Torna al sommario di Comunicazione Filosofica

Comunicazione Filosofica n. 8 - febbraio 2001

 

Stefano Martini

Le riflessioni di Immanuel Kant e Giacomo Leopardi intorno a L’arte di prolungare la vita umana di C.W. Hufeland

 

            Mentre il nesso tra Schopenhauer e Leopardi è scontato[1] e quello tra quest’ultimo e Nietzsche è abbastanza evidente[2], certamente in modo molto meno immediato si coglie, invece, la relazione tra Kant e Leopardi. Eppure, questi due grandi pensatori, dalle concezioni filosofiche e sensibilità così diverse, sono accomunati dal fatto di essersi misurati con un testo, L’arte di prolungare la vita umana[3], di un loro contemporaneo, l’illustre medico C.W. Hufeland[4].

            Kant intrattiene con lui un breve scambio epistolare, ricevendone, tra l’altro, in omaggio il libro, con una gentile lettera accompagnatoria; anzi, è possibile che proprio grazie a questo dono maturi l’idea di scrivere a sua volta un saggio con le «osservazioni» su di sé compiute «in merito alla dieta» e alla capacità della moralità di «vivificare» il fisico[5], ossia Del potere dell’animo di dominare col solo proposito le proprie sensazioni morbose[6], ove dialoga a distanza con il professore di Jena.

            Leopardi parla esplicitamente di Hufeland e del suo libro in due occasioni: in un pensiero del 25 novembre 1820 dello Zibaldone[7] e in una nota alle prime battute del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, magari poco conosciuto, tuttavia per il critico letterario Mario Fubini forse la più importante, dal punto di vista speculativo, delle Operette morali[8].

Prendiamo brevemente in esame l’opera del medico tedesco, per evidenziarne gli aspetti filosofici più rilevanti, tralasciando quelli specificamente medici.

Hufeland introduce il concetto di Macrobiotica[9], ovvero l’arte di prolungare la vita, che egli ritiene cosa diversa dalla medicina (o Dietetica medicinale), il cui fine è la sanità: la medicina cerca di curare le malattie, tentando di estirparle il più tempestivamente possibile, mentre «la Macrobiotica c’insegna […] come varie malattie possano servire di mezzi a prolungar la vita stessa. […] Quindi è, che la medicina pratica è da considerarsi, in confronto con la Macrobiotica non altrimenti, che come una scienza sussidiaria […]. Una lunga vita [infatti] fu sempre un innato desiderio dell’uomo, e la meta principale del medesimo»[10].

            Rispetto alle proposte confuse e contraddittorie avanzate finora da medici pratici, alchimisti, filosofi, empirici e ciarlatani, egli reputa «non meno utile, che necessario di rischiarare le idee di questo importantissimo oggetto, e di richiamar l’uomo a delle regole certe e sode, e  delle massime affatto semplici»[11]. Da otto anni Hufeland si occupa della questione, con lo scopo fondamentale «di fissare una dottrina sistematica circa l’arte di prolungare la vita, e di accennarne i mezzi opportuni»[12].

            Nell’elaborazione di questo progetto, si rende ben presto conto di non doverlo trattare «soltanto medicinalmente, ma eziandio nello stato morale»[13]. Chi mai, si chiede Hufeland, potrebbe trattare della vita umana, pure nel suo semplice aspetto fisico, senza connetterla con la moralità? E aggiunge: «Oh quanto mi riputerei felice, se mi venisse fatto di giunger al compimento di due oggetti in un sol punto, vale a dire, non solo di render l’uomo più sano, e di prolungargli la vita, ma anche di migliorarlo nella morale sua condotta! Per lo meno io sono certo, che sarebbe inutile il voler disgiungere l’una cosa dall’altra, poiché la salute fisica e morale sono fra di loro sì strettamente congiunte, come lo è l’anima col corpo»[14].

            L’opera, non destinata a medici soltanto, ma a tutti, specialmente ai giovani, è stata accolta dal pubblico così favorevolmente e con tanto interesse, da superare ogni attesa dell’Autore e da infondergli grande gioia, cosa che lo porta a sperare di aver raggiunto il suo principale scopo, «cioè di apportare qualche utile al mondo, e di aumentare così l’umana felicità»[15].

