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Comunicazione Filosofica n. 6 - novembre 1999

 

Antonio Cosentino

AUTONOMIA NELL’APPRENDIMENTO E INTERPRETAZIONE DEI TESTI FILOSOFICI

 

La maggior parte delle riforme, più recenti e meno recenti, dei sistemi scolastici si è rivelata fallimentare rispetto al piano dei principali obiettivi perseguiti. Se il riformismo è diventato una istituzione permanente, la ragione sta anche nella ricorrente insoddisfazione nei confronti dei suoi prodotti. In un’ottica funzionalista, una spiegazione "disincantata" di questo stato di cose pone una correlazione strutturale tra il perpetuarsi delle pratiche riformistiche e i caratteri propri delle società moderne (Luhmann N., Il sistema educativo ed i sistemi del suo ambiente, in Borrelli M., (a c. di), Metodologia delle scienze sociali, Pellegrini, Cosenza 1998.; Luhmann N.-Schorr K. E., Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando, Roma 1988).

Allorché, nella società moderna, si è compiuto il processo di diversificazione funzionale, per cui ogni sistema si è differenziato ed ha raggiunto una sua autonomia dagli altri e dall’ambiente sociale complessivo, non è più possibile comprendere come unità il sistema sociale. Esso, avendo persa la sua tradizionale organizzazione gerarchica, ha irrimediabilmente perduto anche la sua unità e coerenza interna. Nello stato di diversificazione funzionale, secondo Luhmann, ogni sistema percepisce e descrive la relazione con gli altri sistemi e con la totalità a cui appartiene secernendo una attività riflessiva che non consente, tuttavia, al sistema di uscire fuori di sé. Questo vuol dire, per esempio, che quando i pedagogisti descrivono l’ambiente sociale in cui è collocato il sistema educativo, finiscono inevitabilmente per descrivere una società già pedagogizzata. Un sistema, infatti, non può osservare come unità il proprio rapporto con l’ambiente, altrimenti si dissolverebbe in quest’ultimo.

Per il sistema educativo, ciò significherebbe che i risultati dell’attività educativa sono attività educativa (non scientifica, non sociale, non politica, ecc.). Significa anche che esso utilizza "internamente al sistema descrizioni che si rapportano all’ambiente del sistema. Problemi che, visti dall’esterno, conseguono dalle relazioni tra sistema e ambiente, vengono sperimentati come elementi di disturbo e riportati su conti interni al sistema. Si perviene così ad una costruzione di mondo e di società che si fonda operazionalmente, ma che nel sistema viene assunta come la realtà"(Luhmann, 1998, p.183).

Una tale descrizione di un sistema (compreso quello educativo) esclude da esso qualsiasi potenzialità emancipativa e, soprattutto, non ammette altro che le leggi inesorabili della logica della diversificazione funzionale della società moderna. In questo quadro teorico non c’è spazio se non per i processi che regolano il flusso delle relazioni sistemiche, tutto il resto ricade nella paradossalità della differenza obliata, dai reiterati progetti di riforma alle autodescrizioni che il sistema educativo produce ininterrottamente. Secondo Luhmann, dunque, le indecidibilità del sistema, in generale, danno la possibilità all’Establishment pedagogico di perpetuare la critica e la progettazione riformistica.

Tuttavia, l’utilizzazione che Luhmann fa della teoria sistemica contiene, a sua volta, una paradossalità non risolta consistente nell’assunzione implicita di un punto di vista (quello dell’osservatore) che presume di potersi collocare fuori dal sistema a cui appartiene il suo discorso. Questo non solo contraddice le premesse della prospettiva sistemica, ma rappresenta un limite significativo per l’analisi dei sistemi educativi, in quanto essi, ridotti alla logica funzionalista, appaiono incapaci di dar conto delle loro potenzialità evolutive e creative, nonché della loro storia.

Ha ragione Luhmann a ritenere che le riforme sono generalmente destinate a mantenere lo status quo complessivo ed ha ragione perché, nella maggior parte dei casi, l’attività riformistica agisce sui confini esterni del sistema scolastico; le motivazioni del riformismo - che hanno a che fare quasi sempre con le finalità generali dell’educazione - si inquadrano, per lo più, in progettazioni che hanno la loro origine in altri sotto-sistemi (politica, economia, etica, ecc.). Per queste ragioni il nucleo essenziale dei sistemi educativi non è stato mai sfiorato, se non retoricamente, dalle riforme. Esso permane immutato nel corso dei decenni, trasferendosi invariato da una generazione all’altra con la complicità dell’oblio in cui è accuratamente tenuto dai riformatori (Tharp r.g.-gallimore R., Rousing minds to life, Cambridge University Press, 1988).

