sua stessa confessione, un sapere del non-sapere. Pertanto, coloro che posseggono moltissime cognizioni e che purtuttavia si stupiscono della quantità di cose che non sanno non possono venire rimproverati d'ignoranza.

  Non biasimevole (inculpabilis) è in genere l'ignoranza in cose la cui conoscenza va al di sopra del nostro orizzonte; e lecita (sebbene solo in senso relativo) può esserlo in riferimento all'uso speculativo delle nostre facoltà conoscitive, nella misura in cui gli oggetti si trovano qui non - è vero - al di sopra, ma tuttavia al di fuori del nostro orizzonte. Vergognosa è però l'ignoranza in cose che ci è molto necessario e anche facile sapere».

 

Storicamente il pensiero filosofico si è sempre strettamente intrecciato con i problemi della conoscenza, conseguentemente nell'impostare l'insegnamento della filosofia sarà particolarmente fecondo ed interessante prendere le mosse da una considerazione di molti problemi connessi con la conoscenza umana. In questa prospettiva il riferimento kantiano che si è testé richiamato rinvia, a sua volta, alla celebre ignoranza socratica e al suo sapere di non-sapere, secondo una metodica critica che occorre riprendere onde metterla in diretta connessione con il patrimonio tecnico-scientifico. In questo caso la didattica della filosofia finalizzata a trasmettere un «occhio filosofico» non può che giovarsi, nuovamente, di un approccio strettamente interconnesso con lo studio della storia della scienza che aiuta potentemente a riconsiderare i termini storici e concettuali esatti delle specifiche modalità con cui un determinato problema conoscitivo si è configurato all'interno di una specifica tradizione concettuale in un determinato momento storico, a contatto con un particolare patrimonio tecnico-scientifico. Non solo: in questa prospettiva l'auspicato laboratorio seminariale interdisciplinare non può non realizzarsi attraverso la puntuale costruzione e la relativa programmazione di specifici momenti di “compresenza” tra insegnanti di differenti discipline (in particolare di quelle scientifiche: matematica, fisica, biologia, scienze naturali, chimica etc.), abituando costantemente il discente a riflettere criticamente anche in relazione alle differenti conoscenze scientifiche e alle differenti soluzioni tecnologiche elaborate dall'uomo nel corso della sua storia.

   Sotto un certo aspetto può forse sembrare molto più arduo attuare una tale connessione critica tra la filosofia e la scienza, tuttavia, in questo caso, se si adotta un approccio storico alla presentazione e alla discussione dei differenti risultati conoscitivi, appare allora più agevole intrecciare lo studio delle conoscenze scientifiche con la riflessione filosofica, proprio perché attraverso l'asse storico si può recuperare più agevolmente il preciso significato culturale delle differenti teorie scientifiche. Non solo: con questo approccio si riesce anche a scardinare ogni arbitrario abbinamento tra filosofia e storia recuperando quel fecondo orizzonte di integrazione critica tra pensiero filosofico e pensiero scientifico che sempre ha accompagnato, nella storia occidentale, lo studio e l'evoluzione della riflessione umana. Né può essere taciuto come in questo caso la finalità didattica ed educativa volta a trasmettere al discente l'«occhio della filosofia» si sposa, in modo alquanto felice e fecondo, proprio con l'utilizzazione sistematica di un approccio storico allo studio della scienza che finisce poi per favorire un'autonoma riflessione critico-teorica ai differenti problemi presi in considerazione. In questa chiave un tale approccio storico-critico, favorito dall'utilizzazione sistematica della storia della scienza, costituisce allora il contributo più valido per superare ogni astratta e fuorviante contrapposizione tra “metodo storico” e “metodo teorico”, aiutando il discente a comprendere l'autentica complessità del pensiero umano e la conseguente necessità di compiere ogni sforzo per meglio intendere la natura e il significato del nostro stesso pensiero.

