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Comunicazione Filosofica n. 14 gennaio 2005
«Non deve essere studiato nulla che al di là del suo
contenuto sostanziale non apporti un contributo alla vita dello studente - sia
esso un potenziamento dell'energia, che sostiene funzionalmente questo studio,
o attraverso il senso ulteriore operante che questo contenuto acquisisce per
l'approfondimento e la chiarezza, l'ampiezza e la moralità dello studente.
L'uomo attivo intellettualmente, il cui presente è al tempo stesso futuro, del
quale è responsabile, colui che si impegna “sforzandosi”, svolge ogni compito,
come se stesse lavorando a qualcosa di più. In rapporto alla sua vivacità
intellettuale trae da ogni compito, come prodotto ulteriore, un rafforzamento,
un'abilità per la sua personalità complessiva, portando così ad un grado
superiore la totalità del suo futuro, che permane in lui vivo e in continuo
sviluppo, ed eleva ad un grado superiore tutta la dinamis imprevedibile del suo agire successivo».
1. Le scuole devono
necessariamente annoiare?
«Fu durante gli ultimi terribili anni della guerra, probabilmente nel 1917,
al tempo in cui soffersi di una lunga malattia, che mi resi conto molto
chiaramente di ciò che per lungo tempo ero stato pienamente convinto: che nelle
nostre famose scuole secondarie austriache (dette “Gymnasium” e - horribile
dictu - “Realgymnasium”) stavamo
scandalosamente sprecando il nostro tempo, quantunque i nostri insegnanti
avessero una buona formazione e cercassero con tutte le loro forze di fare
delle scuole le migliori del mondo. Che molto del loro insegnamento fosse
estremamente noioso - ore ed ore di tortura disperata - non mi era nuovo. (Mi
avevano immunizzato: da allora non ho mai più sofferto la noia. A scuola era
possibile essere scoperti se si pensava a qualcosa che non era in rapporto con
la lezione: si era costretti a stare attenti. E così, in seguito, con un
conferenziere noioso fu possibile intrattenersi coi propri pensieri). C'era una
sola materia in cui avevamo un insegnante interessante e veramente ispiratore.
La materia era la matematica, e il nome dell'insegnante era Philipp Freud (non
so se fosse parente di Sigmund Freud). Ma quando rientrai a scuola, dopo una
malattia durata più di due mesi, trovai che la mia classe non aveva fatto
proprio nessun progresso, nemmeno in matematica. Questo fatto mi aprì gli
occhi: mi rese impaziente di lasciare la scuola»[3].
Così testimonia emblematicamente Sir Karl Raimund Popper
a proposito del suo rapporto con il mondo della scuola che, effettivamente, sul
finire del 1918, si interruppe definitivamente, perché l'epistemologo
austriaco, classe 1902, decise infine
di ritirarsi dal Gymnasium e di
studiare per suo conto per poi iscriversi, sia pur ancora quale studente
non-immatricolato, all'università di Vienna. Certamente da allora molte cose
sono cambiate, anche nel mondo della scuola. Né si può neppure negare come il Gymnasium austriaco d'inizio secolo
fosse profondamente diverso non solo dai nostri tradizionali licei, ma anche
dalla contemporanea scuola italiana secondaria superiore. Tuttavia, come poi
negare che proprio queste ben diverse e differenti realtà scolastiche
condividano comunque un punto di convergenza per nulla secondario come quello
attinente il tedio che spesso domina sovrano tra le aule scolastiche? Le scuole
austriache d'inizio secolo non sono affatto analoghe ai nostri licei, i
difficili e terribili anni della prima guerra mondiale sono ben diversi dal
mondo di opulenza materiale dei primi anni del secondo millennio, tuttavia le scuole
di questi due mondi eterogenei possiedono ancora un singolare comun
denominatore, rappresentato dalla comune noia
e dallo scandaloso, e assai diffuso, spreco
del tempo.
Come si é visto
l'epistemologo austriaco è anche riuscito, vichianamente,
a trasformare una sua difficoltà
oggettiva - quella di dover stare formalmente attento alle noiosissime
lezioni liceali - in una feconda virtù, coincidente con la capacità di
prestare pubblica attenzione a qualunque noiosa relazione intrattenendosi
liberamente, nel contempo, con i propri autonomi pensieri. Virtù invero
nascosta e segreta cui molto spesso, sia pur con differente capacità di
“camuffamento”, ricorrono moltissimi studenti che cercano, in qualche modo, di
“scappare” ed evadere dalla disperata tortura prodotta dalla noia scolastica,
rifugiandosi nel loro mondo, nei loro pensieri, nei loro interessi più veri. Da
questo punto di vista dall'inizio del secolo e dalle scuole austriache alle
scuole italiane del nuovo millennio sembra non essere cambiato molto. Né del
resto l'autorità cui in genere si ricorre per rompere con decisione questo
grave iato tra mondo scolastico e mondo personale del discente riesce veramente
a risolvere il problema. Semmai quest'ultimo è solo rimosso con un atto di
forza la cui efficacia, peraltro, spesso si dissolve nel momento stesso in cui
sembra invece conseguire il suo obiettivo: infatti lo studente richiamato con
la forza dell'autorità all'attenzione dovuta nei confronti della noiosa
lezione, nel momento stesso in cui sembra aderire all'ordine impartitogli in
realtà sta già navigando con la mente verso altri lidi più attraenti e
stimolanti. Il risultato di questo silente ma vigoroso braccio di ferro tra
l'autorità del docente (e, più in generale, della scuola) e il mondo degli
interessi autonomi dei discenti pone le migliori premesse per generare la
discutibile virtù della dissimulazione
in virtù della quale lo studente camuffa sempre più un interesse formale dietro
il quale si cela, in realtà, un disinteresse alquanto radicale e diffuso. Entro
questa contraddizione la noia si riproduce a vista d'occhio e lo spreco del
tempo è incrementato a dismisura.
D'altra parte
proprio questo problema del tedio prodotto a dismisura dalla scuola e del
conseguente spreco del tempo costituisce una questione sistematicamente rimossa
e non mai affrontata articolatamente e compiutamente, a differenti livelli,
dagli stessi responsabili dell'educazione scolastica. Esito tanto più singolare
nella misura in cui la noia prodotta dalla scuola non concerne unicamente i
discenti, ma finisce per coinvolgere e tediare gli stessi docenti che, molto
spesso, praticano il loro mestiere con una stanchezza e una malinconia che
finiscono poi per fargli porre in uggia le stesse discipline da loro insegnate.
D'altra parte la sistematica rimozione istituzionale e culturale di questo
problema dell'infinita noia prodotta dalle scuole d'ogni ordine e grado e nelle
diverse latitudini costituisce forse la migliore documentazione dell'effettiva
diffusione di questo problema e della sua stessa pervasività. Proprio
nell'ambito del rimosso, del non dichiarato e di ciò di cui non si vuol neppure
parlare si radica la devastante presenza di un male istituzionale assai diffuso
e virulento che viene paradossalmente difeso e tutelato proprio attraverso un
singolare e complessivo meccanismo di rimozione istituzionale. Ma, in realtà,
non si parla mai della noia prodotta dalla scuola proprio perché si sa bene
come la disamina di questo problema rimetta in discussione non tanto questo o
quell'aspetto del mondo scolastico, ma sia in grado di sollevare una questione
d'ordine generale che investe l'intera realtà scolastica ab imis fundamentis. Se infatti le differenti scuole nei diversi
paesi finiscono invariabilmente per produrre noia è evidente come questo
“effetto” finisca per essere particolarmente connaturato con l'istituzione
scolastica e la sua organizzazione. Conseguentemente occorre chiedersi se
veramente la noia si debba necessariamente configurare come il prodotto
primario e inevitabile della scuola. La scuola, di per sé, coincide con la noia
e la perdita di tempo? Scuola e noia sono necessariamente sinonimi? Andare a
scuola vuol veramente dire perdere il proprio tempo? La fuga popperiana dal
mondo scolastico rappresenta veramente l'unica soluzione praticabile e
consigliabile? Certamente Karl Raimund Popper ha fatto bene ad abbandonare la
scuola per fuggire la noia e per combattere una prassi scolastica che finiva
per non incrementare adeguatamente la sua voglia infinita di conoscere. Ma
veramente si può proporre come soluzione sociale questa fuga generalizzata
dalla scuola? Semmai, da un punto di vista più ampio e comprensivo, la scelta
operata da Popper può invece rappresentare, per il suo stesso carattere davvero
emblematico, connesso con l'eminente personalità intellettuale
dell'epistemologo austriaco, un sintomo particolarmente interessante e
singolare di un grave problema sociale che deve essere affrontato e risolto con
altre strategie e con nuove riflessioni.
2.
Lo iato tra
scuola e società: non scholae sed vitae discimus
Il problema della noia invariabilmente prodotta dalla
scuola costituisce infatti l'altra faccia di una medesima medaglia: quella in
base alla quale la scuola, in genere, si presenta come del tutto scissa dalla
vita e dagli interessi diretti dei discenti. In questa profonda scissione tra
il mondo scolastico e il mondo della vita degli studenti si radica infatti l'humus specifico e più vero che alimenta
continuamente la noia scolastica. Lo studente non segue con passione quelli che
percepisce come i “riti” scolastici perché non li avverte come direttamente
connessi e radicati con la sua vta, le sue tensioni, le sue pulsioni e i suoi
problemi diretti od esistenziali. Si badi: paradossalmente, entro certi limiti,
questo iato è invero del tutto fisiologico e francamente inevitabile per una
scuola degna di questo nome. Non per nulla l'educazione, come indica anche il
significato etimologico del termine, deve appunto aiutare il discente ad essere
“educato”, vale a dire ad essere “e-dotto”, idest
“tratto fuori”, condotto e guidato verso altre dimensioni e altri mondi non
necessariamente coincidenti con quello della sua immediata prassi di vita, anzi
tali da configurarsi come del tutto antitetici a quel mondo originario da cui
proviene lo studente. Da questo specifico punto di vista la reale positività
dell'azione educativa si radica proprio nella sua capacità di liberare il discente dalla schiavitù
attinente il suo immediato mondo della prassi, onde inserirlo in altre dimensioni
di vita e di riflessione da lui radicalmente ignorate e non percepite.