Dopo la Prefazione, il trattato inizia con la constatazione che «niente produce in noi tanti sagrificj, e niente opera in noi tanti straordinari sviluppi, e tanto interesse alla produzione delle nostre più recondite forze, quanto l’istinto di conservar la vita, e di salvarla nel più critico istante. Anche chi soffre de’ mali incurabili, anche chi piange per sempre in carcere rinchiuso la libertà perduta, ama di vivere più a lungo che può […]»[16]. Ciò spiegherebbe il fatto che da sempre di tale problema molti si siano occupati, non solo menti perspicaci ma anche ciarlatani di ogni tipo, con risultati diversissimi. Hufeland cita con profondo rispetto Ippocrate e ricorda come «il più gran filosofo [Aristotele?], ed addottrinato sosteneva che l’esercizio del corpo, e dell’anima debbono sempre rimanere in una relativa proporzione»[17]; idea condivisa, poi, pienamente da Plutarco (peraltro giunto a felice vecchiaia), considerato da Hufeland un esempio e un modello.

Il libro di Hufeland comprende una prima parte, Teoretica, ed una seconda, Pratica, da lui stesso ritenuta la più importante, in cui egli può finalmente esporre i mezzi per prolungare la vita, i quali pur non essendo «speciosi» né «misteriosi», tuttavia «hanno […] il vantaggio, che si possono aver dappertutto, e senza dispendio, anzi trovansi già in parte in noi medesimi, corrispondono perfettamente colla ragione e coll’esperienza, e conservano non solamente la durata della vita, ma ben anche l’uso della medesima. In somma essi meritano a mio credere il nome di rimedi universali, più che quelli cotanto decantati dai ciarlatani»[18].

Gli uomini, di continuo circondati da amici e nemici della vita, paradossalmente sembrano spesso preferire questi, il più delle volte scambiati per quelli, perché irriconoscibili nella loro vera sostanza. Sarà quindi essenziale imparare a distinguere gli uni dagli altri e a conoscere da un lato i mezzi che accorciano la vita e dall’altro i mezzi per prolungarla.

Tra i primi una parte rilevante occupano alcuni affetti e passioni, come «la tristezza, l’affanno, il disgusto, il timore, la pusillanimità, e particolarmente l’invidia, ed il mal talento»[19]. Interessante, in particolare, è l’analisi dell’invidia e della malevolenza, del malumore, della paura, ma colpisce soprattutto la trattazione di quelli che noi chiameremmo oggi lo stress e il consumismo (unito al lusso)[20]. Un intero paragrafo è dedicato, poi, al timore della morte, a proposito del quale si intrecciano riflessioni che paiono richiamarsi tra le righe a Pascal, Epicuro, Marco Aurelio. In altre pagine, inoltre, sono affrontate, con profonda capacità d’indagine psicologica, l’ozio, la noia, l’esagerato e aberrante uso della fantasia (compresa la malattia immaginaria, cioè l’ipocondria[21]).

Per ciò che riguarda i mezzi per prolungare la vita, dopo aver trattato di aspetti più propriamente fisici (continenza sessuale, sonno, moto, uso dell’aria aperta, vita campestre, viaggi, pulizia, sistema di vita, moderazione nel mangiare e bere), Hufeland sviluppa alcuni argomenti davvero interessanti: la calma e contentezza dell’anima, la fiducia negli uomini, la speranza, l’allegria, la sincerità, gli stimoli piacevoli dell’intelletto (sp. la musica), la vecchiaia e il suo conveniente governo, per concludere con un paragrafo dedicato alla «coltura delle forze intellettuali, e corporali», che potrebbe considerarsi una sorta di bilancio finale di tutta l’opera.

Passiamo ora ai suoi due interlocutori. Cominciamo da Leopardi.

Nel Dialogo, scritto dal 14 al 19 maggio del 1824, egli immagina l’incontro tra i due protagonisti, il Fisico e il Metafisico, che incarnano due parti complementari dell’animo dello stesso scrittore, come con acume osserva il Fubini[22].