   Certamente può sembrare più arduo trovare un filo diretto tra i problemi della conoscenza e il mondo della prassi dello studente, tuttavia, a ben riflettere, questo filo rosso può essere agevolmente rintracciato soprattutto se, seguendo il suggerimento socratico puntualmente richiamato da Kant, si aiuta il discente ad interrogarsi criticamente sui limiti e la natura della sua stessa conoscenza, ponendo al contempo i suoi dubbi e le sue perplessità in relazione diretta con i contenuti conoscitivi che il discente studia e apprende a scuola. Il che permetterà, inoltre, di affrontare il problema del significato (ad un tempo storico e culturale) degli stessi algoritmi tecnici che il discente apprende nel corso del suo studio delle differenti materie scientifiche. Spesso, come ben sa chi ha insegnato nelle classi della scuola secondaria, gli studenti studiano e fanno loro tutti questi algoritmi senza riuscire a ben comprendere il loro significato: imparano ad usarli, anche ad un notevole grado di rigore e di difficoltà tecnica (si pensi per esempio all'insegnamento della matematica in un liceo scientifico che raggiunge livelli ragguardevoli nello studio delle funzioni), senza tuttavia riuscire a dominare completamente il preciso significato teorico e culturale di questi stessi algoritmi. Anche in questo caso siamo così rinviati ad un apprendimento tecnico che tuttavia finisce per vanificare il significato di quegli stessi strumenti che lo studente deve pure utilizzare sistematicamente. Un diverso insegnamento interdisciplinare e seminariale, in cui la riflessione filosofica sia in grado di discutere attivamente con i contenuti conoscitivi delle differenti discipline scientifiche, può invece aiutare il discente ad impadronirsi criticamente di quegli stessi strumenti tecnici che già utilizza in modo puramente algoritmico e calcolistico-funzionale, senza tuttavia ben intenderne il valore e il preciso significato. In questo caso è evidente che l'ignoranza trasmessa dalla scuola nei confronti di questi strumenti algoritmici è assai biasimevole, anche se il biasimo non può essere tanto rivolto contro lo studente, bensì contro la stessa organizzazione degli studi che, articolandosi spesso in settori impermeabili ad ogni serio confronto culturale interdisciplinare, impedisce poi al discente di comprendere adeguatamente, ancora una volta, quanto sta studiando.

   Naturalmente nel porre in essere questo programma di studio capace di intrecciare sistematicamente la riflessione filosofica con i problemi della conoscenza scientifica (in senso lato) si possono conseguire differenti livelli di consapevolezza, secondo modalità che non possono essere stabilite in astratto, giacché bisogna sempre fare i conti, in concreto, con i discenti con i quali si lavora, con i docenti con i quali si deve interagire e anche con il clima complessivo del particolare indirizzo di studio della scuola in cui si opera (per non parlare poi del territorio in cui si lavora). In ogni caso queste diverse e sempre doverose mediazioni non sono comunque tali da intaccare il senso complessivo di un progetto di dialogo culturale tra scienza e filosofia che se attuato riesce comunque ad incrementare il sapere critico dei discenti, facendo loro percepire tutto il fascino e l'attualità del modo in cui l'uomo si interroga sull'enigma del mondo per trarne qualche eventuale “filo di verità”[18].


NOTE


[1] Fabio Minazzi, Insegnare a filosofare, Barbieri, Manduria 2004, pp. 59-93

[2] Georg Simmel, L'educazione in quanto vita (Schulpädagogik), a cura di Antonio Erbetta, trad. it. di Francesco Cappellotti, il Segnalibro, Torino 1995, pp. 28-9, traduzione italiana lievemente modificata.

[3] Karl Popper, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, seconda edizione interamente riveduta, trad. it. di Dario Antiseri, Armando Armando Editore, Roma 1978, pp. 33-4.