Che cosa costituisce l’anima stessa di un sistema educativo, se non la viva relazione didattica che giorno per giorno si rinnova nelle classi scolastiche?

Ora, una attività di riforma che assumesse come suo oggetto principale proprio la viva relazione didattica e che partisse dall’interno del sistema stesso, dovrebbe riguardare, in prima istanza, un ripensamento delle categorie fondamentali di questa relazione che includono, in primo luogo, quelle di insegnamento e di apprendimento e, sullo sfondo, quelle di teoria e pratica in educazione e le loro reciproche relazioni.

Spostando il discorso sul terreno dell’attualità della politica scolastica italiana, ritengo che l’autonomia, come paradigma in nome del quale si sta inaugurando l’ultima stagione riformistica, rappresenti, in questa prospettiva, un’autentica opportunità, non assimilabile, per la sua natura, a quelle del passato. Essa ha, in linea di principio, i titoli per fuoruscire dalla logica delle "botti nuove per il vecchio vino" per il fatto evidente che, se non finisce per negare se stessa, si situa in una dimensione che sta più a monte rispetto ai contenuti delle riforme possibili; si limita ad affermare la regola che toglie le regole, un valore che riduce i disvalori, dischiudendo uno spazio per nuove assunzioni di responsabilità e per coraggiose progettazioni all’interno della scuola reale.

Autonomia deve voler dire che l’innovazione riformistica deve tenere più sullo sfondo le motivazioni esterne al sistema educativo (mercato del lavoro, politiche sociali) e centrarsi su spinte provenienti dall’interno mediate da un processo di auto-riconoscimento il più rigoroso possibile, tale da rendere più trasparenti i limiti e le possibilità dell’educazione istituzionalizzata nella società del prossimo millennio.

Da un punto di vista interno alla comunicazione educativa è essenziale, per esempio, il riconoscimento della sostanziale asimmetria in cui si trovano dislocati i diversi soggetti chiamati ad interagire, in primo luogo gli insegnanti, da una parte, e gli studenti, dall’altra.

La psicologia dell’apprendimento più avanzata, riconoscendo i limiti del cognitivismo, si muove, nei suoi esiti più recenti, verso modelli che riconoscono nel costruttivismo epistemologico l’orientamento più promettente per la descrizione ed il controllo dei processi di acquisizione della conoscenza. Sia il costruttivismo "cognitivo" di derivazione piagetiana, sia il costruttivismo "sociale", di derivazione vygotskiana, ruotano intorno al principio di "autonomia", sebbene lo intendano in modi diversi.

L’epistemologia genetica di Piaget costituisce un polo di convergenza, sul piano psicologico, di tutte le obiezioni, vecchie e nuove, alle concezioni rappresentazionali della conoscenza, in una parola, a tutta la tradizione etichettata da Putnam come "realismo metafisico" che ha contrassegnato l’intera storia della filosofia occidentale fino a Kant (Putnam H., Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano, 1985).

Se dall’assunto piagetiano secondo cui "la mente organizza il mondo organizzando se stessa" (Piaget J., La costruzione del reale nel bambino, La Nuova Italia, Firenxe 1955, p. 311), si ricava l’ipotesi che il mondo sia una nostra costruzione (Cfr. Goodman N., Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari 1988), allora l’attenzione epistemologica si trasferisce dal piano delle relazioni tra un soggetto e un presunto oggetto esterno, a quello dei processi interni al soggetto, e l’oggetto primario della conoscenza diventa la scoperta delle procedure e delle strutture cognitive che portano alla costruzione di un mondo.