Tuttavia, è anche vero che molto spesso questo scopo decisivo dell'educazione
viene vanificato proprio nella misura in cui la prassi scolastica si illude che
sia sufficiente presentare un mondo del tutto alieno da quello della vita
concreta del discende, onde innestare un autentico processo educativo di
crescita. Ma se manca il “sacro fuoco” in grado di accendere un reale ed
autonomo percorso di crescita e di ascesa personale, il risultato conseguito è
del tutto opposto: non si ha alcun processo di approfondimento ma si genera
solo la noia e si spreca il tempo (individuale e sociale). In genere, si
innesca quasi sempre un processo alienante e tediante, in virtù del quale quel
mondo diverso viene vissuto come del tutto irreale e affatto privo di un suo
nesso specifico - nesso critico,
dirompente e liberante - rispetto all'ordinario mondo della prassi dello
studente. In questo caso l'insegnamento impartito dalla scuola non entra affatto
nel ciclo vitale del discente e finisce così per contrapporsi, in modo sterile
e fondamentalmente autoritario, con la vita dello studente. Il risultato,
allora, è quella produzione generalizzata della noia e quella sistematica
perdita di tempo che trasforma la scuola in una tortura disperata la cui
espressione fenomenologica più emblematica è forse rappresentata dalla modalità
con la quale gli studenti escono dalla scuola quando suona la campana che
indica il termine delle lezioni. Naturalmente i pedagogisti e i vari esperti
del mondo scolastico prestano un'attenzione pressoché nulla a questo banale
aspetto della vita scolastica quotidiana. Eppure questa esperienza è sotto gli
occhi di tutti, quotidie: perché gli
studenti, quando è finita la loro giornata scolastica, fuggono letteralmente dalla scuola? Che cosa spinge i discenti ad
abbandonare con tempestività e notevole solerzia quei luoghi e quegli spazi
scolastici che evidentemente non abitano in modo del tutto piacevole e
felicitante?
Come eventuale
controprova basterebbe anche osservare il momento dell'ingresso mattutino a
scuola degli studenti. Un rilievo, del resto, che non può limitarsi ai soli
discenti, perché un fenomeno non molto dissimile può anche essere colto nella
concreta fenomenologia dell'ingresso o dell'uscita da scuola degli stessi
docenti. A conferma ulteriore che la noia generalizzata prodotta dalle scuole
costituisce un problema che se investe più direttamente e più pesantemente i
discenti, non lascia tuttavia immuni dai suoi malefici effetti anche il corpo
docente. Sia pur con la differenza, invero per nulla trascurabile, che questi
ultimi dovrebbero perlomeno riflettere autonomamente e criticamente su questo
problema, invece di subirlo passivamente, trasformandosi spesso nel miglior
strumento che consente alla noia di dilagare nelle scuole. Per non parlare,
infine, dei cosiddetti “dirigenti scolastici” e della molteplice pletora dei
vari e diversificati “esperti” ministeriali molti dei quali, tuttavia, amano in
genere parlare della scuola tenendosi però rigidamente lontani sia dalle aule
scolastiche, sia dalla concreta prassi scolastica quotidiana, che così
finiscono per conoscere solo “per sentito dire” oppure per la loro, sempre più
datata e “lontana”, esperienza scolastica diretta di ex-studenti (sommariamente
ed estrinsecamente rinnovata, a volte, dalla partecipazione con la quale
seguono le vicende scolastiche dei propri diretti familiari). Né si compie poi
un'affermazione nuova nel rilevare come spesso gli stessi insegnanti desiderano
letteralmente fuggire, appena
possono, dalla routine del lavoro in
classe. Quel che è peggio è rilevare come alcuni di questi insegnanti che hanno
abbandonato tempestivamente il quotidiano lavoro in classe (come anche qualche
“dirigente scolastico” che ha ormai abbandonato la prassi scolastica
quotidiana) si trasformino, poi, a volte, in retorici e insopportabili
esaltatori dell'infinita bellezza del lavoro scolastico quotidiano, pretendendo
poi di trasformarsi in improbabili “educatori degli educatori” ai quali si
rivolgono lodando apertamente il quotidiano lavoro dell'insegnamento in classe,
quello stesso che loro stessi hanno fuggito (e che ancora fuggirebbero) come la
peste. Ma questa peste è tale perché, come si è accennato, è anch'esso gravato
da una noia incredibile: produce noia ai discenti perché annoia gli stessi
docenti. E produce noia ad entrambi perché la scuola è sempre più scissa dalla
vita e dalla società del suo tempo. Ed è paradossalmente scissa dalla vita e
dal mondo della prassi proprio perché è sempre più povera culturalmente e
teoricamente[4].
3. Una modesta
proposta per debellare la noia scolastica
Ma come combattere la noia
prodotta dalla scuola? E come debellarla senza venir meno al compito educativo della scuola? Per rispondere a
queste impegnative, ma decisive ed ineludibili domande, occorre chiedersi, in primis, se effettivamente quella
scissione culturale che sempre esiste - e deve giustamente esistere - tra il
mondo della prassi quotidiana del discente e il mondo della cultura (quella
dimensione della «più che vita», per dirla con Simmel[5]) debba essere necessariamente
affrontata tramite una prassi didattica alienante e distorcente tale da
produrre noia sia nei discenti, sia nei docenti.
3. 1.
Partire dai
problemi, non dalle risposte
Una prima indicazione per invertire l'orizzonte della
prassi didattica capace di produrre la noia infinita che regna nelle scuole è
quello di non limitarsi più ad insegnare delle discipline o dei saperi
acquisiti. L'insegnamento disciplinare risponde infatti ad un'esigenza
prettamente burocratico-istituzionale. La cultura, invero, non conosce tanto
delle discipline, ma solo dei problemi.
Le discipline sono state spesso codificate per “incasellare” le diverse
risposte che sono state avanzate per risolvere alcuni problemi. Ma se si
inverte il rapporto esistente tra “risposte” e “problemi” originari si è allora
in grado di scoprire una delle radici più profonde di una scuola in grado di
annoiare sia i discenti, sia i docenti. Questa scuola che annoia fornisce
infatti risposte già codificate e non richieste a domande inesistenti che si
illudono peraltro di annullare definitivamente i problemi. Invece che partire
dalle risposte già date a problemi non avvertiti dai discenti, la scuola
dovrebbe invertire coraggiosamente il suo percorso didattico. Occorre insomma
ribaltare i termini della questione, partendo da domande reali per fornire
risposte plausibili a questioni sempre aperte. Del resto questo atteggiamento
culturale non costituisce forse il “fondamento” più stabile di ogni autentico
sapere? Quest'ultimo non si basa forse anche storicamente sulla capacità di
rimetterlo continuamente in discussione? Già John Stuart Mill osservava come
«le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che
un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate»[6]. La scuola deve pertanto incrementare
questa attitudine critica, proprio perché «se si vietasse di dubitare della
filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua
verità come lo sono». La capacità di incrementare il sapere critico richiede
pertanto la piena consapevolezza che «la costante abitudine a correggere e
completare la propria opinione confrontandola con le altrui non solo non causa
dubbi ed esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l'unico fondamento
stabile di una corretta fiducia in essa». Bisogna pertanto partire dalle
domande che gli stessi discenti avvertono come questioni aperte per educarli a
meglio interrogarsi e a dubitare criticamente e sistematicamente delle risposte
cui si riferiscono nel loro stesso mondo della prassi quotidiana.
L'insegnamento scolastico dovrebbe pertanto partire da alcuni problemi aperti
per far ripercorrere allo studente lo sforzo con cui le migliori intelligenze
dell'umanità hanno cercato di individuare alcune possibili soluzioni.
3. 2. Praticare un
insegnamento dinamico dei problemi
Ma, in secondo luogo, per compiere questo ribaltamento
critico la scuola non può non porsi il problema del ruolo di un insegnamento dinamico all'interno della
sua stessa organizzazione disciplinare ed istituzionale. Più in generale una
scuola seriamente intenzionata a partire dai problemi aperti che hanno generato
le differenti “discipline” non può non interrogarsi seriamente sul ruolo che
deve essere attribuito alla storia del pensiero - e, più in generale, alla
storia della scienza - per studiare i differenti problemi. L'approccio
storico-critico consente infatti di rendere molto più comprensibile non solo il
particolare problema affrontato, ma anche le differenti soluzioni prospettate
onde cercare di risolvere la questione in discussione. Chiunque abbia anche un
minimo di esperienza della prassi didattica sa bene come l'attenzione dei
discenti aumenti enormemente non appena da una presentazione astratta e del
tutto statica di un problema, si passi alla sua presentazione dinamica e
storica, capace di ricostruire i termini esatti nei quali quel particolare
problema si è definito all'interno delle differenti culture storiche.
L'approccio storico ha infatti il pregio di porre il discente nella migliore
condizione per meglio intendere non solo la genesi della questione considerata,
ma anche la delineazione delle differenti soluzioni che sono state via via
proposte. Questo spostamento di accento dalle discipline ai problemi e questa
apertura coraggiosa ad un approccio storico-critico allo studio delle
differenti questioni permette immediatamente di “umanizzare” profondamente i
vari saperi, consentendo allo studente di riappropriarsi criticamente del senso
e del significato preciso che può e deve essere attribuito a quanto sta
studiando.
3.3.
Non eludere
mai il problema del significato culturale di quanto si insegna
D'altra parte
questo approccio dinamico allo studio ha inoltre il pregio di far emergere nel
contesto della lezione un aspetto che molto spesso è del tutto negletto, quando
non è addirittura negato e conculcato. Intendo riferirmi al significato di quanto si studia.
Rispondere alle molteplici domande concernenti il significato di quanto è
insegnato e di quanto deve essere studiato consente infatti di affrontare un
problema che si radica al cuore non solo di un'autentica prassi educativa in
grado di formare compiutamente i discenti, ma anche della stessa ricerca posta in
essere dall'uomo nelle differenti fasi della sua riflessione. Solo chiarendo il
significato di ciò che è insegnato e di ciò che deve essere studiato si
consente al discente di comprendere, nel miglior modo possibile, il valore, il
limite e l'importanza di quanto è preso in diretta considerazione
dall'insegnamento scolastico. In caso contrario, se non si affronta con
precisione il problema del significato di quanto deve essere studiato, si
vanificano le premesse più valide per incrementare un autonomo sapere critico
da parte del discente. In assenza di un chiarimento del significato di quanto
insegnato lo studio non può che trasformarsi in un apprendimento mnemonico, del
tutto ininfluente sulla vita e la cultura del discente. In questo senso
specifico la scuola si trasforma in una realtà sempre più separata dal mondo
della prassi del discente, configurandosi, paradossalmente, come una dimensione
priva di significato che può essere studiata e appresa solo dogmaticamente, per
via prevalentemente mnemonica. Quanto spesso si sente dichiarare da alcuni
studenti che il significato di quanto studiano sfugge loro? E allora lo
studente, privato di un'autentica comprensione critica di quanto sta
affrontando, si riduce necessariamente a studiare un determinato argomento in
un modo affatto peculiare e culturalmente deleterio. Infatti in questo caso lo
studente, pur dichiarando apertamente di non comprendere bene quanto sta
studiando, si trincera poi nel più chiuso dogmatismo, dicendo che comunque
occorre studiare quel dato argomento in quel particolare modo specifico perché così è richiesto dal docente. Questo
atteggiamento dogmatico e del tutto anti-culturale si traduce poi nel consueto
consiglio che gli studenti si scambiano tra di loro onde garantirsi un esito
scolastico positivo: «tu di in questo modo perché è questo che il prof.
desidera sentire». In tal modo non si incrementa alcuno spirito critico, ma
l'insegnamento si trasforma, al contrario, nel perenne rinnovamento di un
dogmatismo acritico e acefalo in cui alla comprensione dei differenti problemi
affrontati dallo spirito umano nel corso della sua storia, si sostituisce il
modello dogmatico dell'ipse dixit,
mediante il quale l'insegnamento scolastico si trasforma nella più radicale
negazione della cultura e del sapere, creando le più vere premesse per la
costruzione di un luogo in cui la noia trionfa sovranamente.