[4] Non a caso, soprattutto nella scuola italiana contempranea, i docenti sono sempre meno “intellettuali”, al punto che taluno (basterebbe pensare, per fare un solo esempio, all'ex-ministro Berlinguer) voleva addirittura trasformarli in meri e grigi “impiegati” acefali,  configurandoli, appunto, quali meri trasmettitori passivi di una sapere prodotto da altri “saggi” (non per nulla la sua celebre commissione mass-mediatica di “saggi” per la scuola, formata da cantanti, giornalisti, docenti universitari, personaggi pubblici et similia, non comprendeva, programmaticamente, alcun insegnante: per il ministro un insegnante non poteva infatti né pensare, né, tanto meno, essere “saggio”, doveva solo limitarsi ad essere un mero esecutore delle sue illuminate riforme. Per fortuna proprio questo ministro ricevette in dono, dai suoi dipendenti, uno dei più grandi scioperi mai organizzati dagli insegnanti nella loro storia).

[5] Cfr. Georg Simmel, L'educazione in quanto vita (Schulpädagogik), a cura di Antonio Erbetta, trad. it. di Francesco Cappellotti, il Segnalibro, Torino 1995: «l'insegnante non perda alcuna occasione per indagare le esperienze dello scolaro, per dare loro un senso, un nesso, una valorizzazione interiore ed esteriore. Deve verificare lo spirito filosofico per il quale da ogni punto dell'essere superficiale parte una linea retta collegata alle profondità fondamentali» (p. 31), senza peraltro trascurare come «solo nelle ultime classi è possibile che lo studente capisca da solo che per i propri scopi e la sua “Bildung” è indispensabile anche quanto apparentemente è privo di interesse. Non appena lo studente comprende che deve apprendere la singola questione non per amore della stessa, ma nella prospettiva di un contesto generale della “Bildung” che comprende anche il singolo elemento, allora anche in questo caso vi è posto per un'attenzione indiretta, quando non è possibile ottenerne una diretta. Perciò è un compito principale la produzione di tali ampi concetti della Bildung. E anche perciò dobbiamo evitare ogni isolamento dei contenuti. L'unità che tutto abbraccia non porta solo l'attesa e l'attenzione, ma coglie nell'interesse complessivo (teoretico e pratico) anche quanto non è interessante» (p. 53, la trad. it. è stata lievemente modificata).

[6] John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. di Stefano Magistretti, il Saggiatore, Milano  1981, p. 45, da cui sono tratte anche le altre citazioni che figurano successivamente nel testo.

[7] Interessanti considerazioni a questo proposito si leggono nel contributo di Tiziano Tussi, Eros a scuola: risvolti storico-psicologici di un realissimo non-rapporto, «il Voltaire», anno I, 1999, n. 1, pp. 47-59.

