Torna al sommario di Comunicazione Filosofica Comunicazione Filosofica n. 4 - dicembre 1998
A. Cosentino, La formazione dei docenti. Dal cognitivismo al costruttivismo. Introduzione OSSERVAZIONI SULLA FORMAZIONE DI UNA NUOVA IDENTITÀ PROFESSIONALE DEGLI INSEGNANTI
Chi ci ha formato come insegnanti? Con una domanda come questa potrebbe prendere il via una riflessione sullidentità professionale dei docenti italiani, nel momento in cui siamo di fronte ad una svolta storicamente rilevante. Viene, infatti, avviata nelle università una formazione "tecnica" sulla base del riconoscimento che le competenze professionali non sono riducibili e/o riconducibili ai soli elementi di sapere disciplinare oggetto delle specifiche aree di insegnamento e - per linsegnamento nelle scuole elementari e dellinfanzia - sulla base del riconoscimento che alla formazione del vecchio istituto magistrale è necessario sostituire una formazione di livello universitario. Tradizionalmente, sono stati i nostri stessi insegnanti che hanno svolto il ruolo di modelli di professionalità, rinviandoci, in forme per lo più inconsapevoli e spontanee, stili di azione e di interazione didattica, comportamenti tipici, stereotipi e norme professionali. È noto agli studiosi dellinsegnamento e della formazione professionale che allinizio gli apprendisti insegnanti sono fortemente influenzati dalle loro precedenti esperienze scolastiche in qualità di studenti. Da queste esperienze essi hanno ricavato teorie implicite sul rapporto educativo, sui metodi, sul valore stesso delleducazione e tendono a rimanere prigionieri di tali schemi e ad applicarli acriticamente e, soprattutto, senza alcuna attenzione ai mutamenti socio-culturali che, nel frattempo, si sono succeduti (Calderhead J., 1988, a c. di, Teachers Professional Learning, Falmer Press, London; Eraut M., The Acquisition and Use of Educational Theory by Beginning Teachers, in Harvard G.-Hodkinson P., (a c. di), Action and Reflection in Teacher Education, Ablex, Norwood NJ, 1994). La circostanza per cui il sapere "tecnico" si è spostato da una generazione allaltra per vie informali e non intenzionalmente controllate mostra due esiti. Da una parte essa, così sganciata da ogni possibilità di critica e ridotta al massimo grado di uniformità, è risultata abbastanza efficace come procedura formativa. Dallaltra ha prodotto nella classe degli insegnanti una forte ed evidente resistenza al cambiamento. Si potrebbe giustificare questo tipo di formazione dicendo che essa è stata funzionale ad un determinato modello di scuola, quello prevalentemente trasmissivo e, inoltre, ad un certo modello di organizzazione socio-culturale, quello prevalentemente statico-conservativo. Ma in una società come quella attuale in cui il mutamento ha ritmi di accelerazione crescente, il tasso di complessità è piuttosto alto, la scuola stessa è stata chiamata a svolgere ruoli e funzioni più dinamiche, con attese non rinunciabili verso spostamenti radicali (dai prodotti ai processi, dai contenuti alle procedure, dai programmi centralizzati allautonoma progettazione di curricoli). Alla luce di tutto questo si è imposto un ripensamento sulle qualità e la natura della professionalità docente, alla cui formazione sono chiamate ora a provvedere le Università sulla base di quanto dispone la Legge 341 sugli Ordinamenti didattici. Qual è il senso generale di una istituzionalizzazione, per così dire, della formazione professionale dei docenti? Alla luce dellandamento morfologico dei processi formativi lungo il corso della storia, lavvento di una loro formalizzazione con listituzione delle scuole, rappresenta una tappa evolutiva che ha segnato il passaggio da organizzazioni più stabili, maggiormente vincolate alla tradizione - dove il trasferimento dei saperi da una generazione allaltra, data la loro fondamentale stabilità ed esiguità, è assicurata da canali informali - a forme di organizzazione più complesse e dinamiche, dotate di grande mobilità sociale