3. 4.
Dal mondo
della prassi alla koiné: la scuola quale dinamico laboratorio seminariale
interdisciplinare
In quarto luogo, onde combattere alla radice il male
della noia, occorre invertire il tradizionale approccio in base al quale la
scuola affronta i differenti saperi disciplinari. Non basta infatti prendere le
mosse dai problemi aperti affrontati dall'umanità nel corso della sua
evoluzione, né è sufficiente incrementare uno studio storico-critico dei
problemi, diffondendo uno studio dinamico, capace di chiarire il preciso
significato delle questioni affrontate. Queste interessanti e invero decisive
mosse didattiche possono infatti produrre i migliori frutti educativi se
l'insegnamento medio ha anche la virtù di saper agganciare il proprio oggetto
di studio al mondo della vita e della riflessione degli studenti. Questo
obiettivo è certamente difficile e ambizioso, perché bisogna essere in grado di
conseguirlo senza perdere peraltro di vista il compito autenticamente
“educativo” dell'insegnamento scolastico, quello in virtù del quale si forma
appunto il discente, ponendolo in condizione di staccarsi criticamente dal quel
mondo consuetudinario nel quale si è formato e pur sempre vive. Anzi, a ben
considerare il problema in tutta la sua radicalità, proprio questa quarta
dimensione costituisce l'aspetto veramente decisivo e strategicamente costitutivo dell'insegnamento
scolastico: come e-ducare un giovane consentendogli di penetrare criticamente
nel mondo della cultura?
Per risolvere questo non facile problema può essere
interessante prendere le mosse dagli stessi problemi che il discente avverte
nella sua concreta vita quotidiana, onde poi fargli percepire tutto il
significato e il valore che può essere attribuito alle diverse e conflittuali
risposte che, a quegli stessi problemi, fornisce, in tutta la sua
articolazione, il mondo della cultura umana. Si tratta certamente di
un'operazione assai ardua in cui si manifesta tutta la maestria del docente.
Quest'ultimo deve infatti evitare due scogli che rischiano di far naufragare
miseramente il suo progetto didattico-educativo: quello di impantanarsi in
quello stesso mondo della prassi che già egemonizza e domina la vita quotidiana
dello studente e quello, opposto ma speculare, di infrangersi contro una
dimensione culturale aulica e feconda che, tuttavia, non è in grado di parlare
al discente immerso e quasi soffocato dalla sua concreta ed effettiva
dimensione della vita quotidiana, dalla quale, tuttavia, deve comunque trarre
quell'energia vitale con cui animare il suo stesso studio. Nel superare
criticamente questo duplice e non facile ostacolo si dipana l'efficacia della
lezione educativa posta in essere dal mondo scolastico che deve essere in grado
di ricollegarsi direttamente ai problemi connessi con la vita dello studente
per approfondirli e superarli criticamente, dando infine la possibilità al
discente di recuperarli e di trasvalutarli su un piano culturale decisamente
superiore e diverso, più ampio e comprensivo, ma tale anche da consentirgli di
tornare poi a quella stessa dimensione del mondo della prassi con nuova e
rinnovata forza. Ma l'operazione è delicata soprattutto nella misura in cui la
conquista di una superiore consapevolezza critica deve essere conseguita senza
tuttavia perdere la forza vitale e la concretezza che pure è intimamente
connessa con il mondo della prassi entro il quale lo studente svolge
quotidianamente la sua vita.
3.5
L'insegnamento
e il ruolo dell'eros
Un tramite
importante, ed invero decisivo, per superare questo iato può essere individuato
nella stessa funzione svolta dal docente. Infatti, come già ha rilevato
Platone, la componente più importante, per qualunque insegnamento, si radica
nell'opera posta in essere dal docente e, in particolare, dal rapporto erotico che il docente sa instaurare con
l'oggetto del suo intervento educativo[7]. Anche questa peculiare dimensione erotica dell'insegnamento è
sistematicamente rimossa e conculcata dalle tradizionali trattazioni
concernenti il mondo della scuola. Eppure questo aspetto costituisce invece
oggetto di senso comune per chiunque abbia mai insegnato in una classe:
qualunque studente, anche quello più disattento e svogliato, percepisce
infatti, immediatamente, se il docente ama oppure non ama quanto sta
insegnando. L'amore sincero che il docente prova nei confronti di quanto
insegna possiede una virtù potente e aggiuntiva perché è immediatamente in
grado di contagiare attivamente l'orizzonte degli stessi discenti. E contagia
significativamente questo orizzonte perché la dimensione erotica presenta
molteplici aspetti che coinvolgono lo studente nel suo rapporto diretto con il
docente e con quanto viene insegnato. Il rapporto d'amore e di sincero e
profondo interessamento provato da un docente per l'oggetto del proprio
insegnamento si trasforma così in un volano educativo di primaria importanza,
mediante il quale lo studio di un argomento, di un problema o di una
determinata situazione si trasforma in un'occasione di confronto tra persone e
di comune crescita, entro il quale il docente viene percepito come una guida
critica che aiuta il discente ad approfondire un tema o un problema che, in
realtà, giace al cuore della loro stessa esistenza. Docente e discente sono
così sovrastati e quasi superati da una comune dimensione - quella culturale
della meta-riflessione - che richiede ad entrambi di trasformarsi in viator, in studenti, appunto, perché lo
studio coincide con al ricerca e la volontà di approfondire continuamente la
conoscenza. In questa precisa prospettiva si attua allora il “miracolo”
dell'educazione che deve appunto essere in grado di accendere un fuoco critico
nel rapporto tra le differenti generazioni (non solo tra quella del docente e i
suoi studenti diretti, ma anche in quello che connette, più in generale, gli
studenti a tutte le precedenti generazioni umane che hanno affrontato e
dibattuto molteplici problemi). Questo “fuoco critico” costituisce l'autentico punto archimedeo dell'educazione
mediante il quale lo studio si trasforma da mera acquisizione acritica e
passiva - producente quella noia da cui abbiamo preso le mosse - in un cammino
personale di dialogo e di confronto, entro il quale il discente è posto nella
migliore condizione per comprendere sia il significato dei differenti problemi,
sia il carattere specifico della sua stessa esistenza che si è configurata
all'interno di una determinata società storica. Solo se si vince questa sfida -
che costituisce, in ultima analisi, una sfida autenticamente culturale - è
legittimo sperare che la scuola possa infine sconfiggere la noia per ritornare
ad essere quel luogo di crescita personale in virtù del quale ciascun individuo
è posto nella condizione di poter conquistare una sua autonomia critica
specifica per affrontare poi il mondo contemporaneo, vasto e terribile. Sempre
in questa ottica si devono poi inserire anche tutte quelle tecniche didattiche
- come quelle favorevoli ad una scuola attiva o ad una scuola-laboratorio, per mezzo
delle quali il discente è sempre più direttamente coinvolto in modo personale
ed autonomo alla costruzione del suo stesso processo di auto-liberazione
critica e di auto-formazione personale. Ma anche in questi casi, tutte queste
pur feconde ed interessanti tecniche didattiche - che nel mondo contemporaneo
devono essere ripensate anche per mettere in grado la scuola di interagire
liberamente con tutti quegli strumenti tecnologici (computer, chat, internet,
sms, videoclip, cd-rom, fumetti etc. etc.) che gli studenti prediligono -
possono esplicare una loro effettiva funzione educativa solo se vengono
ricondotti entro quell'articolato orizzonte problematico che si è
precedentemente richiamato.
4.
Insegnare a
filosofare
Nel quadro generale attinente la scuola, delineato nel
precedente paragrafo, come inserire l'insegnamento della filosofia? Se si
risponde a questa domanda prendendo le mosse dalla concreta ed effettiva prassi didattica posta in atto nella
scuola italiana, di primo acchito non si può che rimanere assai stupiti nel
dover constatare come, nel corso dei differenti e molteplici decenni (che ormai
concernono anche più di un secolo), l'insegnamento della filosofia abbia
conseguito, complessivamente, un risultato alquanto singolare e veramente paradossale:
quello di aver sistematicamente messo fuori gioco e variamente ostacolato,
quando non ha addirittura soffocato sul nascere, la capacità di pensare filosoficamente da parte dei
discenti. In altri termini si può rilevare come in Italia l'insegnamento della
filosofia abbia variamente conseguito, pur nelle diverse e contrastanti
temperie storiche vissute dalla nostra scuola e pur con delle nobili eccezioni
che non vanno trascurate, questo risultato complessivo assai curioso, ma
alquanto deludente: di aver variamente ostacolato nei discenti la nascita di
un'autentica capacità critica ed autonoma di saper pensare filosoficamente al proprio mondo, alla propria vita e, più
in generale, a tutte le svariate e contrastanti possibilità che si
configuravano nel loro orizzonte futuro.
Perché mai
l'insegnamento della filosofia ha conseguito un risultato filosoficamente così
devastante e negativo? In ultima analisi perché le varie e pur conflittuali
generazioni di docenti di filosofia hanno invariabilmente cercato, appunto, di
insegnare la “filosofia”, come se quest'ultima costituisse una materia come
tutte le altre discipline. Per la verità si è già accennato al fatto, assai
rilevante, come anche tutte le altre “discipline” non-filosofiche dovrebbero
essere invero sempre insegnate partendo non tanto dalle varie risposte
codificatesi e stratificatesi nel corso storico della ricerca umana, bensì
prendendo le mosse soprattutto dai problemi aperti cui si è variamente cercato
di rispondere positivamente nel corso della storia del pensiero umano. Ma
tant'è, questo atteggiamento aperto, critico e problematico è stato
sistematicamente rimosso non solo nei confronti di tutte le materie, ma anche
nei confronti di una disciplina molto più “anfibia” e problematica come la stessa
filosofia. Se la pratica ormai millenaria della riflessione filosofica insegna
costantemente come la filosofia sia forse la sola disciplina a essere
costantemente problema a se stessa,
ebbene sembra proprio che questo decisivo aspetto della ricerca filosofica sia
stato invece sistematicamente rimosso dalle differenti generazioni di docenti
di filosofia. Né vale rilevare come questi ultimi siano stati, appunto, per lo
più, non tanto “filosofi” di professione, quanto “docenti di filosofia”,
perché, semmai, si dovrebbe invece rilevare come quell'opera di sistematica
“ipostatizzazione” reificante cui la scuola sottopone, in modo pressoché
invariabile, le diverse discipline e i più vari problemi, abbia finito per
esercitare una sua specifica tirannia culturale anche nei confronti di una
“materia” assai problematica, critica, fluida, tipicamente mercuriale e
difficilmente inquadrabile in una sola ed esaustiva formula o definizione come
la stessa filosofia.