[8] Per un primo bilancio complessivo si possono tener presenti i dati pubblicati sia nel volume L'insegnamento della filosofia. Rapporto della Società filosofica italiana, a cura di Luciana Vigone e Clemente Lanzetti, Laterza, Roma-Bari 1987, sia nel libro L'insegnamento della filosofia nelle scuole sperimentali. Rapporto della Società Filosofica Italiana, Laterza, Roma-Bari 1994, unitamente a quanto pubblicato nelle varie annate della rivista «Insegnare filosofia» cui si possono inoltre affiancare, sul piano di un bilancio storico complessivo, volumi emblematici come i seguenti: il celebre e illuminante libro di Augusto Monti, I miei conti con la scuola. Cronaca scolastica italiana del secolo XX, Einaudi, Torino 1965; il classico e sistematico studio di Vittorio Telmon, La filosofia nei licei italiani, apparso originariamente per «La Nuova Italia» di Firenze nell'aprile del 1970, ma poi riedito, in un'edizione anastatica, dalla Cooperativa Libraria Universitaria Editrice di Bologna (Clueb) nel febbraio 1990, nonché l'ormai datata, ma a suo modo caratteristica, riflessione di Aldo Agazzi, consegnata alle pagine del volume Didattica dell'insegnamento filosofico e pedagogico apparso a Milano nel 1972, pro manuscripto, per le edizioni universitarie milanesi della Libreria Vita e Pensiero dell'Università Cattolica del S. Cuore. Sul piano della discussione contemporanea in questa sede mi invece limito a segnalare tutti i sette, diversi ma interessanti, volumi editi dalla “Città dei filosofi” nella collana ministeriale (vale a dire nella serie dei «Quaderni» della Dirclassica del Ministero della Pubblica Istruzione, oggi Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, rubricati a partire dal dodicesimo numero di questa collana e consacrati, rispettivamente, ai seguenti temi: La “città” dei filosofi. Seminario di formazione per Docenti, del 1994; I nuova media nella didattica della filosofia. Materiali prodotti dai Seminari di formazione per docenti, a cura di Rosanna Ansani, Laura Bolognini, Mario Pinotti, Maurizio Villani, apparso nel 1998; I filosofi antichi nel pensiero del Novecento, a cura di Emidio Spinelli, del 1998; La scrittura filosofica. Generi letterari, destinatari, finalità e forme della scrittura filosofica, a cura di Fabio Minazzi, apparso nel 1999; Moduli per l'insegnamento della filosofia nel biennio del riordino dei cicli scolastici, a cura di L. Bolognini e M. Villani, del 2000; Il concetto di felicità nel pensiero filosofico, a cura di R. Ansani e M. Villani, del 2001 e Filosofia e saperi scientifici, a cura di R. Ansani e M. Villani, edito nel 2003), unitamente all'agile manuale di Enrico Berti ed Armando Girotti, Filosofia, Editrice La Scuola, Brescia 2000 (con ampia bibliografia cui rinvio senz'altro) e al precedente volume di più autori Filosofia per tutti. La filosofia per la scuola e la società del 2000, a cura di Mario De Pasquale, Franco Angeli, Milano  1998.

[9] Ma a questo proposito bisognerebbe anche chiedersi chi insegnava la filosofia nelle scuole secondarie italiane. Discorso che in questa sede ci porterebbe in realtà molto lontano, perché bisognerebbe necessariamente confrontarsi con la storia complessiva del nostro Paese nel corso degli ultimi due secoli. In ogni caso in questa sede sia sufficiente ricordare come non vada affatto trascurato come, molto spesso, l'insegnamento della filosofia fosse affidato, istituzionalmente, a docenti che non avevano neppure ricevuto una specifica preparazione filosofica. Così per molti anni l'insegnamento della filosofia fu affidato a docenti di lettere o di diritto o, ancora, di religione cattolica, i quali, in realtà, poco o nulla conoscevano della riflessione filosofica. Per non aggiungere, poi, che anche molti docenti di “filosofia”, in realtà, si erano laureati in storia e, quindi, conoscevano nuovamente, poco e male, la filosofia che pure dovevano insegnare (infatti il discutibile abbinamento neohegeliano tra storia e filosofia concerne non solo il mondo secondario, ma anche il mondo universitario, giacché l'insegnamento della filosofia è tutt'ora abbinato, in via pressoché esclusiva, alle sole Facoltà di Lettere o di scienze della formazione, con sistematica esclusione delle Facoltà scientifiche). Infine non si può neppure dimenticare come la preparazione media dei docenti della scuola secondaria abbia purtroppo registrato, complessivamente, un'autentica caduta verticale di competenze specifiche, soprattutto negli ultimi lustri, col triste ma inevitabile risultato che spesso e volentieri oves et boves (grazie a molteplici corsi abilitanti e altrettanti concorsi “riservati”, in palese spregio del dettato costituzionale) siano infine giunti all'agognata cattedra, conoscendo poco o nulla di quanto dovrebbero insegnare. Ma, come è evidente, questa perdita complessiva di competenze cognitive da parte dei docenti immessi poi in cattedra con incredibili “infornate” governative (spesso richieste e volute dai sindacati) risulta essere strettamente connessa alla grave crisi che la scuola italiana sta vivendo ormai da molti anni, soprattutto a causa delle contrastanti forze politiche e civili che l'hanno ridotta a quel miserevole stato di degrado che oramai è sotto gli occhi di tutti (non foss'altro che per le stesse penose retribuzioni che da anni contraddistinguono un settore strategico come quello scolastico che purtroppo non è avvertito, anche dalle maggiori forze politiche, come autenticamente decisivo per il futuro del paese).

