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Comunicazione Filosofica n. 8 - febbraio 2001

Cultura e differenza (Testo D)

Clifford Geertz presenta un suo bilancio sulla vicenda dell’antropologia culturale, considerando il superamento di prospettive tradizionali ed attestandosi ad un punto di vista ermeneutico, centrato sul discorso e l’interconnessione tra inevitabilmente diversi.

Come ogni altra istituzione, l’antropologia – che ha un peso piuttosto limitato se paragonata al diritto, alla fisica, alla musica o alla contabilità – si colloca nel tempo e nello spazio continuamente morente, e certo non continuamente intenta a rinnovarsi. Le energie che la crearono, prima nel diciannovesimo secolo (quando tendeva ad inglobare tutto, dalla scimmia alla totalità del genere umano, in una sorta di grande impresa scientifica) e, in seguito, nella prima parte di questo secolo (quando giunse a focalizzare l’attenzione su singole popolazioni come entità-cristalli, isolate e compatte), erano connesse senza dubbio (anche se con complessità ben maggiore di quella che comunemente si ammette) sia con l’espansione imperiale dell’Occidente, sia con la fede salvifica, allora crescente, nei poteri della scienza. Dopo la seconda guerra mondiale, la dissoluzione del colonialismo e la comparsa d’una visione più realistica della scienza hanno disperso in gran parte queste energie. Gli antropologi non hanno più a disposizione, come avevano una volta, né la funzione del mediatore interculturale, cui spetta di far la spola fra i centri del potere mondiale euro-americani e i diversi altrove esotici, per mediare tra i pregiudizi dei primi e la ristrettezza di orizzonte dei secondi, né quella del teorico transculturale, che si occupa di sottomettere a leggi generali credenze strane e strutture sociali inusuali. Sorge così la domanda: che cosa c’è oggi a disposizione? […] qualunque sia l’utilità che potranno avere in futuro i testi etnografici, ammesso che ne abbiano, c’è da pensare che in ogni caso implicherà il compito di rendere praticabile la conversazione attraverso le linee di demarcazione sociale (di etnicità, religione, classe, genere, lingua, razza), oggi più sfumate, più immediate, più irregolari. Ciò che ora pare, almeno a me, necessario, non è né costruire una cultura-esperanto universale, la cultura degli aeroporti e dei motel, né l’invenzione di qualche vasta tecnologia di gestione delle risorse umane. È piuttosto quella di ampliare la possibilità di un discorso intelligibile tra popoli completamente diversi l’uno dall’altro per interessi, modi di vedere, ricchezza e potere, e tuttavia compresi in un mondo in cui, sballotttati come sono in una interconnessione senza fine, è sempre più difficile che l’uno non incroci la strada dell’altro.

Clifford Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, [1988], Il Mulino, Bologna 1990, pp. 155-156

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