Questa pressoché
sistematica reificazione della filosofia è stata operata proprio nei confronti
di una disciplina che, per suo intrinseco statuto epistemico, sembra rifiutare
nettamente ogni procusteo letto di contenzione concettuale. In questo caso,
però, il problema dello statuto della disciplina è stato fatto immediatamente
slittare in quello dei differenti e contrastanti contenuti di pensiero
elaborati da questo o quel pensatore storico, col risultato di incrementare - a
livello civile diffuso (sia pur con riferimento esclusivo ai discenti “elitari”
della scuole secondarie superiori liceali o ex-magistrali) - la tradizionale,
per quanto assai fuorviante, immagine ciceroniana della filosofia quale
prodotto di menti più o meno alterate, alienate o pazze. In ogni caso, salvo
rare eccezioni, dovute, per lo più, alla presenza illuminata di questo o quello
specifico e particolare docente di filosofia, il quadro storico-istituzionale
complessivo concernente l'insegnamento di questa disciplina non può che
configurarsi, complessivamente, come alquanto problematico[8].
Precedentemente
alla riforma gentiliana l'insegnamento filosofico si svolgeva secondo la
classica, e assai tradizionale, scansione di Logica, Metafisica ed Etica, entro la quale, inevitabilmente,
una particolare impostazione teorica finiva naturalmente per imporsi come
chiave di volta esaustiva dell'insegnamento filosofico secondario. Anche in
questo caso a spese dirette, in ultima analisi, della stessa problematicità
filosofica, vanificando, complessivamente, l'obiettivo di insegnare a
filosofare ai discenti. Né, da questo punto di vista, strettamente filosofico,
le cose cambiarono poi molto con la riforma gentiliana la quale riuscì
certamente ad introdurre un più serio e approfondito studio storico del
pensiero filosofico, ma non poteva, né voleva, impedire la manifestazione
didattica di una particolare inclinazione teorica da parte del docente, né,
tantomeno, riusciva mai a porsi, programmaticamente, la questione
dell'insegnabilità del filosofare. In
ogni caso la riforma gentiliana, puntando più decisamente sullo studio della
storia del pensiero filosofico, aveva comunque messo in evidenza primaria
l'esigenza di uno disamina diretto dei testi dei filosofi, il che avrebbe
certamente favorito un insegnamento più critico della stessa riflessione filosofica.
Ma, anche in questo caso, la concreta prassi didattica seguita, a partire dagli
anni Venti fino ad oggi, dai docenti di filosofia ha infine avuto ragione degli
stessi intenti filosofici della
riforma gentiliana. Gentile intendeva infatti promuovere una lettura diretta dei classici del pensiero, vale
a dire di quei testi in cui il filosofato
si manifesta più manifestamente alla mente e all'intelligenza del discente,
favorendo così un fecondo contatto tra il giovane lettore e il classico (il
quale ultimo è tale proprio perché possiede l'invidiabile capacità critica e
teorica di parlare creativamente a più e diverse generazioni). Di contro, la
prassi scolastica finì, invece, progressivamente, per rimuovere completamente
la lettura diretta del testo filosofico, che venne sempre più sostituita da
un'esposizione storico-manualistica della storia della filosofia. Col
risultato, inevitabile, che allora il testo di riferimento primario, per molte
generazioni di studenti, non fu più la pagina del classico di filosofia, ma fu,
invece, la riesposizione manualistica ed estrinseca dei differenti “sistemi
filosofici”, così come si trovava definita sulle pagine di questo o quel
manuale scolastico. Si studiava così la filosofia abbandonandosi, per lo più,
ad una mera carrellata storica dei differenti sistemi filosofici, impedendo un
serio contatto diretto e fecondo tra il discente e i testi classici dei vari
pensatori. Con il risultato, altrettanto inevitabile, che la filosofia veniva
spesso associata, nella mente degli studenti, ad una mera “filastrocca di
opinioni”, più o meno strampalate e più o meno plausibili, il cui significato
storico, culturale e concettuale finiva, sistematicamente, per sfuggire
completamente al discente meno avvertito criticamente (vale a dire ai più).
Studente il quale ultimo, anche se animato da serio interesse di studio, poteva
comunque solo rifarsi alle varie “rimasticature” scolastiche del pensiero dei
classici presenti nei differenti manuali di storia della filosofia. In tal modo
la concreta prassi dell'insegnamento della filosofia aveva finito per aver
ragione anche nei confronti della riforma scolastica voluta da un filosofo di
indubbio spessore come Gentile, col risultato che solo a partire dagli anni
Ottanta, con la progressiva utilizzazione dei programmi Brocca si è infine
attuato un nuovo processo complessivo, grazie al quale si è progressivamente
dilatata l'esigenza di porre i discenti a contatto diretto con i testi dei
filosofi, secondo quanto era stato affermato all'inizio del secolo da Gentile.
Tant'è: solo negli anni Ottanta la prassi scolastica quotidiana inizia infine a
recepire lentamente questa esigenza, nel momento stesso in cui anche la natura
e il taglio dei manuali scolastici di filosofia inizia a modificarsi
profondamente. Durante tutti i decenni precedenti i manuali di filosofia per le
scuole erano stati scritti e predisposti, per lo più, dai docenti universitari.
A partire dagli anni Ottanta e Novanta finiscono invece per imporsi alcuni
manuali scritti direttamente dai docenti liceali e non è forse un caso come
proprio in questi manuali si inizi a dar spazio sempre più maggiore alla
lettura diretta dei testi dei filosofi, col risultato, abbastanza paradossale,
che in pochi anni questi manuali si trasformano in vere e proprie “bibbie” e
“messali” di mole più o meno vasta, con un incremento della propria
voluminosità che risulta essere, singolarmente, in proporzione direttamente
inversa all'involuzione complessiva che la scuola italiana inizia sempre più a
vivere proprio negli ultimi decenni del XX secolo.
Nel quadro di
questo cenno forzatamente sintetico non può comunque essere infine dimenticato
come il forzato e del tutto arbitrario abbinamento dell'insegnamento della
filosofia con quello della storia - voluto e consapevolmente perpetrato da
Gentile in profonda sintonia con l'insegnamento filosofico e teorico del
neoidealismo italiano d'inizio secolo - abbia generato, per suo conto,
molteplici altri problemi, di non minore gravità culturale e didattica. Il
principale dei quali può essere individuato nell'idea neohegeliana di abbinare
strettamente l'insegnamento della filosofia alle sole discipline umanistiche,
dimenticando come il profondo e storico nesso della riflessione filosofica col
pensiero scientifico (e con i problemi della conoscenza) aveva invece
rappresentato costantemente un indubbio punto di forza della pratica teorica di
pressoché tutta la filosofia occidentale. Ma tant'é: anche questa arbitraria e
impoverente scissione, del tutto anticulturale, tra scienza e filosofia
contribuì non poco a diffondere la consolidata abitudine a non-filosofare
(riducendo spesso l'insegnamento della filosofia ad un mero esercizio di
memoria), trasformando, al contempo, anche le stesse conoscenze scientifiche in
autentici dogmi, rispetto ai quali non sarebbe stato possibile operare né
alcuna particolare interrogazione critica, né alcuna indagine finalizzata a
chiarirne il significato culturale.
Proprio entro questo inquietante quadro specifico, che si
è qui sinteticamente richiamato, l'insegnamento finalizzato ad abituare i
discenti a filosofare è stato così posto, sistematicamente, in non cale e la filosofia, diventata una
disciplina come tutte le altre, è stata spesso insegnata svuotandola di ogni
autentico significato culturale, riducendola, appunto, ad una filastrocca di
opinioni, prive di senso e di ogni effettivo contenuto culturale. Donde la
diffusa affermazione della “difficoltà” e dell'“inutilità” della filosofia -
spesso denunciata dagli ex-studenti che, anche a distanza di anni dai loro
studi secondari, dichiarano ancora di non aver mai ben compreso la natura, il
ruolo e la funzione culturale e teorica della filosofia. Non per nulla intere
generazioni di ex-studenti secondari confessano apertamente di aver spesso
“superato” l'insegnamento della filosofia essendosi limitati a studiare
mnemonicamente quanto non riuscivano neppure a comprendere, limitandosi così a
ripetere, pappagallescamente, quanto richiesto da un docente che spesso non si
rendeva neppure conto di uccidere sistematicamente la propria “disciplina”[9]. Questo esito complessivo, alquanto
fallimentare, appare tanto più clamoroso e paradossale soprattutto se si pensa che non sono certamente le pur
valide e innegabili eccezioni a questo quadro a modificarne il complessivo
valore negativo, sia a livello culturale, sia a livello sociale. Ma, in ogni
caso, l'esito è comunque tanto più singolare e veramente bizzarro soprattutto
se si pensa che il nostro paese presenta, comunque, un insegnamento medio della
filosofia che risulta essere tra i più significativi rispetto a quelli ancor oggi previsti, in media, negli altri
paesi occidentali.
Ma tale esito negativo risulta ancor più peculiare anche
se si tiene presente come nella riflessione di alcuni tra i più eminenti
filosofi della tradizione occidentale non erano peraltro mancate delle puntuali
e assai pertinenti indicazioni finalizzate a ben chiarire come l'insegnamento
della filosofia non potesse mai configurarsi che come un serio avviamento alla
capacità di filosofare. In particolare,
come è ben noto, Immanuel Kant, in una delle sue opere principali, la celebre Critica della ragione pura, aveva
insistito nel mettere in tutta evidenza come
«il sistema di ogni conoscenza filosofica, orbene, si dice f i l o s o f i
a. E' necessario considerarla oggettivamente, se per filosofia si vuole
intendere quel modello per valutare tutti i tentativi di filosofare, che debba
servire per giudicare ogni filosofia soggettiva, la cui costruzione è spesso
così varia e mutevole. A questo modo, la filosofia è una semplice idea di una
scienza possibile, mai data in concreto, alla quale tuttavia cerchiamo di
avvicinarci per molte strade, sintanto che non venga scoperto l'unico sentiero,
quasi cancellato dalla sensibilità, e sintanto che non ci riesca, per quanto è
concesso agli uomini, di rendere la copia - sinora difettosa - uguale al
modello. Sino a quel momento, non potremo imparare alcuna filosofia: in
effetti, dov'è essa, chi mai la possiede, e da che cosa si può riconoscere? Si può soltanto imparare a filosofare,
ossia si può soltanto esercitare il
talento della ragione, applicando i suoi principî universali a certi
esperimenti dati, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di
indagare quei principî seguendoli sino alle loro fonti, per confermali o
rifiutarli»[10].