            All’annuncio orgoglioso da parte del Fisico della scoperta («Eureca,eureca»), e cioè dell’«arte di vivere lungamente», il Metafisico gli propone di chiudere il libro, in cui egli la divulga, in una cassettina di piombo e di sotterrarla, con l’indicazione precisa del luogo, affinché, anche dopo la sua morte, lo si possa tirar fuori «quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente»[23]. Fino ad allora, infatti, esso non avrebbe utilità alcuna. Sarebbe, anzi, più apprezzabile «se contenesse l’arte di viver poco […] perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga»[24].

            Alle rimostranze del Fisico («Oh cotesto no: perché la vita è bene da se medesima, e ciascuno la desidera, e l’ama naturalmente»), il Metafisico rincalza affermando che quanto egli dice è l’opinione ingannevole degli uomini, i quali in realtà desiderano solo la felicità e amano la vita semplicemente come strumento di tale felicità; che l’amore della vita, per se stessa, non sia naturale lo si evince chiaramente dal fatto che molti, da sempre, scelgono la morte[25].

            Leopardi sottolinea, pertanto, secondo pensieri a lui cari e anche altrove sviluppati, che non è tanto il vivere a lungo e comunque che conta per l’uomo, quanto il vivere felicemente; non è bene la vita in quanto tale, ma la felicità, al punto che alcuni, in mancanza di quest’ultima, preferiscono al vivere il morire. C’è come un «decrescendo» intenzionale nell’argomentazione dell’Autore, cui preme, dunque, non l’arte di vivere lungamente, ma piuttosto quella di vivere felicemente, che, essendo improbabile, lascia senz’altro il posto a quella di vivere poco. Si vedrà, fra breve, come si possa ovviare alla pochezza con l’intensità. Leopardi accenna qui, senza peraltro farne un elogio, al tema cruciale del suicidio, argomento da lui analizzato problematicamente in molte pagine dello Zibaldone[26].

            Il Fisico, ai discorsi un po’ lugubri del Metafisico, reagisce («Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica») e rilancia, chiedendo provocatoriamente all’interlocutore se ritiene allora che all’uomo possa piacere l’idea di una vita immortale qui sulla terra («dico senza morire, e non dopo morto»). Anche questa proposta, però, il Metafisico rifiuta, con una serie di argomentazioni basate su racconti mitici e su notizie storiche, ritenendo che «quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini […]. E poiché non il semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei giorni[27]; […] non solo io non mi curo dell’immortalità […] ma, in cambio di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vita[28] […], io vorrei che la potessimo accelerare […]. Nel qual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo alla noia. […] Ma se tu vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini veramente; trova un’arte per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le azioni loro. Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana, ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere, ti potrai dar vanto di prolungarla. E ciò senza andare in cerca dell’impossibile, o usar violenza alla natura, anzi secondandola. […] Ma in fine, la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio»[29].

            In conclusione, dato che la felicità di una lunga vita è inverosimile, Leopardi ci propone l’idea di una vita più viva e intensa, senza intervalli di tempo in cui si annidino il tedio e la noia. Il Dialogo non vuol essere, dunque, un invito alla morte, ma un auspicio ad una vita brevissima ed intensissima, altrimenti sì sarebbe, senza paragone, migliore la morte[30].

            Già nello Zibaldone il Leopardi così si esprimeva: «Ho veduto le lezioni di un tedesco, il sig. Hufeland, dell’arte di prolungare la vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch’egli occupava, dedicata espressamente a quest’arte. Prima bisognava insegnare a render la vita felice, e quindi a prolungarla. Infelicissima com’è, stimerei molto più m’insegnasse ad abbreviarla, perché non ho mai saputo che sia degno di lode, e giovi al pubblico colui che insegna a prolungare l’infelicità. In vece di fondare queste cattedre che sono al tutto straniere anzi contrarie alla natura dei tempi, i principi dovrebbero procurare che la vita dell’uomo fosse più felice, ed allora saremmo grati a chi c’insegnasse a prolungarla. Se la durata fosse un bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio di viver lungamente in qualunque caso»[31].

            E arriviamo a Kant.