e aperte al nuovo. Per analogia, si potrebbe dire che viene ripercorsa, per la formazione professionale, una tappa che ha segnato il cammino storico delle forme assunte dalla formazione dei giovani: dallassunzione immediata e contestualizzata alla vita della comunità, dei modelli tradizionali di comportamento alla formalizzazione dellinsegnamento delle società moderne; ora, per la formazione dei docenti, dalla trasmissione informale e inconsapevole alla elaborazione aperta e complessa, consapevolmente perseguita, di modelli e pratiche professionali. A questo punto, la prima conseguenza di questo mutamento ha a che fare con una riflessione sul rapporto teoria-pratica in educazione. Se, infatti, una trasmissione informale è possibile attraverso la semplice pratica irriflessa, la costruzione e limplementazione di modelli professionali dinamici richiede un appello alla riflessione e, quindi, alla teoria. Per questa ragione, il punto di partenza della discussione sul rinnovamento della professionalità docente deve essere costituito dalla riflessione relativa al modo di intendere il rapporto tra teoria e pratica in educazione. È un dato di fatto che la teorizzazione pedagogico-didattica è stata istituzionalmente riservata allattività accademica di ricerca, mentre la scuola è apparsa da sempre come il luogo della eventuale applicazione degli esiti e delle implicazioni della teoria. Per questa ragione, anche quando, nel corso del nostro secolo, si è esteso ed intensificato il lavoro della riflessione e della ricerca in educazione, sulla pratica dellinsegnamento e, soprattutto, sul correlativo processo di apprendimento, i mutamenti reali registrati in ambito pratico, nellagire educativo scolastico, sono apparsi piuttosto deludenti (Eisner, 1984). Erdas (1996), nel suo lavoro di chiarimento della portata prioritariamente epistemologica del tema della relazione teoria-pratica in educazione, riporta i termini del più recente dibattito americano sullargomento. La discussione ruota intorno alle posizioni di Fenstermacher (1986, 1987), il quale, avendo postulato sul piano epistemologico una fondamentale autonomia della ricerca teorica rispetto alla pratica dellinsegnamento, giunge a conclusione di ordine più generale che investono le relazioni tra insegnamento e apprendimento, negando che tra i due termini esista una relazione causale diretta. Piuttosto, dal suo punto di vista, gli effetti dellinsegnamento hanno a che fare con quello che egli denomina studenting, cioè le competenze, gli atteggiamenti, gli strumenti necessari per rendere più efficace possibile lazione dello studente in vista del suo apprendimento. Così linsegnamento, sganciato in quanto oggetto di studio dalla prospettiva di presunti risultati pratici, può, più agevolmente, entrare in contatto con la sfera non normativa della ricerca teorica. Quale forma assume, allora, questa relazione tra due termini pensati preliminarmente come autonomi e distaccati? Fenstermacher intravede la possibilità della mediazione tra i due ambiti in una zona di confine, una zona occupata dai cosiddetti "argomenti pratici" (1). Essi appaiono come enunciati che conducono verso il grado più alto di astrazione, se visti dalla prospettiva della pratica dellinsegnamento, e verso il grado più alto di operatività, se visti dalla prospettiva della ricerca teorica. In base agli esempi riportati e alle descrizioni fornite (Erdas, 1996:70 sgg.) un "argomento pratico" è tale se costituisce una catena deduttiva al cui gradino inferiore si trova una specifica azione didattica (es. Strutturazione di una situazione di apprendimento autonomo con relativi materiali, ecc.) e, al gradino più alto, un enunciato di ordine più generale che, sebbene conservi implicazioni di ordine pratico, esibisce, nello stesso tempo, un chiaro rinvio ad un ambito teorico di carattere psicologico, sociologico, docimologico, e così via. Rispetto allesempio riportato sopra lenunciato più prossimo alla teoria potrebbe essere: "Il bambino trae maggiori benefici dallessere trattato come un individuo unico, piuttosto che come membro di un gruppo" (Ibidem, p. 70). È, allora, sul terreno degli "argomenti pratici" che può realizzarsi lincontro tra ricercatore ed insegnante. Il secondo è chiamato ed aiutato a formulare "argomenti pratici" a partire dalla sua pratica didattica, il primo ha il compito di far valere la sua competenza sulle premesse dello stesso argomento. Questa soluzione, proposta da Fenstermacher, ha suscitato interesse, ma anche critiche. Quello che appare evidente è il forte richiamo allindipendenza reciproca di teoria e pratica. Questo assunto epistemologico offre, come suo interessante corollario, la possibilità di guardare allinsegnamento come ad un processo definibile in termini più oggettivi e generali, senza, cioè, le complicazioni e le contestualizzazioni che necessariamente comporta la visione dellinsegnamento come causa dellapprendimento, escludendo anche, in tal modo, le implicazioni di tipo valutativo legate al grado di successo/insuccesso sullapprendimento. Correlativamente, in questa prospettiva, sia linsegnante rispetto al ricercatore, sia lo studente rispetto allinsegnante, vengono esaltati quali soggetti attivi e costruttori responsabili del proprio apprendimento, non più determinati da una sequenza causa-effetto. Tuttavia, come nota Erdas (Ibidem:82 sgg.), nellanalisi di Fenstermacher ricerca e pratica educative restano separate, lasciando aperto linterrogativo sulla natura stessa della ricerca educativa, se essa, cioè, debba svolgersi esclusivamente in ambito teorico e con gli strumenti esclusivi della teoresi (di quale tipo?) oppure debba muoversi dialetticamente tra teoria e pratica. Nel dibattito apertosi sulle tesi di Fenstermacher sono intervenuti altri autori, i cui contributi sono apparsi in maggioranza sulla rivista "Educational Theory" (2). È stato osservato, per esempio, che gli "argomenti pratici" sono connessi ad una molteplicità di ambiti di esperienza dellinsegnante e che, pertanto, non possono essere risolti nei soli binari della ricerca teorica (Buchmann, 1984). Kilbourn (1987) mette in guardia verso i rischi della formalizzazione che gli "argomenti pratici" richiedono. Essa porta linsegnante a distanziarsi dalla realtà della sua azione e comporta il rischio di omologare questa realtà viva alle categorie esclusive della teoria. Comunque sia, quel che appare certa è la rilevanza e la crucialità di un chiarimento, a livello epistemologico, ma soprattutto a livello operativo, sul nesso teoria-pratica relativamente alla ridefinizione della professionalità docente. Questo mette in gioco, innanzitutto, una ricerca di criteri e di parametri condivisibili per fissare una connotazione non vaga del termine "professione" e, successivamente, per rintracciare la specificità di una pratica professionale tra le altre. Si tratta, in altri termini, di individuare ed analizzare il genere "professionista" e di porre poi in evidenza le differenze specifiche del professionista "docente". Questa sorta di classificazione, daltra parte, non può non essere connessa con i contesti storico-culturali dai quali le pratiche e le distinzioni professionali provengono e a cui appartengono. Essa, pertanto, dovrà essere attenta ai mutamenti e anche agli elementi di continuità, muovendosi tra un orizzonte diacronico ed una prospettiva di comparazione sincronica. La storia delle società moderne ci dice che il professionismo è andato crescendo di pari passo con lavanzata della razionalizzazione della società. Negli Stati Uniti, nel 1900 i professionisti costituivano il 4% dellintera forza lavoro, nel 1950 la percentuale aveva raggiunto l8% e nel 1966 il 13% (Bell, 1972) (3). Man mano che la richiesta di professionalità è andata aumentando, sono diventati anche sempre più netti i contorni e i connotati del "professionista". In primo luogo con la distanza che la "professione" assume rispetto alla "vocazione" (Moore, 1970). Professionista