Alla luce di queste precise (e preziose) indicazioni
kantiane l'insegnamento della filosofia si dovrebbe conseguentemente
configurare come l'educazione costante all'uso del talento critico della ragione. Per questo motivo non si può mai
insegnare la filosofia (disciplina che nella sua dimensione “oggettiva”,
appunto quale sapere filosofico dato e codificato una volta per tutte, non
esiste neppure, né può mai esistere in tale forma, che, tra l'altro, finirebbe
per tradire e conculcare la sua stessa natura epistemica più profonda), ma si
può e si deve invece insegnare a
filosofare, abituando cioè il discente a sviluppare il suo proprio talento
critico della ragione, ponendolo in grado, infine, di riflettere criticamente,
liberamente ed autonomamente sui più diversi problemi rispetto ai quali vuole
poi esercitare la sua autonoma riflessione critica. Ma proprio questo
obiettivo, come si è visto, è stato sistematicamente rimosso e mancato dal
pluridecennale insegnamento della filosofia nelle scuole italiane. Pertanto se
si decide di far proprio il programma culturale lumeggiato da Kant occorre
essere ben consapevoli dell'autentico ribaltamento copernicano che si finirà
per attuare nell'ambito della trasmissione secondaria della filosofia. In
questa prospettiva, infatti, l'insegnamento della filosofia si trasformerà in
un progetto finalizzato ad educare il discente all'uso critico dei suoi talenti razionali. Si potrà così rimuovere e
distruggere ogni trasmissione meramente mnemonica della filosofia per
comunicare, formare ed educare, invece, il gusto per una riflessione filosofica
libera e critica, mediante la quale il discente sia infine messo, sempre più,
in condizione di filosofare, cioè di riflettere liberamenbte sulle questioni
che lo appassionano e gli interessano.
Ma, si potrebbe
allora obiettare, questa impostazione mira forse a trasformare necessariamente
tutti i dicenti in “mini-filosofi”? Si e
no! No, decisamente no, se si pensa ingenuamente di voler necessariamente
trasformare uno studente in un filosofo nel senso pieno e compiuto del termine,
vale a dire in un pensatore che consacra la sua intera esistenza allo studio
filosofico. Solo un folle potrebbe perseguire tale improbabile disegno sociale. Si, invece, se si immagina di trasformare lo
studente - come del resto dovrebbe accadere per ogni cittadino di una
repubblica democratica degna di questo nome - in un “giovane pensatore”, vale a
dire in un giovane cittadino che non vuole mai rinunciare ad esercitare i
talenti della sua propria ragione su gli argomenti più diversi e disparati. In
questo caso l'insegnamento della filosofia dovrebbe allora porsi coerentemente
l'obiettivo civile e culturale di favorire la formazione, all'interno delle
singole classi, di “giovani pensatori”, vale a dire di giovani capaci di
riflettere criticamente non solo su quanto studiano a scuola, ma su tutto
quanto concerne la loro esistenza[11].
Non può sfuggire
come proprio la formazione e l'educazione di questi “giovani pensatori”
contribuisca non solo a formare cittadini consapevoli di una repubblica
democratica veramente degna di questo nome, ma aiuti immediatamente a colmare
quel grave iato tra scuola e società che precedentemente si è denunciato come
uno dei mali più gravi della scuola contemporanea, tale da ingenerare,
invariabilmente, una grave perdita di tempo e una noia mortale tra i discenti
delle varie scuole. L'esercizio dei talenti della propria ragione deve infatti
indurre a reimpostare lo stesso studio del pensiero filosofico, ribaltando i
tradizionali e logori termini di riferimento. Se in genere la considerazione
storica del pensiero filosofico ha finito per incrementare uno studio passivo e
spesso mnemonico delle riflessioni dei vari filosofi del passato, al contrario
uno studio incentrato sull'incremento dell'uso dei talenti della ragione dei
discenti non può invece che ribaltare questo rapporto, inducendo il giovane
studente (e lo stesso docente) ad interrogare i testi filosofici del passato
per indagare le concrete modalità concettuali con le quali i diversi pensatori,
nel loro tempo storico, hanno variamente affrontato ed eventualmente risolto
alcuni problemi decisivi dell'esistenza umana o del patrimonio conoscitivo del
loro tempo. In questa nuova chiave critica il pensiero del filosofo viene
allora studiato e considerato criticamente come un tentativo eminente per
riformulare un determinato problema. Non solo: nella voce del filosofo - nel
suo filosofato, vale a dire nel suo
testo - si cercherà così un valido e fecondo interlocutore per la propria
autonoma riflessione critica. Socrate, Platone, Aristotele, Democrito, Tommaso,
Scoto Eriugena, Nicola d'Autrecourt, Galileo, Descartes, Leibniz, Hobbes,
Spinoza, Newton etc. etc., per non fare che pochissimi ma eminenti nomi,
saranno insomma studiati ed indagati per confrontarsi criticamente con il loro
modo di ragionare, per considerare più direttamente la loro riflessione e il
loro stesso mondo concettuale, onde ricavare indicazioni, spunti, problemi,
suggerimenti e interrogativi per meglio sviluppare una nuova, autonoma e
critica riflessione filosofica. In tal modo l'educazione all'uso dei talenti
della propria ragione permetterà di diffondere un nuovo gusto al filosofare che non vuol tanto mirare
alla formazione di tanti piccoli filosofi in erba, ma vuole invece restituire a
tutti i giovani cittadini il gusto di ragionare con la loro testa sui loro
problemi, evadendo dalla dogmatica tirannia del senso comune, della tradizione
e da tutte quelle altre forme diversificate di alienazione mentale (più o meno
delinquenziali) con le quali la nostra società soffoca sistematicamente ogni
pensiero critico indipendente, per diffondere un'omologazione reificante di
massa che incrementa solo l'indifferentismo dei più, nonché la loro eteronomia
sociale.
In questa
prospettiva il kantiano (ed oraziano!) sapere
aude non può non trasformarsi nel motto di questo insegnamento critico
della filosofia il quale non può che contrastare tutte le pur differenti
posizioni pregiudizialmente dogmatiche, per incrementare, al contrario, la
diffusione di un diverso abito critico, in virtù del quale il giovane è
costantemente educato ad usare i talenti della propria ragione per riflettere
criticamente su qualunque problema, onde trasformarsi in autonomo “condottiero”
della sua propria esistenza[12]. Se Kant definiva, con formula più che
felice, l'illuminismo come l'autoliberazione
dell'uomo dalla stato di minorità intellettuale volontaria, l'insegnamento
critico della filosofica non può non coincidere con questo invito permanente a
ragionare criticamente, in modo libero ed autonomo. Già Kant ai suoi tempi
lamentava come il militare non volesse incrementare l'uso critico della ragione
presso i suoi soldati, perché reclamava, al contrario, ubbidienza cieca e
pronta ai suoi ordini; analogamente l'uomo di chiesa combatteva anche lui
apertamente la ragione critica, appellandosi all'autorità della fede religiosa,
condividendo, in tal modo, un atteggiamento del tutto analogo a quello
auspicato dal funzionario delle finanze il quale desidera soprattutto che il
cittadino paghi tempestivamente le tasse, senza mai ragionare su ciò che deve
pagare[13]. Contro questi tre modelli dogmatici
ed autoritari, che reclamano, invariabilmente, ubbidienza ed eteronomia, Kant
invita ed auspica, per dirla con Foucault, l'«indocilità ragionata» o la «disubbidienza
motivata», mediante la quale il cittadino, autonomo e responsabile, è
invitato ad esercitare costantemente i talenti della sua propria autonoma
ragione critica, perché solo ragionando con la propria testa una persona può
conseguire un'autonomia critica degna della sua stessa libera soggettività. In
che cosa consiste infatti la criticità che esercitiamo e tuteliamo tramite
l'applicazione dei talenti della nostra ragione? Ancora una volta con Foucault
possiamo affermare che la critica coincide, in ultima istanza, con la capacità
e l'arte di «non essere eccessivamente governati»[14]. I tutori dell'ordine, dello stato e
della religione vorrebbero invariabilmente guidarci con le sicure dande dei
loro ordini e delle loro decisioni, mentre solo l'uso critico dei talenti della
nostra ragione ci consente di camminare, liberi ed eretti, entro un mondo
complesso nel quale la tradizionale voglia di comandare e controllare
contraddistingue, invariabilmente e sempre negativamente, i diversi “tutori”
storici dell'umanità. Esattamente contro questi dispotici tutori del nostro
bene e della nostra felicità il sapere
aude kantiano suona come il motto di un atteggiamento critico che reclama
la diffusione di un nuovo atteggiamento civile e culturale, in grado di
tutelare la nostra libertà e la nostra libera realizzazione vitale.
4. La scuola come
laboratorio seminariale e l'insegnamento della filosofia con metodo
erotematico-dialogico
Affrontando il complesso problema dei differenti metodi
nel quadro dell'incremento della perfezione della conoscenza, da conseguirsi
attraverso la divisione logica dei concetti, Kant, nella sua Logica, ha precisato come
«un metodo è acroamatico quando
qualcuno insegna solamente, erotematico
quando interroga anche. Il secondo può venir diviso a sua volta in dialogico o socratico e in catechetico
a secondo che le domande siano rivolte all'intelletto
oppure soltanto alla memoria»[15].
Quale metodo è dunque meglio seguire per insegnare a filosofare?
Per rispondere a questa domanda non si può naturalmente
prescindere da una considerazione più ampia ed articolata, concernente, più
direttamente, il tipo di scuola nella quale si vuole operare. Se si condivide
l'orizzonte problematico brevemente accennato nel precedente § 4 è allora
difficile negare come la scuola che si dovrebbe auspicare e costruire dovrebbe
assumere l'aspetto, in primo luogo, di un autentico laboratorio seminariale
interdisciplinare, intendendo il lavoro da svolgersi a contatto diretto con
i discenti come una sorta di seminario aperto, in cui l'insegnamento
acroamatico, per dirla con Kant, deve progressivamente lasciare il posto e
integrarsi in modo sempre più sistematico e diffuso con un insegnamento
erotematico, in grado di suscitare un dialogo effettivo tra docente e discente,
prendendo le mosse dal problema in discussione. Ma come poi organizzare
concretamente tale indirizzo di insegnamento? Naturalmente non esiste affatto
alcuna “via regia” per porre in essere questo orizzonte didattico-educativo,
tuttavia alcuni punti di riferimento
possono essere accennati. Se infatti si condivide l'obiettivo - ad un
tempo culturale e civile - di trasformare innovativamente l'insegnamento della
filosofia in un'occasione per far uso critico dei propri talenti occorre allora
riagganciare direttamente gli oggetti di riflessione proposti dalla scuola con
i problemi connessi direttamente con la vita della società e degli stessi
discenti. Si badi: questa connessione diretta non deve affatto mirare ad appiattire
la scuola sul piano del mondo della prassi. Tale opzione finirebbe infatti per
vanificare e distruggere l'azione stessa della scuola la quale non può mai
rinunciare alla propria vocazione autenticamente educativa, mediante la quale
deve appunto saper interagire criticamente con la vita quotidiana dello
studente onde formarlo come cittadino autonomo. Per questa ragione di fondo
occorre elaborare una diversa strategia culturale ed educativa, in virtù della
quale l'energia tipica del mondo della prassi, ampiamente presente nella vita
quotidiana del discente, venga opportunamente incanalata nell'ambito di un
autonomo e libero processo di crescita, culturale ed umana, tale da porre
infine in grado il discente di muoversi liberamente e, appunto, criticamente -
secondo le differenti opzioni axiologiche e civili che riterrà più consone alle
sue attitudini, alle sue scelte e alle sue stesse inclinazioni. Per compiere
questo aggancio critico tra la dimensione dello studio patrocinata dalla scuola
e il mondo della società non è però necessario voltare sdegnosamente le spalle
ai problemi che nascono nel concreto mondo della prassi. Al contrario, lo
studio può invece diventare un'occasione per approfondire criticamente proprio
quegli stessi problemi, trovando stimoli, preziose indicazioni e molti altri
spunti di riflessione strategicamente decisivi nella ricerca filosofica posta
in essere dai classici del pensiero.