In una seconda lettera[32] inviata a Hufeland egli afferma: «Mi è venuta l’idea di progettare una dietetica e di indirizzarla a Lei. Essa dovrebbe esporre soltanto, sulla base della mia esperienza personale, “la potenza esercitata dall’animo sulle proprie sensazioni corporee di carattere patologico”. Credo che si tratti di un esperimento non disprezzabile e che meriti di essere accolto nella teoria medica, se non altro come rimedio di carattere psicologico. Poiché alla fine di questa settimana entrerò nel mio 74° anno di età e finora ho felicemente tenuto lontane tutte le vere malattie […], questo lavoro potrebbe magari ispirare fiducia ed incontrare successo. Tuttavia, a causa di altre occupazioni, sono per ora costretto a lasciarlo in sospeso»[33].

            Infine, in una terza[34], cui allega lo scritto promesso, Kant propone al «pregiatissimo amico» di farne, quanto alla eventuale pubblicazione, quello che ritenga opportuno («a Sua discrezione») e puntualizza che non ne intende ricavare «dei diritti d’autore»[35]. Dopo di che aggiunge: «Se nel vasto regno delle Sue conoscenze mediche ci fosse qualcosa che possa procurare rimedio o lenimento alla patologia che Le ho descritto[36], mi farebbe piacere se Ella me lo potesse comunicare con una lettera privata, sebbene debba sinceramente confessare che me ne aspetto poco e che credo di avere ottimi motivi per prendere sul serio lo judicium anceps, experimentum pericolosum di Ippocrate[37]. È un grave peccato diventare vecchi: per esso si è puniti con la morte, senza nemmeno un briciolo di clemenza»[38].

            Il trattatello inizia con una introduzione intitolata Una risposta al consigliere aulico, professor Hufeland, nella quale Kant ringrazia il medico per il libro ricevuto in dono[39], rilevando che si potrebbe dedurre dal ritardo di questa sua risposta[40] che tutto sia «stato calcolato […] in prospettiva d’una lunga vita […] se non fosse – nota con bonaria ironia – la vecchiaia stessa a comportare il ripetuto rinvio (procrastinatio) di decisioni importanti, tra le quali più di tutte è quella della morte, che si annunzia sempre troppo presto per noi e che con inesauribili scuse cerchiamo di tener fuori dell’uscio»[41].

            E con ciò Kant entra decisamente in tema.

            Egli dà atto al dottor Hufeland di possedere la capacità filosofica di attingere «dalla ragione pura, che sa prescrivere con abilità ciò che giova e con sapienza sa aggiungervi anche ciò che è in sé un dovere: sicché la filosofia pratico-morale serve anche da rimedio universale, che certo non giova a tutti in tutto, ma che non può mancare in nessuna ricetta»[42]. Si tratta, tuttavia, di un rimedio solo «dietetico», che opera «esclusivamente in modo negativo, come arte di prevenire le malattie»; d’altra parte «allo spirito della filosofia si riferisce il compito principale della dietetica, che è racchiuso nel tema: Del potere dell’animo umano di dominare con la sola fermezza del proposito le proprie sensazioni morbose»[43].

            Kant, per parlare di ciò, può fare riferimento essenzialmente alla propria esperienza e «solo in seguito si potrà chiedere agli altri se non abbiano per caso notato in sé le medesime percezioni»[44]. Al di là di ogni esibizionismo del suo «io» e del gioco interiore dei suoi pensieri, che potrebbero tradire immodestia e deprovevole presunzione, bisogna pure dire che se «quest’autoosservazione e la percezione che ne risulta non sono così banali, ma tali da meritare che tutti ne vengano interessati, allora questo spiacevole inconveniente d’intrattenere gli altri con le proprie particolari sensazioni può per lo meno essere scusato»[45].

            La dietetica (come, secondo Kant, la intende Hufeland), in antitesi alla terapeutica che è l’arte di curarle, è dunque l’arte di prevenire le malattie e, in quanto tale, di prolungare la vita. Hufeland, per Kant, «prende la sua definizione [di dietetica] da quello che gli uomini desiderano nel modo più intenso, sebbene sia forse la cosa meno desiderabile. Essi vorrebbero in fondo soddisfare insieme due desideri […]»[46]. Non è detto, però, che il desiderio di vivere a lungo presupponga necessariamente quello di godere buona salute[47], anzi riguardo a quest’ultima la situazione è piuttosto intricata: ci si «può sentire sani […], ma non si può mai sapere di esserlo. […] la causalità [di morte naturale, cioè la malattia] non si può sentire, per riconoscerla occorre l’intelletto, il cui giudizio può essere erroneo; la sensazione è invece infallibile, ma possiamo dirla tale solo se ci sentiamo malati; ma se anche non ci si sente così, può tuttavia celarsi nell’uomo ed essere pronta a un rapido sviluppo; perciò la mancanza della sensazione non consente all’uomo di dir altro sul suo stato se non che egli è all’apparenza sano. La longevità dunque, se si guarda retrospettivamente, può essere segno solo della salute goduta, e la dietetica dovrà dimostrare la sua abilità o la sua scienza innanzitutto nell’arte di prolungare (non di godere) la vita: ciò che anche Hufeland ha inteso dire»[48].