[10] Immanuel Kanti, Critica della ragione pura, introduzione, traduzione e note di Giorgio Colli, Adelphi Edizioni, Milano 1976, pp. 810-1, lo spaziato è di Kant, mentre i corsivi sono miei.

[11] Traggo direttamente l'espressione “giovane pensatore” dalla significativa e assai feconda esperienza didattico-culturale posta in essere, coraggiosamente, dalla prof. ssa Ada Fiore del Liceo “F. Capece” di Maglie, con un interessante percorso didattico che ha poi trovato un suo significativo momento di confronto e pubblica verifica nel Festival dei “giovani pensatori” svoltosi nella giornata di martedì 11 maggio 2004 presso il Catello de' Monti di Corigliano d'Otranto (in provincia di Lecce), durante il quale, per un'intera giornata, parecchie centinaia di studenti delle scuole secondarie del Salento hanno discusso di amore, morte, felicità e libertà con quattro filosofi come Evandro Agazzi (dell'Università di Genova), Domenico Conci (dell'Università di Siena), Carlo Vinti (dell'Università di Perugia) e lo scrivente (dell'Università di Lecce). Per l'esito complessivo di questa importante esperienza non posso comunque che rinviare agli atti di questa iniziativa che attualmente sono in corso di pubblicazione nella medesima collana editoriale che ospita il presente volume. Per altre considerazioni connesse con l'esperienza posta in essere da questi “giovani pensatori” del liceo salentino cfr. anche quanto si accenna nel successivo § 5.

[12] Traggo ancora l'espressione di “condottiero dell'esistenza” dall'interessante volumetto scritto dalla prof. ssa Ada Fiore in collaborazione con la sua classe I D del Liceo “Capece” di Maglie, Il condottiero dell'esistenza, Edizioni Liceo Capece, Maglie 2004 nel quale il “giovane pensatore” è appunto definito e individuato come un condottiero della sua propria esistenza, capace di infrangere con la sua intelligenza critica i luoghi comuni che inducono invece a vivere schiavi del soffocante conformismo contemporaneo diffuso soprattutto dalle credenze religiose, dalle credenze sociali, dalla superstizione e dalla televisione. Semmai la pur piacevole lettura di questo breve scritto suscita qualche perplessità solo nella misura in cui il conformismo televisivo viene strettamente ed unilateralmente abbinato al dogmatico conformismo scientifico, ponendo così completamente tra parentesi l'irriducibile nucleo critico che sempre alimenta la riflessione scientifica più vera e conseguente, quale è stata sempre attuata e coraggiosamente praticata dai maggiori scienziati dell'umanità.