In tal modo si
può avviare una riflessione che parta dai contributi dei classici del pensiero
per studiare collegialmente - attraverso una comune ed intelligente lettura
critica dei testi dei filosofi - alcuni problemi di fondo che pure inquietano e
travagliano l'esistenza quotidiana dei giovani studenti. Esattamente questa
strada è stata del resto seguita nell'interessante esperimento dei “giovani
pensatori” elaborato nel Salento, nell'anno scolastico 2003-04, dalla prof. ssa
Ada Fiore del Liceo “Capece” di Maglie, la quale ha voluto affrontare con i
suoi studenti quattro problemi emblematici e decisivi come quelli connessi alla
chiarificazione di concetti come l'amore,
la felicità, la morte e la libertà. Una
volta individuati questi quattro temi, che sollecitavano un interesse diretto
ed autonomo dei suoi studenti perché tali da coinvolgerli in prima persona
nella loro stessa esistenza quotidiana, si è studiato il modo specifico con cui
i filosofi dell'antichità - in questo caso in connessione diretta con i
programmi da svolgersi in una prima classe del Liceo classico - hanno
riflettuto, concepito, pensato ed eventualmente risolto questi temi. In tal
modo si è immediatamente favorito, di primo acchito, un rapporto diretto con i
testi dei filosofi dell'antichità, avendo inoltre per propria guida critica di
fondo l'esigenza di approfondire un gruppo di problemi reali e vivi che non
esistono unicamente nei testi dei pensatori dell'antichità, ma che si
incontrano anche quotidianamente nell'esistenza di un giovane del nostro tempo.
In questa
specifica chiave lo studio non appare più come l'approfondimento di un
argomento che non presenta più alcun riferimento fecondo al mondo del discente,
ma costituisce, all'opposto, una preziosa occasione per riflettere, con maggior
serietà e approfondimento sistematico, su un tema che coinvolge anche
l'esistenza quotidiana dello studente. Meglio ancora: lo studio e
l'approfondimento di questo rapporto tra il problema affrontato e le
considerazioni dei classici finiscono per aprire una feconda spirale critica,
un autentico “circolo ermeneutico” tra il discente e il testo classico preso in
diretta considerazione. Una spirale critica che coinvolge non solo lo studente,
ma anche lo stesso docente il quale, nel momento stesso in cui guida il
discente alla migliore comprensione critica del testo del classico, non può
tuttavia sottrarsi al problema indagato giacché amore, morte, libertà e
felicità costituiscono comunque dei temi ben presenti anche nell'esistenza e
nella riflessione quotidiana dello stesso docente, non solo del discente. Né
basta: in questa spiralità critica docente e discente sono ulteriormente
coinvolti in un comune dialogo, mediante il quale il classico non finisce mai
di comunicare ai suoi interlocutori critici - siano essi docenti o discenti - i
suoi suggerimenti e le sue risposte, secondo la sua più autentica natura di
“classico” che è tale, secondo la felice definizione di Calvino, perché,
appunto, «non ha mai finito di dire quel
che ha da dire»[16].
Ma l'approccio
erotematico dialogico permette anche di sviluppare un rapporto eminentemente
attivo con i problemi indagati e i testi presi in considerazione. Proprio
perché ciò che muove lo studio e la ricerca non è più la comprensione passiva -
meramente mnemonica di una determinata risposta - ma è, invece, l'elaborazione
personale di una riflessione che deve nascere dal confronto con il testo del
classico, dal dialogo con il docente, nonché dalla comune discussione che si
deve porre in essere tra gli stessi discenti. In tal modo l'utilizzazione del
metodo erotematico-dialogico costituisce occasione preziosa per stimolare i
discenti a pensare autonomamente al problema preso in diretta considerazione,
avvalendosi, peraltro, delle differenti e contrastanti risposte che al medesimo
problema possono essere sempre rintracciate nei diversi testi dei classici.
Anche perché così operando si riesce a comunicare allo studente l'idea che la
stessa cultura non nasce dalla mera ripetizione acritica di una determinata
risposta o di un determinato punto di vista, perché, al contrario, la cultura e
il sapere, nascono sempre dal dialogo, dal confronto e dalla discussione tra
tesi diverse quando non anche apertamente e decisamente conflittuali. Anzi: la
stessa ricerca culturale richiede costantemente l'integrazione critica tra
punti di vista diversi e anche opposti, apertamente conflittuali:
conseguentemente la libera dialettica che può eventualmente realizzarsi nella
discussione scaturita entro la lezione seminariale non può che giovare
all'insieme dei partecipanti, facendo loro meglio intendere i diversi aspetti
delle questioni affrontate. In questa prospettiva didattico-educativa la
conflittualità teorica non costituisce affatto un limite della comune ricerca
ma aiuta, invece, ad incrementarla in modo significativo perché favorisce la
percezione critica di nuovi aspetti, di nuovi problemi, di nuove prospettive e
abitua così ad una vera e propria “ginnastica” mentale collettiva ed
individuale, mediante la quale lo studente è sempre più invitato (ed educato) a
lavorare concettualmente con i diversi pensieri che incontra, con i problemi che
intende affrontare, rendendosi progressivamente conto di come anche le diverse
prospettiva indagate criticamente lo aiutino infine a liberarsi da molteplici
pregiudizi per restituirgli infine, in un discorso che resta sempre
problematicamente aperto, tutta la complessità di una determinata questione. Né
occorre aggiungere come una tale prassi critico-dialogica aiuti anche a formare
uno stile democratico in grado di
contagiare positivamente sia le scuole, sia la società.
In questa chiave
didattico-educativa lo studente dovrebbe insomma essere guidato dal docente ad incrementare costantemente i suoi problemi,
proprio perché lo studio della filosofia dovrebbe appunto trasmettere il gusto
perenne di voler sempre ampliare, piuttosto che restringere, il proprio
orizzonte prospettico. Non per nulla sempre Kant ha sottolineato come
«il sapere storico senza limiti determinati è polistorìa; essa rende superbi. La polimatìa riguarda la conoscenza razionale. L'una e l'altra
insieme, cioè il sapere storico e il sapere razionale estesi senza limiti
determinati, possono chiamarsi pansofìa.
Nel sapere storico rientra la scienza degli strumenti della erudizione: la filologia, che comprende in sé una
cognizione critica dei libri e delle lingue (letteratura e linguistica).
La mera polistorìa è un'erudizione ciclopica alla quale manca un occhio:
l'occhio della filosofia; un ciclope di matematico, storico, naturalista,
filologo e conoscitore delle lingue è un erudito che è grande i tutti questi
settori, ma che considera superflua ogni considerazione filosofica al riguardo»[17].
Al contrario un insegnamento filosofico consapevole può
solo abituare il discente all'uso critico dei suoi talenti e non può quindi
fare a meno di insegnare agli studenti, per
la vita, ad utilizzare sistematicamente l'occhio della filosofia. In fondo se si vuole veramente insegnare a filosofare occorre saper insegnare ai
propri studenti ad avvalersi, in tutte le circostanze della loro vita futura,
di questo “occhio della filosofia”, mediante il quale riusciranno comunque ad
avere un aiuto per approfondire la loro autonoma percezione critica di un
determinato problema. In caso contrario, a dispetto del loro stesso sapere
specialistico, rischieranno, invece, di acquisire ed incrementare sempre
un'erudizione ciclopica, costantemente monocola. Senza aggiungere come l'occhio
della filosofia incrementi la democrazia complessiva di una società, mentre la
sua assenza favorisce, inevitabilmente, la diffusione di stili autoritari,
fideistici e dogmatici.
6. L'«occhio della
filosofia» e il sapere scientifico
Nel favorire sistematicamente uno studio più teorico e
diretto dei singoli problemi che possono essere presi in considerazione a
scuola, non si vuole affatto intendere di dover sminuire il ruolo e la funzione
dello studio storico del pensiero filosofico. Tuttavia occorre anche avvertire,
claris verbis, come si tratti di
fornire, comunque, all'insegnamento della filosofia una diversa accentuazione.
Non si può infatti negare come l'approccio storico allo studio della filosofia
abbia finito, complessivamente, per compromettere seriamente (se non
sistematicamente) l'autonoma capacità degli studenti di saper utilizzare
liberamente i talenti della loro riflessione filosofica, trasformando spesso lo
studio della filosofia nello studio mnemonico dei differenti sistemi teorici.
Un approccio diretto ai problemi aperti dovrebbe invece essere in grado di
restituire il gusto e la capacità di sviluppare un'autonoma riflessione
critica, favorendo un incontro di pensiero e di riflessione con i testi dei
classici. Naturalmente non si può però pensare di presentare un testo di un
classico - come quelli di Platone, Democrito o Aristotele - come se fossero
testi di contemporanei. In questa prospettiva l'insegnante ha il compito e il dovere
specifico di aiutare i suoi discenti a saper leggere criticamente questi
differenti testi, ricollocandoli nella loro epoca storica e nel loro preciso
contesto storico-culturale: solo questa operazione potrà infatti aiutare il
discente a percepire esattamente il pensiero stesso dell'autore che intende
leggere e studiare. Ma per trovare un giusto e fecondo equilibrio tra il
doveroso approccio storico-critico ai testi e l'incremento di uno studio
espressamente finalizzato a far nascere in ogni discente l'«occhio filosofico»
e l'uso autonomo dei talenti della propria ragione non andrà allora trascurato
lo studio, strategicamente decisivo, della conoscenza umana. Per dirla ancora,
e nuovamente, con Kant
«la cognizione della propria ignoranza presuppone dunque la scienza e rende
al contempo modesti, mentre invece il presunto sapere rende superbi. Così il
non-sapere di Socrate era un'ignoranza degna di lode: propriamente, per sua
stessa confessione, un sapere del non-sapere. Pertanto, coloro che posseggono moltissime
cognizioni e che purtuttavia si stupiscono della quantità di cose che non sanno
non possono venire rimproverati d'ignoranza.
Non
biasimevole (inculpabilis) è in
genere l'ignoranza in cose la cui conoscenza va al di sopra del nostro orizzonte; e lecita (sebbene solo in senso relativo) può esserlo in riferimento
all'uso speculativo delle nostre facoltà conoscitive, nella misura in cui gli
oggetti si trovano qui non - è vero - al
di sopra, ma tuttavia al di fuori
del nostro orizzonte. Vergognosa è però
l'ignoranza in cose che ci è molto necessario e anche facile sapere».