            Il filosofare (senza che si sia filosofi di professione) aiuta moltissimo ad «allentare certe situazioni spiacevoli», ma soprattutto la filosofia, in senso stretto, è salutare, perché «reca con sé un senso di forza che, con l’apprezzamento razionale del valore della vita, può compensare in certa misura la debolezza fisica della vecchiaia»[49]. Comunque pure altri tipi di operazioni mentali, come la matematica, procurano effetti simili; anzi, in persone dalla mente limitata «anche futili passatempi producono, come surrogati, quasi lo stesso risultato, e coloro che sono sempre affaccendati a non far nulla invecchiano solitamente anch’essi»[50].

            Così, grazie alla filosofia, Kant, naturalmente predisposto alla ipocondria, «che negli anni della gioventù giunse a rasentare il tedio della vita»[51], è riuscito con successo a combatterne i disturbi: «E poiché ci si rallegra della vita più per quello che si fa usandone liberamente, che per ciò che si gode, ne concludo che il lavoro intellettuale può opporre agli impedimenti che riguardano solo il corpo una forma diversa d’intensificazione del sentimento vitale. L’oppressione di cuore l’ho ancora, perché la sua causa è nella mia costituzione fisica. Ma ho vinto il suo influsso sui miei pensieri e sulle mie azioni distogliendo l’attenzione da questa sensazione, come se non mi riguardasse affatto»[52].

            Nella Conclusione Kant ammette, peraltro, che, anche se gli «accidenti morbosi di cui l’animo è capace di dominare la sensazione ricorrendo solo alla salda volontà dell’uomo, come a una superiore forza dell’animale ragionevole, sono tutti di tipo spasmodico (convulsivo)» [come la tosse, cui son dedicati ben due §§], tuttavia «non si può dire, al contrario, che tutti i casi del genere possano essere inibiti o eliminati solo con la fermezza del proposito. – Infatti alcuni di essi sono di natura tale che i tentativi di assoggettarli alla forza del proponimento finiscono piuttosto col rafforzare ancora la sofferenza spastica […]»[53]. A questo punto Kant, cedendo un po’ al pessimismo, accenna al disturbo che lo affligge da un anno circa e di cui chiede a Hufeland, nella lettera accompagnatoria, un qualche rimedio[54].

            Il finale del saggio è una sorta di piano inclinato, in cui le riflessioni si fanno progressivamente più cupe, fino ad arrivare all’ultimo capoverso (che precede il Proscritto) puntellato di interrogativi senza risposta che sconcertano un po’ il lettore, il quale all’inizio si era sentito piuttosto incoraggiato dal discorso pacato e disinvolto di Kant. Questi osserva che tutto ciò che «s’è detto permette anche di capire perché mai uno possa vantarsi d’essere sano per la propria età, sebbene, per certi incarichi che gli competevano, abbia dovuto farsi iscrivere nella lista dei malati. Infatti, poiché […] egli ammette di vivere quasi solo in un grado inferiore (come essere vegetativo), di poter insomma mangiare, passeggiare e dormire, quello che per la sua esistenza animale significa essere sano, per l’esistenza civile (tenuta a carichi pubblici) significa invece essere malato, cioè inabile: e così questo candidato alla morte non si contraddice affatto. A tanto porta l’arte di prolungare la vita umana: ad esser alla fine solo tollerati tra i vivi, e questa non è precisamente la più piacevole delle situazioni»[55].