Sviluppando le tesi fondamentali dell’epistemologia genetica, il costruttivismo cognitivo le ha confrontate con gli ambiti disciplinari della cibernetica e della linguistica. Dalla nozione di "adattamento", centrale nella teoria piagetiana della conoscenza, Ernst von Glasersfeld (Cfr. Il costruttivismo radicale, Società Stampa Sportiva, Roma 1998) ha derivato il concetto di "viabilità" (dall’inglese viability, il cui primo significato è "capace di sopravvivere") che l’autore preferisce per connotare il grado di efficacia di una conoscenza e che utilizza al posto della tradizionale nozione di "verità", intesa, questa, come corrispondenza tra un ordine delle idee all’ordine dei fatti. La versione "radicale" del costruttivismo non fa che enfatizzare il grado di autonomia che accompagna i processi di organizzazione del mondo esperienziale di ciascun soggetto. Con le parole di von Glasersfeld: "Non possiamo condividere la nostra esperienza con altri, possiamo solo raccontarla... Ciò che gli altri capiscono quando parliamo o scriviamo è necessariamente in termini di significati che la loro esperienza li ha condotti ad associare alle immagini sonore delle parole... la loro esperienza non è mai identica alla nostra"(Ibidem, p. 48).

Così, cadute tutte le pretese di oggettività, resta aperto il problema di come la sua natura essenzialmente soggettiva non entri in contraddizione con la relativa stabilità, comunicabilità e generalizzabilità della conoscenza. Questo è il punto teorico in cui il costruttivismo radicale esibisce i suoi lati problematici e, nello stesso tempo, offre delle aperture verso il versante opposto, quello del costruttivismo socio-culturale di derivazione vygotskiana. Da una parte, infatti, è portato ad accogliere la proposta di matrice pragmatista-popperiana che fa appello all’orizzonte della intersoggettività come tribunale chiamato a giudicare del grado di "viabilità" di ogni conoscenza e anche delle azioni, nelle relazioni intersoggettive di natura pratica. Dall’altra finisce per ribadire le sue premesse che reclamano che gli altri soggetti chiamati in causa siano, anch’essi, una costruzione.

Nella sfera della comunicazione e dell’uso del linguaggio questo assunto implica che non esistono significati condivisi. Utilizzando un concetto vygotskiano, si potrebbe dire che le parole e i simboli in genere hanno una "equivalenza funzionale", ma non corrispondono ad un’identità di concettualizzazioni e di senso nei diversi interlocutori (Cfr. Vygotskij L. S., Pensiero e Linguaggio, Laterza, Bari 1992). I significati sono, piuttosto negoziabili attraverso un continuo e reciproco lavoro di interpretazione e, mentre per Vygotskij l’equivalenza funzionale rappresenta una fase provvisoria e preparatoria della coincidenza della significazione nei concetti scientifici, per il costruttivismo radicale l’asimmetria comunicativa è una condizione permanente ed ineliminabile. Quello che, al massimo, si può aggiungere è che la consapevolezza della inevitabile indeterminatezza della comunicazione e delle possibili variazioni semantiche dei termini del linguaggio è un requisito significativo per migliorare la stessa comunicazione.

Dal punto di vista del costruttivismo socio-culturale, il luogo dell’autonomia è individuato nell’area delle transazioni tra individuo e l’ambiente, processo dinamico che comporta mutamenti sia per il primo che per il secondo. Contrariamente a quanto avviene secondo Piaget, in questo caso la direzione del movimento va dal contesto esterno all’individuo, secondo l’articolazione del passaggio dal piano intermentale a quello intramentale. In questa prospettiva, autonomia si può intendere in due sensi correlati. In un primo senso essa è sintetizzata dalla nozione di interiorizzazione, la quale sottolinea il carattere attivo della traduzione delle conoscenze dall’intermentale all’intramentale. A questo significato di autonomia è connesso il concetto di "zona di sviluppo prossimale". Essa descrive l’area sensibile dello sviluppo, il confine reattivo della mente dell’individuo che connota lo stato di apertura alla comunicazione e la predisposizione ad inglobare nuovi modelli attraverso l’imitazione possibile.