Storicamente il pensiero filosofico si è sempre
strettamente intrecciato con i problemi della conoscenza, conseguentemente
nell'impostare l'insegnamento della filosofia sarà particolarmente fecondo ed
interessante prendere le mosse da una considerazione di molti problemi connessi
con la conoscenza umana. In questa prospettiva il riferimento kantiano che si è
testé richiamato rinvia, a sua volta, alla celebre ignoranza socratica e al suo
sapere di non-sapere, secondo una metodica critica che occorre riprendere onde
metterla in diretta connessione con il patrimonio tecnico-scientifico. In
questo caso la didattica della filosofia finalizzata a trasmettere un «occhio
filosofico» non può che giovarsi, nuovamente, di un approccio strettamente
interconnesso con lo studio della storia della scienza che aiuta potentemente a
riconsiderare i termini storici e concettuali esatti delle specifiche modalità
con cui un determinato problema conoscitivo si è configurato all'interno di una
specifica tradizione concettuale in un determinato momento storico, a contatto
con un particolare patrimonio tecnico-scientifico. Non solo: in questa
prospettiva l'auspicato laboratorio seminariale interdisciplinare non può non
realizzarsi attraverso la puntuale costruzione e la relativa programmazione di
specifici momenti di “compresenza” tra insegnanti di differenti discipline (in
particolare di quelle scientifiche: matematica, fisica, biologia, scienze
naturali, chimica etc.), abituando costantemente il discente a riflettere
criticamente anche in relazione alle differenti conoscenze scientifiche e alle
differenti soluzioni tecnologiche elaborate dall'uomo nel corso della sua
storia.
Sotto un certo
aspetto può forse sembrare molto più arduo attuare una tale connessione critica
tra la filosofia e la scienza, tuttavia, in questo caso, se si adotta un
approccio storico alla presentazione e alla discussione dei differenti
risultati conoscitivi, appare allora più agevole intrecciare lo studio delle
conoscenze scientifiche con la riflessione filosofica, proprio perché
attraverso l'asse storico si può recuperare più agevolmente il preciso
significato culturale delle differenti teorie scientifiche. Non solo: con
questo approccio si riesce anche a scardinare ogni arbitrario abbinamento tra
filosofia e storia recuperando quel fecondo orizzonte di integrazione critica
tra pensiero filosofico e pensiero scientifico che sempre ha accompagnato,
nella storia occidentale, lo studio e l'evoluzione della riflessione umana. Né
può essere taciuto come in questo caso la finalità didattica ed educativa volta
a trasmettere al discente l'«occhio della filosofia» si sposa, in modo alquanto
felice e fecondo, proprio con l'utilizzazione sistematica di un approccio
storico allo studio della scienza che finisce poi per favorire un'autonoma
riflessione critico-teorica ai differenti problemi presi in considerazione. In
questa chiave un tale approccio storico-critico, favorito dall'utilizzazione
sistematica della storia della scienza, costituisce allora il contributo più
valido per superare ogni astratta e fuorviante contrapposizione tra “metodo
storico” e “metodo teorico”, aiutando il discente a comprendere l'autentica
complessità del pensiero umano e la conseguente necessità di compiere ogni
sforzo per meglio intendere la natura e il significato del nostro stesso
pensiero.
Certamente può
sembrare più arduo trovare un filo diretto tra i problemi della conoscenza e il
mondo della prassi dello studente, tuttavia, a ben riflettere, questo filo
rosso può essere agevolmente rintracciato soprattutto se, seguendo il
suggerimento socratico puntualmente richiamato da Kant, si aiuta il discente ad
interrogarsi criticamente sui limiti e la natura della sua stessa conoscenza,
ponendo al contempo i suoi dubbi e le sue perplessità in relazione diretta con
i contenuti conoscitivi che il discente studia e apprende a scuola. Il che
permetterà, inoltre, di affrontare il problema del significato (ad un tempo
storico e culturale) degli stessi algoritmi tecnici che il discente apprende
nel corso del suo studio delle differenti materie scientifiche. Spesso, come
ben sa chi ha insegnato nelle classi della scuola secondaria, gli studenti
studiano e fanno loro tutti questi algoritmi senza riuscire a ben comprendere
il loro significato: imparano ad usarli, anche ad un notevole grado di rigore e
di difficoltà tecnica (si pensi per esempio all'insegnamento della matematica
in un liceo scientifico che raggiunge livelli ragguardevoli nello studio delle
funzioni), senza tuttavia riuscire a dominare completamente il preciso
significato teorico e culturale di questi stessi algoritmi. Anche in questo
caso siamo così rinviati ad un apprendimento tecnico che tuttavia finisce per
vanificare il significato di quegli stessi strumenti che lo studente deve pure
utilizzare sistematicamente. Un diverso insegnamento interdisciplinare e
seminariale, in cui la riflessione filosofica sia in grado di discutere
attivamente con i contenuti conoscitivi delle differenti discipline
scientifiche, può invece aiutare il discente ad impadronirsi criticamente di
quegli stessi strumenti tecnici che già utilizza in modo puramente algoritmico
e calcolistico-funzionale, senza tuttavia ben intenderne il valore e il preciso
significato. In questo caso è evidente che l'ignoranza trasmessa dalla scuola
nei confronti di questi strumenti algoritmici è assai biasimevole, anche se il
biasimo non può essere tanto rivolto contro lo studente, bensì contro la stessa
organizzazione degli studi che, articolandosi spesso in settori impermeabili ad
ogni serio confronto culturale interdisciplinare, impedisce poi al discente di
comprendere adeguatamente, ancora una volta, quanto sta studiando.
Naturalmente nel
porre in essere questo programma di studio capace di intrecciare
sistematicamente la riflessione filosofica con i problemi della conoscenza
scientifica (in senso lato) si possono conseguire differenti livelli di
consapevolezza, secondo modalità che non possono essere stabilite in astratto,
giacché bisogna sempre fare i conti, in concreto, con i discenti con i quali si
lavora, con i docenti con i quali si deve interagire e anche con il clima
complessivo del particolare indirizzo di studio della scuola in cui si opera
(per non parlare poi del territorio in cui si lavora). In ogni caso queste
diverse e sempre doverose mediazioni non sono comunque tali da intaccare il
senso complessivo di un progetto di dialogo culturale tra scienza e filosofia
che se attuato riesce comunque ad incrementare il sapere critico dei discenti,
facendo loro percepire tutto il fascino e l'attualità del modo in cui l'uomo si
interroga sull'enigma del mondo per trarne qualche eventuale “filo di verità”[18].
NOTE
[1] Fabio Minazzi, Insegnare a
filosofare, Barbieri, Manduria 2004, pp. 59-93
[2] Georg Simmel, L'educazione in quanto
vita (Schulpädagogik), a cura di Antonio Erbetta, trad. it. di Francesco
Cappellotti, il Segnalibro, Torino 1995, pp. 28-9, traduzione italiana
lievemente modificata.
[3] Karl Popper, La ricerca non ha fine.
Autobiografia intellettuale, seconda edizione interamente riveduta, trad.
it. di Dario Antiseri, Armando Armando Editore, Roma 1978, pp. 33-4.
[4] Non a caso, soprattutto nella scuola italiana contempranea, i docenti sono
sempre meno “intellettuali”, al punto che taluno (basterebbe pensare, per fare
un solo esempio, all'ex-ministro Berlinguer) voleva addirittura trasformarli in
meri e grigi “impiegati” acefali,
configurandoli, appunto, quali meri trasmettitori passivi di una sapere
prodotto da altri “saggi” (non per nulla la sua celebre commissione
mass-mediatica di “saggi” per la scuola, formata da cantanti, giornalisti,
docenti universitari, personaggi pubblici et
similia, non comprendeva, programmaticamente, alcun insegnante: per il
ministro un insegnante non poteva infatti né pensare, né, tanto meno, essere
“saggio”, doveva solo limitarsi ad essere un mero esecutore delle sue
illuminate riforme. Per fortuna proprio questo ministro ricevette in dono, dai
suoi dipendenti, uno dei più grandi scioperi mai organizzati dagli insegnanti
nella loro storia).
[5] Cfr. Georg Simmel, L'educazione in
quanto vita (Schulpädagogik), a cura di Antonio Erbetta, trad. it. di
Francesco Cappellotti, il Segnalibro, Torino 1995: «l'insegnante non perda
alcuna occasione per indagare le esperienze dello scolaro, per dare loro un
senso, un nesso, una valorizzazione interiore ed esteriore. Deve verificare lo
spirito filosofico per il quale da ogni punto dell'essere superficiale parte
una linea retta collegata alle profondità fondamentali» (p. 31), senza peraltro
trascurare come «solo nelle ultime classi è possibile che lo studente capisca
da solo che per i propri scopi e la sua “Bildung”
è indispensabile anche quanto apparentemente è privo di interesse. Non appena
lo studente comprende che deve apprendere la singola questione non per amore
della stessa, ma nella prospettiva di un contesto generale della “Bildung” che comprende anche il singolo
elemento, allora anche in questo caso vi è posto per un'attenzione indiretta,
quando non è possibile ottenerne una diretta. Perciò è un compito principale la
produzione di tali ampi concetti della Bildung.
E anche perciò dobbiamo evitare ogni isolamento dei contenuti. L'unità che
tutto abbraccia non porta solo l'attesa e l'attenzione, ma coglie
nell'interesse complessivo (teoretico e pratico) anche quanto non è
interessante» (p. 53, la trad. it. è stata lievemente modificata).
[6] John Stuart Mill, Saggio sulla
libertà, trad. it. di Stefano Magistretti, il Saggiatore, Milano 1981, p. 45, da cui sono tratte anche le
altre citazioni che figurano successivamente nel testo.
[7] Interessanti considerazioni a questo proposito si leggono nel contributo
di Tiziano Tussi, Eros a scuola: risvolti
storico-psicologici di un realissimo non-rapporto, «il Voltaire», anno I,
1999, n. 1, pp. 47-59.