            E, quindi, un po’ enigmaticamente, conclude:

«Ma io stesso ne ho colpa. Infatti, perché mai non intendo far posto alla gioventù che vuole salire e, per vivere, mi diminuisco l’abituale piacere della vita? Perché trascino a forza di rinunzie, per una durata fuori del comune, una debole vita e scompiglio col mio esempio i registri mortuari, dove le misure si tagliano sui più deboli per natura e sulla durata probabile della loro vita? Perché sottopongo tutto ciò che in passato si diceva destino (al quale ci si sottometteva con devota umiltà) alla fermezza del proposito, che tuttavia difficilmente sarà adottato per universale regola dietetica in base alla quale la ragione esercita direttamente una virtù salutare, che non sostituirà mai le formule terapeutiche della farmacia?»[56].

 

Stranamente i due pensatori, così diversi tra loro e partiti da punti di vista piuttosto lontani, quasi invertendo le rispettive posizioni, giungono durante il loro percorso come ad incontrarsi: mentre Kant da un approccio positivo nei riguardi dell’argomento trattato da Hufeland approda ad un mal celato pessimismo, Leopardi da un atteggiamento fondamentalmente critico per quella stessa tematica arriva a riconoscere, seppur con estrema cautela, un qualche credito alla vita. Basta mettere a confronto le parti conclusive dei due scritti principali da noi esaminati.

            Il punto di convergenza è la constatazione da parte di entrambi (in Kant in forma interrogativa) dell’insensatezza di un artificioso prolungamento di una vita, che non sia veramente viva e intensa. La questione è delicatissima, tanto da evocare all’uomo d’oggi, più o meno velatamente, lo spettro dell’eutanasia.

            Colpisce il fatto che ci sia un rapporto di proporzionalità inversa tra l’aspirazione a dilatare i limiti della durata dell’esistenza e la disponibilità a patirne le eventuali dolorose conseguenze. Ma, soprattutto, meraviglia che nemmeno l’indagine filosofica, nonostante la sua secolare funzione in proposito, sembri così terapeutica da consentire la sopportazione del dolore.

            È il caso, forse, di decretare lo scacco della filosofia?

            Probabilmente no, se solo si pensa che ancora nel 1803 (se non addirittura nel 1804, anno della morte), nonostante la invalidante malattia Kant continua a meditare e a scrivere finché gli è possibile, come testimoniano i manoscritti raccolti nell’Opus postumum[57]; e che Leopardi nel 1836 (a un anno circa dalla morte) compone La ginestra, con cui chiude la sua produzione poetica e proclama il suo estremo messaggio di solidarietà umana.

            Essi accettarono sino in fondo la sofferenza, con dignità, e non si sottrassero alla missione filosofica, anzi lavorarono con il coraggio intellettuale dei grandi fino all’ultima stilla di ogni loro energia vitale.


NOTE

[1] Basti solo pensare all’ormai classico Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A e D, del 1858, di F. DE SANCTIS, ristampato di recente nell’edizione Oberon, Roma 1995.

[2] Come magistralmente mostra W.F. OTTO nel saggio del 1937 Leopardi e Nietzsche, ora proposto in appendice a F. NIETZSCHE, Intorno a Leopardi, il melangolo, Genova 1992, pp. 151-181.

[3] C.W. HUFELAND (1797), L’arte di prolungare la vita umana, trad. di L. CARENO, Pavia 1798 e Venezia 1799.

[4] Christoph Wilhelm Hufeland (1762-1836), dopo essere stato medico alla corte di Weimar, fu professore di medicina a Jena dal 1793 al 1798 (periodo in cui si inserisce la corrispondenza con Kant), quindi direttore dell’ospedale di Berlino e infine professore di patologia all’Università berlinese (1809).

[5] Cfr. I. KANT, Lettera a Christoph Wilhelm Hufeland (la n. 740 del Carteggio kantiano), la prima inviata al medico, posteriore al 15 marzo 1797, citata in I. KANT, Epistolario filosofico. 1761-1800, il melangolo, Genova 1990, p. 363 (nota 1).

[6] Ora inserito quale Parte Terza (Il conflitto della filosofia con la facoltà di medicina), nell’opera kantiana Der Streit der Fakultäten, pubblicata nel 1798; per l’edizione italiana, vedasi: I. KANT, Il conflitto delle facoltà, a cura di D. VENTURELLI, Morcelliana, Brescia 1994, pp. 179-209.