[13] Il passo di Kant è assai noto ma vale la pena rchiamarlo totidem verbis per il suo valore storicamente emblematico: «senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gradare - Non ragionate! - L'ufficiale dice: - Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. - L'impiegato di finanza: - Non ragionate, ma pagate!. - L'uomo di chiesa: - Non ragionate, ma credete! - […] Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve esser libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare l'illuminismo tra gli uomini» (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo? in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, con un saggio di Christian Garve, tradotti da Gioele Solari e Giovanni Vidari, edizione postuma a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Vittorio Mathieu, Utet, Torino  19652, p. 143, i corsivi sono nel testo). Naturalmente in Kant questo appello alla ragione critica trova un preciso limite nella censura imperiale del tempo espressa da Federico II il Grande, re di Prussia, il quale per conto suo affermava, poco illuministicamente, «Ragionate fin che volete e su quel che volte, ma obbedite» (ibidem, corsivi nel testo). Kant, da bravo suddito prussiano, cercava di individuare un varco plausibile entro questo poco simpatico giogo autoritario ed illiberale della censura sostenendo una alquanto discutibile distinzione tra l'uso privato e l'uso pubblico della ragione: il secondo sarebbe libero ed universale, poiché connesso al mondo pubblico ed intersoggettivo dello studio e della ricerca, mentre il primo sarebbe necessariamente vincolato all'obbligo della fedeltà e dell'ubbidienza al monarca. Distinzione che non regge, naturalmente, ad una seria critica illuministica, ma che ben si spiega col dispotismo del tempo e con la connessa esistenza della regia censura. Per un commento e una riproposizione critica della lezione illuminista kantiana nel quadro della riflessione contemporanea sia tuttavia lecito rinviare al mio volume Teleologia della ragione ed escatologia della speranza. Per un nuovo illuminismo critico, La Città del Sole, Napoli 2004, passim.

[14] Michel Foucault, Illuminismo e critica, a cura di Paolo Napoli, Donzelli Editore, Roma 1997, p. 38 (mentre le due espressioni precedentemente ricordate nel testo si trovano a p. 40). La disamina proposta da Foucault si collega al suo studio del rapporto tra ratio e potere facendo riferimento privilegiato alla «governamentalizzazione» che si sarebbe imposta a partire dall'età moderna: «se riconosciamo a questo movimento della governamentalizzazione, della società e degli individui, la collocazione storica e l'ampiezza che mi sembra meriti, allora incontriamo ciò che definirei l'atteggiamento critico. Come contropartita, o piuttosto come partner e al contempo avversario delle arti di governo, diciamo come modo per sospettarne, per rifiutarle e per limitarle, per individuarne una giusta misura e trasformarle, insomma come modo per sfuggire a queste arti di governo, per allentarne comunque la presa, sia sotto forma di rifiuto ma anche come linea di un differente sviluppo, si sarebbe affermata in Europa una specie di forma culturale generale, un atteggiamento morale e politico, una maniera di pensare ecc. che definirei semplicemente l'arte di non essere governati o, se si preferisce, l'arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo» (pp. 37-8). Peraltro la riflessione di Foucault contrappone discutibilmente in Kant il momento della critica a quello dell'Aufklärung, avendo tuttavia il merito di ricordare «che Kant ha stabilito per la critica, nella sua impresa di disassoggettamento dal gioco del potere e della verità, come compito originario, come prolegomeni a ogni Aufklärung presente e futura, di conoscere la conoscenza» (p. 43), proprio perché «questo vero coraggio di sapere invocato dall'Aufklärung consiste nel riconoscere i limiti della conoscenza» (p. 42). Per una diversa lettura dei rapporti tra criticità e Aufklärung in Kant sia comunque lecito rinviare nuovamente al mio già citato Teleologia del sapere ed escatologia della speranza, in particolare alle pp. 23-185.

[15] Immanuel Kant, Logica, a cura di Leonardo Amoroso, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 144 (§ 119).

[16] Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, p. 13, corsivo nel testo.

[17] I. Kant, Logica, trad. it. cit., p. 39, i corsivi sono nel testo, mentre la cit. che figura in apertura del seguente § 6 è tratta dalle pp. 38-9 (anche in questo caso i corsivi sono tutti nel testo).

[18]  Un valido strumento di lavoro per attuare questa affascinante programmazione di studio in grado di intrecciare costantemente il pensiero filosofico con quello scientifico può essere individuato nell'ormai datata, ma ancora insostituibile, grande opera di Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970-76, 7 voll. (più recentemente, nel 1996, sono stati anche pubblicati - per iniziativa di Enrico Bellone di Corrado Mangione - due, sia pur discutibili, nuovi volumi di aggiornamento, l'ottavo e il nono, specificatamnte dedicati ai più recenti dibattiti degli ultimi anni del Novecento).