è colui che possiede delle conoscenze scientifiche riconosciute e le sa applicare a problemi specifici, operando nel campo ristretto dei mezzi. Stando a questo modello, è possibile stabilire una graduatoria delle professioni, distinguendo le "maggiori" dalle "minori". "Maggiori" sono le professioni in cui il sapere disciplinare di base appare più certo e solido e dove gli scopi sono più chiari e universalmente accettati e riconosciuti (medicina, legge, ingegneria). "Minori" sono le professioni in cui gli scopi dellattività possono apparire ambigui e il rigore delle scienze di base è più debole (insegnamento, economia, politica, attività sociali, ecc.) (Glazer, 1974; Etzoni, 1969). Secondo questa tassonomia tradizionale, quella dellinsegnamento viene classificata come professione di seconda categoria, per la ragione che essa non ha, alle sue spalle, dei saperi rigorosi (secondo il rigore della scienza), non ha assicurazioni rispetto alle sue finalità e scopi, è permeabile, per questo, alla critica e non riesce a chiudersi rispetto allopinione pubblica e al senso comune. È abbastanza chiaro che la classificazione riportata obbedisce ad una epistemologia di stampo positivistico-tecnologico, basata su alcune distinzioni tipiche. Teoria e prassi appartengono a due sfere separate. La scienza dei positivisti è quella nata nel laboratorio dove, soltanto, è possibile costruire esperimenti controllati, avendo a che fare con un numero finito e ben noto di variabili ed eludendo qualsiasi vincolo rispetto a valori, emozioni, soggettività, storicità. Da un altro punto di vista, da cui il paradigma positivistico si mostra nella sua debolezza ed insufficienza, il quadro fin qui descritto potrebbe rovesciarsi e il risultato sarebbe la possibilità di rivedere in una diversa luce lo stesso concetto di professionalità, nonché le conseguenti classificazioni delle professioni che da quello derivano. In realtà, nel corso del Novecento altre epistemologie si sono fatte strada e i processi della conoscenza (compresa quella delle scienze) sono stati riconsiderati nellottica di una pluralità di modelli di razionalità che hanno tenuto conto dellorizzonte linguistico-ermeneutico, di quello emozionale, di quello storico-sociale, ecc. Si è aperta, così, la strada verso prospettive di ricerca e concezioni più variegate e policentriche che, nel riconoscimento della complessità, trovano un terreno comune ed un paradigma promettente (4). Considerata dal punto di vista italiano, come si colloca la questione della professionalità docente in questo quadro di carattere più generale? In larga misura, il caso italiano rappresenta una vistosa anomalia per cui è abbastanza problematico rapportarlo sic et simpliciter alle linee di generalizzazione che si possono ricavare dallo sviluppo storico-sociale dei paesi occidentali. L'anomalia che bisogna chiarire consiste nel fatto che in Italia, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, non è mai stata istituita una scuola per la formazione professionale dei docenti. Lo stesso istituto magistrale voluto da Gentile è pensato all'interno di una logica che è ben lontana da un più moderno modello di professionalità. La circostanza, come è noto, è connessa con la pedagogia e la filosofia neoidealistica per la quale la conoscenza della disciplina da insegnare copriva ed inglobava anche i metodi. L'insegnamento era, per Gentile, una questione di "vocazione" e di "arte". Storicamente il passaggio dalla "vocazione" alla "professione" può essere fatto coincidere in Italia col passaggio dalla pedagogia neoidealistica a quella attivistica del secondo dopoguerra. Un avanzamento verso unidentità professionale disegnata sul modello della razionalità tecnologica si è affermato a partire dagli anni Settanta. Gli anni Novanta assistono ad una crisi di questo modello e, alle soglie del Duemila, si profila la possibilità di pensare la formazione del docente in termini più complessi, tali da superare decisamente gli elementi