[7] G. LEOPARDI, Zibaldone, Newton Compton, Roma 1997, 352, p. 111.

[8] G. LEOPARDI, Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, in G. Leopardi, Operette morali, a cura di M. FUBINI, Loescher, Torino 1966, pp. 125-133. A proposito dell’«arte di vivere lungamente», di cui il Fisico si presenta come l’inventore, Leopardi annota: «I desiderosi di quest’arte potranno in effetto, non so se apprenderla, ma studiarla certamente in diversi  libri, non meno moderni che antichi: come, per modo di esempio, nelle Lezioni dell’arte di prolungare la vita umana scritte ai nostri tempi in tedesco dal signor Hufeland, state anco volgarizzate e stampate in Italia» (Ivi, p.127).

 [9] Tale termine appare nel titolo originale tedesco dell’opera di Hufeland a partire dalla terza edizione (1803).

[10] C.W. HUFELAND, L’arte di prolungare la vita umana, cit., pp. X-XI.

[11] Ivi, p. XIII.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. XV.

[14] Ivi, p. XVI.

[15] Ivi, p. XIX. Cfr. Anche pp. XVII-XVIII.

[16] Ivi, p. 2.

[17] Ivi, p. 5.

[18] Ivi, p. 1 (del 2° tomo).

[19] Ivi, p. 39.

[20] Cfr. ivi, pp. 42-3.

[21] Cfr. il paragrafo Dell’ipocondria in I. KANT, Il conflitto delle facoltà, cit., pp. 189-191.

[22] Commenta il critico: «il Fisico […] ben rappresenta l’opinione comune, anzi il comune istinto, vivo, s’intende, nell’intimo petto del poeta medesimo […]: sentiamo che il lieve sorriso del Leopardi su di lui non è senza simpatia ché egli ben ne comprende le ragioni, e come non potrebbe se esso è pur sempre una parte dell’anima sua? Gli uomini, il Leopardi compreso, possono melanconicamente riflettere insieme col Metafisico, ma perseverano a vivere e a desiderare la vita per le ragioni del Fisico» (G. LEOPARDI, Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, cit., p. 127).

[23] Ivi, p. 128.

[24] Ibidem.

[25] «Così credono gli uomini; ma s’ingannano: come il volgo s’inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce. Dico che l’uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità. […] Ma che l’amore della vita negli uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario [indispensabile], vedi che moltissimi ai tempi antichi elessero di morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. […] Che poi la vita sia bene per se medesima, aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o metafisiche o di qualunque disciplina. Per me, dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita» (Ivi, pp. 128-9).

[26] Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone, cit., ad esempio: 56, p. 38; 814-15, p. 194; 1978, p. 422; 2402-4, p. 490.

[27] Anche Hufeland si richiama a questo principio di saggezza proprio di uomini illuminati; con tutto ciò non rinuncia assolutamente al suo progetto del «vivere lungamente», per sottrarlo al monopolio dei ciarlatani, ma soprattutto perché ci crede fermamente.

[28] Il riferimento è a Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), matematico, biologo e filosofo, figura di primo piano dell’Illuminismo francese.

[29] G. LEOPARDI, Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, cit., pp. 129 e 131-33.

[30] Hufeland ha giocato d’anticipo quando, più con ironia che per convinzione, scrive: «Il Filosofo si studia di sciogliere il suo problema, coll’insegnarci a sprezzar la morte, ed a raddoppiar la vita col vivere più intensamente, che si può» (C.W. HUFELAND, L’arte di prolungare la vita umana, cit., p. XII).

[31] G. LEOPARDI, Zibaldone, cit., 352, p. 111. E poco sopra egli scriveva: «In somma conviene che il filosofo si ponga bene in mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e infelicemente. E perciò non riponga l’utilità in quelle cose che semplicemente aiutano, conservano ec. la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono un bene, cioè felice da vero» (Ibidem).

[32] Per la prima lettera, cfr. nota 5.

[33] I. KANT, Lettera a Christoph Wilhelm Hufeland (la n. 746) del 19 aprile 1797, in I. KANT, Epistolario filosofico, cit., pp. 363-4.

