Torna al sommario di Comunicazione Filosofica Comunicazione Filosofica n. 10 - maggio 2002
Gaspare Polizzi, a cura di, Leopardi e la filosofia, Firenze, Polistampa, 2001, pp. 231.
Nel recente panorama di libri che propongono interpretazioni complessive dell’opera di Leopardi, il volume miscellaneo a cura di Polizzi occupa un posto del tutto particolare. Non si tratta, come potrebbe far credere il titolo, di dire l’ultima parola sulla capacità speculativa del poeta di Recanati, sulla filosoficità della sua figura e dunque, com’è accaduto da Croce in poi, sulla sua presunta estraneità o al contrario sulla sua coerenza rispetto al momento poetico vero e proprio, ma di un insieme di contributi che assumono collettivamente l’ottica del “pensiero poetante”, già adottata con successo in anni non lontani da Antonio Prete; si aprono sull’opera del recanatese squarci e “finestre” inediti, di tipo ontologico, estetico, politico, epistemologico, tali da ritornare opportunamente sui luoghi comuni della tradizione critica per verificarne la tenuta alla luce dei nuovi spunti esegetici. Lo scritto iniziale di Sergio Givone, nel tracciare un bilancio delle recenti letture “ontologiche” di Leopardi (soprattutto di quelle di Severino e Baldacci), sembra cogliere la possibile aporia che sussiste tra le due diverse specie di nichilismo individuate nel pensiero leopardiano dai due studiosi. Per Severino il nichilismo occidentale, l’assimilarsi dell’essere al nulla, culmina in Leopardi nella figura dello “stupore”, nella “resa” di fronte all’inspiegabile scomparsa delle cose e della vita, mentre Baldacci vi trova piuttosto la presa d’atto del carattere intimamente lacerato della realtà, la visione di un essere dei viventi in contraddizione con se medesimo: da qui la natura irredimibile del male. Per Baldacci una perversione “ontologica” originaria e una mancanza assoluta di valore contraddistinguono Leopardi, mentre nella lettura di Severino viene a essere sottolineata la perdita definitiva del senso e la caduta nell’inesplicabile, in seguito al franare di ogni possibile appoggio su un “immutabile” di tipo metafisico. Tutt’altra la prospettiva del contributo di Alberto Folin, che insiste nel porre in continuità la teoria leopardiana del piacere con la poetica delle “rimembranze” e dell’infinito; infatti, le illusioni, modalità prettamente umane di rielaborazione della sfera sensibile, trovano coronamento nelle forme simboliche del linguaggio, segnatamente in quello poetico. La rincorsa infinita a un piacere sempre sfuggente, coincidente con l’intero periodo della vita umana, la sua dimensione sempre inappagata e proiettata nel futuro, più ancora che nel discorso teorico è rispecchiata nelle forme vaghe, allusive, indeterminate della lirica. La poetica in Leopardi è allora una vera e propria estetica, che a sua volta presuppone una riflessione “etica” sulla struttura desiderante dell’illusione, e sul suo ruolo vitale; il movimento del piacere, perennemente differito ed “errante”, viene comunque espresso nella poesia in modo sublimato, per il “gioco” del continuo rimando simbolico dei termini lirici. E del resto la potenza evocatrice del registro lirico, soprattutto nei confronti di una natura che in questo modo, nel bene o nel male, viene a perdere l’immediatezza del “dato” è il tema svolto da Giuseppe Panella, che mette in luce come anche in Leopardi, oltre che in molta cultura romantica e pre-romantica, il sublime nasca da un processo di rivisitazione intellettuale del sentimento naturale dell’orrore che, adeguatamente distillato tramite le suggestioni del linguaggio, genera un piacere particolarissimo, “orrorifico” per l’appunto, accomunando nell’esperienza mentale il pathos del poeta e quello del lettore. Ma la complessità del percorso leopardiano intorno alla natura e alla rappresentazione fattane dal soggetto umano emerge in modo alquanto originale e articolato nel vero e proprio piccolo saggio storico-epistemologico di Polizzi intitolato Filosofia delle circostanze e immagini della scienza nello Zibaldone di Leopardi. L’interesse di Polizzi si concentra sulla ricostruzione di un principio ermeneutico maturato sin dall’inizio dello Zibaldone, e via via esposto e approfondito in tutta l’opera: il ruolo fondamentale delle circostanze nella formazione dei “modi di pensare” e delle attitudini intellettuali. La filosofia delle circostanze fa sì che il materialismo leopardiano, più che di tipo naturalistico, come si è abbondantemente scritto, sia di tipo gnoseologico. Siamo in presenza di una classica refutazione dell’a priori soggettivo e dell’asserzione di un primato dell’oggetto, ma la novità è data dallo statuto mobile, imprevedibile, vario, dell’oggetto stesso, non riconducibile a un’astrazione concettuale, a un universale stilizzato, quale la Natura o la Materia. Il peso sempre maggiore assunto da una filosofia delle circostanze accidentali finisce inoltre, come mostra Polizzi, per mettere in crisi l’immagine di scienza che Leopardi ha ricevuto dalla sua frequentazione illuministica giovanile. Intanto alcuni passi dello Zibaldone sembrano contrapporre al paradigma newtoniano, legato a un’idea ferrea, deterministica di legge naturale, l’imprevedibilità dei fenomeni concernenti dapprima la sfera dell’organico, poi del biologico, e infine dell’umano; e ancora, di una crisi del meccanicismo e del suo portato epistemologico - la concezione della scienza come accumulo di conoscenze, come progresso lineare - fa fede il riscontro storico della tortuosità del percorso scientifico, frutto spesso di fattori contingenti, di invenzioni tecnologiche e di scoperte persino casuali. La leopardiana “dialettica dell’illuminismo” se non poteva raggiungere - osserva Polizzi - l’epistemologia contemporanea della complessità, in grado di coniugare determinismo e contingenza, tuttavia ha avuto il merito di denunciare efficacemente l’insufficienza di un modello teorico ereditato dalla tradizione del moderno, senza peraltro cadere nel dilagante spiritualismo della Restaurazione. Quanto Leopardi fosse ostile al clima culturale della Restaurazione è confermato dal contributo di Marina Mangiameli, che ha per oggetto l’epistola in versi indirizzata a Ranieri, pubblicata solo nel 1906 col titolo I nuovi credenti. La sua filosofia “virile”, antispiritualista, incentrata sul “valore sociale del vero”, ironizzava su quegli intellettuali napoletani che per opportunismo carrieristico avevano abiurato al loro illuminismo radicale di gioventù per nuotare nella direzione della corrente. Alla grande tradizione laica e riformatrice napoletana dei tempi di Filangeri e Genovesi subentrava così una generazione intellettuale intenta a conciliare le tematiche del progresso scientifico e politico con lo spiritualismo allora in auge, in un liberalismo incolore tutt’altro che preoccupante per i troni restaurati. Infine Amedeo Marinotti prende spunto da un omaggio a Cesare Luporini che, in anni in cui predominava ancora l’ostracismo crociano, ha avuto il merito di credere nello spessore teoretico dell’opera leopardiana, e ripropone il tema del nichilismo, che Luporini intende come assiologico, giocato sulla contrapposizione di finito e infinito e sulla dialettica fra nulla e valore. Infatti il tema poetico del “naufragar” esprime per Luporini l’ambiguità fra l’annullamento totale di ogni cosa nell’infinito e il valore supremo che l’infinito stesso continua ad avere come orizzonte supremo del desiderio. Carmelo Castelli |