[8] Per un primo bilancio complessivo si possono tener presenti i dati
pubblicati sia nel volume L'insegnamento
della filosofia. Rapporto della Società filosofica italiana, a cura di
Luciana Vigone e Clemente Lanzetti, Laterza, Roma-Bari 1987, sia nel libro L'insegnamento della filosofia nelle scuole
sperimentali. Rapporto della Società Filosofica Italiana, Laterza,
Roma-Bari 1994, unitamente a quanto pubblicato nelle varie annate della rivista
«Insegnare filosofia» cui si possono inoltre affiancare, sul piano di un
bilancio storico complessivo, volumi emblematici come i seguenti: il celebre e
illuminante libro di Augusto Monti, I
miei conti con la scuola. Cronaca scolastica italiana del secolo XX, Einaudi,
Torino 1965; il classico e sistematico studio di Vittorio Telmon, La filosofia nei licei italiani, apparso
originariamente per «La Nuova Italia» di Firenze nell'aprile del 1970, ma poi
riedito, in un'edizione anastatica, dalla Cooperativa Libraria Universitaria
Editrice di Bologna (Clueb) nel febbraio 1990, nonché l'ormai datata, ma a suo
modo caratteristica, riflessione di Aldo Agazzi, consegnata alle pagine del
volume Didattica dell'insegnamento
filosofico e pedagogico apparso a Milano nel 1972, pro manuscripto, per le edizioni universitarie milanesi della
Libreria Vita e Pensiero dell'Università Cattolica del S. Cuore. Sul piano
della discussione contemporanea in questa sede mi invece limito a segnalare
tutti i sette, diversi ma interessanti, volumi editi dalla “Città dei filosofi”
nella collana ministeriale (vale a dire nella serie dei «Quaderni» della
Dirclassica del Ministero della Pubblica Istruzione, oggi Ministero
dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, rubricati a partire dal dodicesimo
numero di questa collana e consacrati, rispettivamente, ai seguenti temi: La “città” dei filosofi. Seminario di
formazione per Docenti, del 1994; I
nuova media nella didattica della filosofia. Materiali prodotti dai Seminari di
formazione per docenti, a cura di Rosanna Ansani, Laura Bolognini, Mario
Pinotti, Maurizio Villani, apparso nel 1998; I filosofi antichi nel pensiero del Novecento, a cura di
[9] Ma a questo proposito bisognerebbe anche chiedersi chi insegnava la
filosofia nelle scuole secondarie italiane. Discorso che in questa sede ci
porterebbe in realtà molto lontano, perché bisognerebbe necessariamente
confrontarsi con la storia complessiva del nostro Paese nel corso degli ultimi
due secoli. In ogni caso in questa sede sia sufficiente ricordare come non vada
affatto trascurato come, molto spesso, l'insegnamento della filosofia fosse
affidato, istituzionalmente, a docenti che non avevano neppure ricevuto una
specifica preparazione filosofica. Così per molti anni l'insegnamento della
filosofia fu affidato a docenti di lettere o di diritto o, ancora, di religione
cattolica, i quali, in realtà, poco o nulla conoscevano della riflessione
filosofica. Per non aggiungere, poi, che anche molti docenti di “filosofia”, in
realtà, si erano laureati in storia e, quindi, conoscevano nuovamente, poco e
male, la filosofia che pure dovevano insegnare (infatti il discutibile
abbinamento neohegeliano tra storia e filosofia concerne non solo il mondo
secondario, ma anche il mondo universitario, giacché l'insegnamento della
filosofia è tutt'ora abbinato, in via pressoché esclusiva, alle sole Facoltà di
Lettere o di scienze della formazione, con sistematica esclusione delle Facoltà
scientifiche). Infine non si può neppure dimenticare come la preparazione media
dei docenti della scuola secondaria abbia purtroppo registrato,
complessivamente, un'autentica caduta verticale di competenze specifiche,
soprattutto negli ultimi lustri, col triste ma inevitabile risultato che spesso
e volentieri oves et boves (grazie a
molteplici corsi abilitanti e altrettanti concorsi “riservati”, in palese
spregio del dettato costituzionale) siano infine giunti all'agognata cattedra,
conoscendo poco o nulla di quanto dovrebbero insegnare. Ma, come è evidente,
questa perdita complessiva di competenze cognitive da parte dei docenti immessi
poi in cattedra con incredibili “infornate” governative (spesso richieste e
volute dai sindacati) risulta essere strettamente connessa alla grave crisi che
la scuola italiana sta vivendo ormai da molti anni, soprattutto a causa delle
contrastanti forze politiche e civili che l'hanno ridotta a quel miserevole
stato di degrado che oramai è sotto gli occhi di tutti (non foss'altro che per
le stesse penose retribuzioni che da anni contraddistinguono un settore
strategico come quello scolastico che purtroppo non è avvertito, anche dalle
maggiori forze politiche, come autenticamente decisivo per il futuro del
paese).
[10] Immanuel Kanti, Critica della
ragione pura, introduzione, traduzione e note di Giorgio Colli, Adelphi
Edizioni, Milano 1976, pp. 810-1, lo spaziato è di Kant, mentre i corsivi sono
miei.
[11] Traggo direttamente l'espressione “giovane pensatore” dalla significativa
e assai feconda esperienza didattico-culturale posta in essere,
coraggiosamente, dalla prof. ssa Ada Fiore del Liceo “F. Capece” di Maglie, con
un interessante percorso didattico che ha poi trovato un suo significativo
momento di confronto e pubblica verifica nel Festival dei “giovani pensatori” svoltosi nella giornata di martedì
11 maggio 2004 presso il Catello de' Monti di Corigliano d'Otranto (in
provincia di Lecce), durante il quale, per un'intera giornata, parecchie
centinaia di studenti delle scuole secondarie del Salento hanno discusso di
amore, morte, felicità e libertà con quattro filosofi come Evandro Agazzi
(dell'Università di Genova), Domenico Conci (dell'Università di Siena), Carlo
Vinti (dell'Università di Perugia) e lo scrivente (dell'Università di Lecce).
Per l'esito complessivo di questa importante esperienza non posso comunque che
rinviare agli atti di questa
iniziativa che attualmente sono in corso di pubblicazione nella medesima
collana editoriale che ospita il presente volume. Per altre considerazioni
connesse con l'esperienza posta in essere da questi “giovani pensatori” del
liceo salentino cfr. anche quanto si accenna nel successivo § 5.
[12] Traggo ancora l'espressione di “condottiero dell'esistenza”
dall'interessante volumetto scritto dalla prof. ssa Ada Fiore in collaborazione
con la sua classe I D del Liceo “Capece” di Maglie, Il condottiero dell'esistenza, Edizioni Liceo Capece, Maglie 2004
nel quale il “giovane pensatore” è appunto definito e individuato come un
condottiero della sua propria esistenza, capace di infrangere con la sua
intelligenza critica i luoghi comuni che inducono invece a vivere schiavi del
soffocante conformismo contemporaneo diffuso soprattutto dalle credenze
religiose, dalle credenze sociali, dalla superstizione e dalla televisione.
Semmai la pur piacevole lettura di questo breve scritto suscita qualche
perplessità solo nella misura in cui il conformismo televisivo viene
strettamente ed unilateralmente abbinato al dogmatico conformismo scientifico,
ponendo così completamente tra parentesi l'irriducibile nucleo critico che
sempre alimenta la riflessione scientifica più vera e conseguente, quale è
stata sempre attuata e coraggiosamente praticata dai maggiori scienziati
dell'umanità.
[13] Il passo di Kant è assai noto ma vale la pena rchiamarlo totidem verbis per il suo valore storicamente
emblematico: «senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte
le libertà, quella cioè di fare pubblico
uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti
gradare - Non ragionate! - L'ufficiale dice: - Non ragionate, ma fate
esercitazioni militari. - L'impiegato di finanza: - Non ragionate, ma pagate!.
- L'uomo di chiesa: - Non ragionate, ma credete! - […] Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve
esser libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare l'illuminismo tra gli uomini» (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo? in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia
e del diritto, con un saggio di Christian Garve, tradotti da Gioele Solari
e Giovanni Vidari, edizione postuma a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo,
Vittorio Mathieu, Utet, Torino 19652, p. 143, i
corsivi sono nel testo). Naturalmente in Kant questo appello alla ragione
critica trova un preciso limite nella censura imperiale del tempo espressa da
Federico II il Grande, re di Prussia, il quale per conto suo affermava, poco
illuministicamente, «Ragionate fin
che volete e su quel che volte, ma obbedite»
(ibidem, corsivi nel testo). Kant, da
bravo suddito prussiano, cercava di individuare un varco plausibile entro
questo poco simpatico giogo autoritario ed illiberale della censura sostenendo
una alquanto discutibile distinzione tra l'uso privato e l'uso pubblico
della ragione: il secondo sarebbe libero ed universale, poiché connesso al
mondo pubblico ed intersoggettivo dello studio e della ricerca, mentre il primo
sarebbe necessariamente vincolato all'obbligo della fedeltà e dell'ubbidienza
al monarca. Distinzione che non regge, naturalmente, ad una seria critica
illuministica, ma che ben si spiega col dispotismo del tempo e con la connessa
esistenza della regia censura. Per un commento e una riproposizione critica
della lezione illuminista kantiana nel quadro della riflessione contemporanea
sia tuttavia lecito rinviare al mio volume Teleologia
della ragione ed escatologia della speranza. Per un nuovo illuminismo critico,
La Città del Sole, Napoli 2004, passim.
[14] Michel Foucault, Illuminismo e
critica, a cura di Paolo Napoli, Donzelli Editore, Roma 1997, p. 38 (mentre
le due espressioni precedentemente ricordate nel testo si trovano a p. 40). La
disamina proposta da Foucault si collega al suo studio del rapporto tra ratio e potere facendo riferimento privilegiato alla
«governamentalizzazione» che si sarebbe imposta a partire dall'età moderna: «se
riconosciamo a questo movimento della governamentalizzazione, della società e
degli individui, la collocazione storica e l'ampiezza che mi sembra meriti,
allora incontriamo ciò che definirei l'atteggiamento critico. Come
contropartita, o piuttosto come partner e al contempo avversario delle arti di
governo, diciamo come modo per sospettarne, per rifiutarle e per limitarle, per
individuarne una giusta misura e trasformarle, insomma come modo per sfuggire a
queste arti di governo, per allentarne comunque la presa, sia sotto forma di
rifiuto ma anche come linea di un differente sviluppo, si sarebbe affermata in
Europa una specie di forma culturale generale, un atteggiamento morale e
politico, una maniera di pensare ecc. che definirei semplicemente l'arte di non
essere governati o, se si preferisce, l'arte di non essere governati in questo
modo e a questo prezzo» (pp. 37-8). Peraltro la riflessione di Foucault
contrappone discutibilmente in Kant il momento della critica a quello dell'Aufklärung, avendo tuttavia il
merito di ricordare «che Kant ha stabilito per la critica, nella sua impresa di
disassoggettamento dal gioco del potere e della verità, come compito
originario, come prolegomeni a ogni Aufklärung
presente e futura, di conoscere la conoscenza» (p. 43), proprio perché «questo
vero coraggio di sapere invocato dall'Aufklärung
consiste nel riconoscere i limiti della conoscenza» (p. 42). Per una
diversa lettura dei rapporti tra criticità e Aufklärung in Kant sia comunque lecito rinviare nuovamente al mio
già citato Teleologia del sapere ed
escatologia della speranza, in particolare alle pp. 23-185.
[15] Immanuel Kant, Logica, a cura di
Leonardo Amoroso, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 144 (§ 119).
[16] Italo Calvino, Perché leggere i
classici, Mondadori, Milano 1991, p. 13, corsivo nel testo.
[17] I. Kant, Logica, trad. it. cit.,
p. 39, i corsivi sono nel testo, mentre la cit. che figura in apertura del
seguente § 6 è tratta dalle pp. 38-9 (anche in questo caso i corsivi sono tutti
nel testo).
[18] Un valido strumento di lavoro per
attuare questa affascinante programmazione di studio in grado di intrecciare
costantemente il pensiero filosofico con quello scientifico può essere
individuato nell'ormai datata, ma ancora insostituibile, grande opera di
Ludovico Geymonat, Storia del pensiero
filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970-76, 7 voll. (più
recentemente, nel 1996, sono stati anche pubblicati - per iniziativa di Enrico
Bellone di Corrado Mangione - due, sia pur discutibili, nuovi volumi di
aggiornamento, l'ottavo e il nono, specificatamnte dedicati ai più recenti
dibattiti degli ultimi anni del Novecento).