di tecnicismo miope ed ogni residuo di meccanicismo. Risale al 1974 la prima formulazione legislativa che riguarda la riforma della formazione dei docenti. Nella Legge delega n. 477 del 1973 si parla, infatti, di "prospettiva... di una formazione universitaria completa da richiedere come requisito di base a tutti i docenti". Questa "prospettiva", sebbene diventi legge con il D.P.R. n. 417 (nell'art. 7) del 1974, è destinata a restare lettera morta fino al 1990 allorché la legge 341 ha previsto listituzione delle scuole di formazione per gli insegnanti ed una formazione universitaria completa anche per gli insegnanti della scuola elementare e materna, scuole che, finalmente, prendono il via nell'anno accademico 1998-99 (5). E a questo punto, si potrebbe dire, l'anomalia italiana cessa di esistere e tutto si incanala nella normalità. Non è detto, invece, che sia così, e per la buona ragione che, proprio nel momento in cui ci si accinge a formare una professionalità riconosciuta nella sua relativa indipendenza dalle competenze strettamente disciplinari, bisogna fare i conti con l'aria di crisi che si respira nei dintorni dei modelli formativi finora in auge, quelli che, sinteticamente, potremmo definire di stampo tyleriano-bruneriano, o cognitivista. Sebbene modelli e procedure della razionalizzazione didattica siano stati da tempo introdotti dalla nostra legislazione scolastica (programmi della Scuola media del 1979, Programmi della Scuola elementare del 1985 ed Orientamenti per la Scuola dell'infanzia del 1990,), nella realtà della prassi didattica essi sono mediamente assunti come rituali di un formalismo burocratico che non ha intaccato la sostanza del rapporto educativo. Da questo punto di vista, la maggioranza degli insegnanti italiani- soprattutto nella scuola secondaria - continuano ad affidarsi all'improvvisazione e ai procedimenti di "prova ed errore", operando più nelle forme del bricolage, anziché della sistematicità e del rigore, accordando un primato quasi assoluto ai contenuti disciplinari, spesso assunti come fini in sé. Quale modello di formazione professionale proporre, allora, per il prossimo millennio? L'opposizione pedagogia-scienze dell'educazione può essere vista nella prospettiva di una sua composizione dialettica ora che le scienze dell'educazione hanno mostrato i loro limiti, non come scienze, ma come presunte depositarie esclusive del controllo dei processi educativi. Non c'è dubbio che, per costruire una professionalità riconoscibile, è irrinunciabile la padronanza di una corpo di conoscenze di base dotate del massimo grado di rigore e di oggettività possibile; ma ciò non è sufficiente, dato che il professionista ha a che fare con casi particolari inscritti sempre in un preciso contesto di vita dalle mille variabili e dato che il suo compito è l'azione tendente a cambiare una situazione: il suo è un compito pratico. Teoria e pratica si intrecciano e, direi, si confondono nel lavoro professionale e questo vale, ancor più, nel caso dell'insegnante. Chiarire questo rapporto significa andare al di là dello schema razionalistico-tecnologico secondo il quale la teoria (le scienze dell'educazione) è sviluppata in contesti di ricerca separati dall'azione educativa ed autonomi rispetto ad essa e la pratica degli insegnanti, d'altra parte, è chiamata ad applicare i risultati delle scienze nei contesti reali senza alcun coinvolgimento nella ricerca stessa. L'insegnante di domani dovrebbe essere capace di avvicinarsi il più possibile alla figura ideal-tipica del "professionista riflessivo" (Schön, 1983), un attore di una pratica che, come tale, implica abilità di tipo "artistico" e coinvolgimento sul piano assiologico e politico, ma pronto, nel contempo a riflettere sulla sua azione e dentro la sua azione sulla base di adeguate conoscenze teoriche e proponendosi, in tal modo, anche come ricercatore-partecipe dei processi in cui è collocato.