[34] Cfr. I. KANT, Lettera a Christoph Wilhelm Hufeland (la n. 796) del 6 febbraio 1798, in I. KANT, Epistolario filosofico, cit., p. 391, nella quale è evidente un minore ottimismo in Kant, come si evince dal riferimento a Ippocrate. Con quest’ultimo e con la medicina in generale il filosofo si confrontò sempre più spesso negli ultimi anni, probabilmente anche a causa del progressivo peggioramento del suo stato di salute.

[35] Ibidem.

[36] Nella Conclusione del saggio Kant, in effetti, espone con molta precisione i sintomi di un disturbo che comincia a preoccuparlo parecchio: «[…] ed è questo anche il mio caso, poiché quella malattia che, più o meno un anno fa, è stata descritta nel giornale di Copenhagen come ‘catarro epidemico connesso a un senso di pesantezza alla testa’ [NOTA DI KANT: «Credo che sia una gotta, che ha colpito in parte il cervello»] […], mi ha reso quasi incapace di organizzare particolari lavori intellettuali o, per lo meno, mi ha indebolito e fatto ottuso; e poiché questo senso d’oppressione si è innestato sulla naturale debolezza della vecchiaia, non cesserà che con la vita stessa. […] Difetto, questo, che non è tanto dello spirito, e nemmeno solo della memoria, quanto della presenza di spirito (nel connettere); un divagamento involontario insomma, e un difetto molto penoso, cui si può faticosamente ovviare negli scritti (in specie di filosofia […]), sebbene, per quanti sforzi si facciano, non si possa mai evitare del tutto. […] Non c’è perciò da stupirsi se un metafisico diventa inabile prima di chi studia in un altro ambito, compresi i filosofi di professione […]» (I. KANT, Il conflitto delle facoltà, cit., pp. 202-4).

[37] Si allude al primo degli Aforismi di Ippocrate, il cui testo completo è il seguente: «La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile. Bisogna che non solo il medico sia pronto a fare da sé le cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli astanti [assistenti], le cose esterne [le circostanze più o meno favorevoli]» (IPPOCRATE, Aforismi e Giuramento, Newton Compton, Roma 1994, p. 15).

[38] I. KANT, Lettera a Christoph Wilhelm Hufeland, cit., p. 391.

[39] Tale omaggio arrivò a Kant unitamente a una lettera, in cui Hufeland, tra l’altro, chiedeva al filosofo un giudizio sul proprio «tentativo di curare in modo naturale la fisicità dell’uomo, di rappresentare tutto l’uomo, anche con la sua fisicità, come un essere calcolato sulla moralità, e di indicare la cultura morale come indispensabile al perfezionamento fisico della natura umana, esistente dappertutto solo in germe» (C.W. HUFELAND, Lettera a Kant (n. 728) del 12 dicembre 1796).

[40] In realtà Kant aveva già risposto con due lettere, come si è visto; forse intendeva dire che la presente era la risposta adeguata, dal momento che arrivava con allegato il suo saggio.

[41] I. KANT, Il conflitto delle facoltà, cit., p. 181.

[42] Ivi, p. 182.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Ivi, p. 183.

[46] Ibidem.

[47] «Supponete che un malato cronico soffra e stenti per anni la vita nel suo letto d’ospedale, certo lo sentirete desiderare spesso che la morte, quanto più sollecita tanto più bene accetta, venga a liberarlo da questo tormento: ma non crediate che lo dica sul serio. È vero che la sua ragione glielo suggerisce, ma l’istinto naturale vuole tutt’altro. Se egli annuisce alla morte come a sua liberatrice (Jovi liberatori), desidera tuttavia ancor sempre una piccola dilazione e trova sempre un qualche pretesto per rinviare il suo perentorio decreto (procrastinatio)» (Ivi, pp. 183-4).

[48] Ivi, pp. 185-6.

[49] Ivi, p. 188.

[50] Ivi, p. 189.

[51] Ivi, p. 191.

[52] Ibidem.

[53] Ivi, p. 202.

[54] Cfr. la nota n. 30.

[55] Ivi, pp. 204-5.

[56] Ivi, p. 205.

[57] Cfr. I. KANT, Opus postumum, Laterza, Bari 1984.