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Bell D. (1972), Labor in the Post-Industrial Society, in "Dissent", 19/1, Inverno, pp. 70-80. Bocchi G.- Ceruti M. (a c.di) (1991), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano. Buchmann M., (1984), The Use of Researsh Knowledge in Teacher Education and Teaching, in "American Journal of Education", Vol. 92, p. 422. Calderhead J., (1988), a c. di, Teachers Professional Learning, Falmer Press, London. Confrey J. (1987), Bridging Researsh and Practice, Vol. 37, N° 4. Eisner E.W., (1984), Can Educational Research Inform Educational Practice? In "Phi Delta Kappan", Marzo, p. 448. Eraut M., The Acquisition and Use of Educational Theory by Beginning Teachers, in Harvard G. Erdas F.E., (1996), L'educazione interminabile, Armando, Roma. Etzoni A., (1969), a c.di, The Semi-Professions and Their Organization. Teachers, Nurses and Social Workers, Free Press, New York. Cit. in Insegn. Oggi, p. 24. Fenstermacher G. D., (1987), Prologue to my Critics, in "Educational Theory", Vol. 37, N° 4. Glazer N., (1974), Schools of the Minor Professions, in "Minerva".Cit. da Schon, Cap.2, nota 6. Green T.F. (1976), Teacher Competence as Practical Rationality, in "Educational Theory", Vol. 26, N° 3, p. 253.Cit. da Erdas, p. 85, nota 12. Hodkinson P., (a c. di), Action and Reflection in Teacher Education, Ablex, Norwood NJ, 1994. Kilbourn B., (1987), The Nature of Data for Reflecting on Teaching Situations, Vol. 37, N° 4, p. 379.Cit. da Erdas, p. 86, nota 44. Moore W., (1970), The Professions, Russell Sage Foundation, New York. Munby H. (1987), The dubious of Practical Arguments and Scientific Knowledge in the Thinking of Teachers, Vol. 37, N° 4, p. 362.Cit. da Erdas, p. 86, nota 35. Russel T.L. (1987), Researsh, Practical Knowledge, and the Conduct of Teacher Education, Vol. 37, N° 4, p. 374. Schön D. A., (1983), The Reflective Practitioner, Basic Books, New York; trad. it. Il professionista riflessivo, Dedalo, Roma 1993. Wittrock M. C., (a c. di), Handbook on Researsh on Teaching, Macmillan, New York.Cit. da Erdas, p. 85, nota 16. --------- NOTE 1 Lespressione era stata già introdotta dal filosofo delleducazione Green (Cfr. Green, 1976:253), il quale la aveva utilizzata nellanalisi del rapporto insegnamento-apprendimento. Per Green, le competenze necessarie ad un insegnamento di successo sono quelle che "permettono allinsegnante di modificare i valori di verità delle premesse degli argomenti pratici nella mente dei ragazzi" (Riportato in Erdas, 1996:66). 2 Si vedano, in particolare, gli articoli seguenti: Confrey, 1987; Munby, 1987; Russel, 1987; Kilbourn, 1987. 3 LAutore, azzardando una previsione per il futuro, si aspetta che per lanno 2000 la percentuale di professionisti è destinata a salire al 25% della forza lavoro. 4 In particolare sul tema della complessità, cfr. Bocchi- Ceruti, 1991. 5 Un primo contributo alla definizione del quadro di abilità da sviluppare negli insegnanti è il documento approvato dalla commissione MURST-MPI nella seduta dell11.12.1997. Nellelenco appaiono di particolare rilievo le seguenti: a) ascoltare, osservare, comprendere gli allievi; b) esercitare le proprie funzioni in stretta collaborazione con i colleghi, le famiglie, le autorità scolastiche, le agenzie formative, produttive e rappresentative del territorio; c) rendere significative, sistematiche, complesse e motivanti le attività didattiche attraverso una progettazione curricolare flessibile che includa decisioni rispetto a obiettivi, aree di conoscenza, metodi didattici; d) rendere gli allievi partecipi del dominio di conoscenza e di esperienza in cui operano; e) gestire la comunicazione con gli allievi e linterazione tra loro come strumenti essenziali per la costruzione di atteggiamenti, abilità, esperienze, conoscenze e per larricchimento del piacere di esprimersi e di apprendere e della fiducia nel poter acquisire nuove conoscenze; f) promuovere linnovazione nella scuola; g) assumere il proprio ruolo sociale nel quadro dellautonomia della scuola. |