Un secondo significato attribuibile ad autonomia nell’orizzonte della cosiddetta "situeted cognition" è ravvisabile nel nesso inscindibile posto tra l’identità individuale e le pratiche socio-culturali tipiche del contesto di appartenenza. Si potrebbe ragionevolmente dire che, in questa seconda versione, l’autonomia è pertinente piuttosto ad una particolare nicchia antropologica e culturale, anziché all’individuo. Nonostante le più o meno marcate differenze che separano le linee dell’epistemologia costruttivista, è evidente, come prospettiva condivisa, l’implicazione che l’apprendimento non parte mai da zero. Da un punto di vista dei processi formativi, il corrispondente assunto di base sarà che lo studente, quando si trova di fronte all’offerta educativa scolastica, non può azzerare tutta la sua esperienza precedente, in base alla quale si è costituito come unità coerente e tendenzialmente chiusa.

Il concetto di "chiusura operazionale" è alla base di modelli cibernetici che sono stati applicati con successo dalle neuroscienze e in particolare nel campo della biologia della cognizione (Cfr. Varela F. J., Complessità del cervello e autonomia del vivente, in Bocchi G.- Ceruti M., (a c. di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1991. Inoltre: Maturana H-Varela F. J., Autopiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1985).

Per chiarire meglio il senso di questo concetto, facciamo un breve riferimento agli studi sull’anatomia del sistema visivo riferiti da Varela. In sintesi, quel che emerge è che meno del 20% dei segnali che arrivano al corpo genicolato, un centro collocato nella parte più profonda del mesencefalo che ha il compito di trasmettere i segnali all’area visiva della corteccia, ha origine nella retina; il resto che serve a comporre il risultato finale della visione proviene da altre parti dello stesso cervello. Generalizzando questo schema, si può dire che la conoscenza viene costruita all’interno del soggetto conoscente mediante la relazione con il suo ambiente o, se si vuole, in termini piagetiani, come reazione costruttiva e ricostruttiva delle strutture cognitive di fronte alle perturbazioni prodotte dalla relazione con l’ambiente.

La chiusura operazionale implica, come suo necessario corollario, la messa tra parentesi dell’oggettività del mondo conosciuto e, nello stesso tempo, il riconoscimento del più alto grado di autonomia ai sistemi viventi, i quali, per effetto della chiusura si autoproducono come individui distinti, producono un proprio mondo e il senso di questo mondo.

Se riportiamo il discorso sul sistema scolastico e mettiamo tra parentesi le eventuali ragioni politiche, etiche o di riorganizzazione generale del sistema sociale, troveremo che sulla sponda opposta al principio dell’autonomia, si trova un modello di scuola che ha fatto della trasmissione delle conoscenze la sua funziona primaria. Le epistemologie che stanno a monte di un tale modello di scuola, nonostante la gamma delle variazioni estrinseche e di facciata, convergono verso posizioni di oggettivismo sostanziale, anche nelle versioni più addolcite di didattiche sedicenti attive. È il caso delle metodologie incentrate sull’apprendimento "per scoperta" che tendono ad identificare lo studio con la ricerca. Se riflettiamo sulle premesse epistemologiche implicite di un tale approccio didattico, apparirà chiara la sua affiliazione all’orizzonte teorico dell’empirismo, con un soggetto (epistemico, non situato in un contesto) che si rappresenta un oggetto (dato in una sua oggettiva ipostatizzazione) attraverso un processo di induzione.

Il costruttivismo, invece, rivolge la sua attenzione alle attività mentali del soggetto che apprende e, dal lato più specifico del socio-culturalismo, alle pratiche culturali che si svolgono nell’ambiente circostante. Una didattica coerente con tali assunti punta a sviluppare la capacità di indagare nei processi di costruzione cognitiva mediante la quale si legge il mondo e si producono significati. Non c’è un soggetto ed un oggetto già costituiti che si confrontano nel processo dell’apprendimento, quanto piuttosto il processo per cui un soggetto si forma interiorizzando attivamente le forme di vita ed i significati che circolano nel contesto culturale in cui è situato. Allo stesso tempo, questa dialettica esterno-interno, per la molteplicità e la varietà di situazioni con cui deve fare i conti, ha sbocchi imprevedibili e lascia spazio alla creatività.

La formazione non è mai il travaso meccanico ed uniforme di modelli antropologici e culturali esterni verso l’interno del soggetto. Essa è sempre anche interpretazione, per cui ciascuna interazione interno-esterno, per essere significativa ed evolutiva, deve poggiare sulla mediazione di strutture cognitive ed orizzonti di senso già organizzati all’interno di ogni soggetto. Così, la caratterizzazione qualitativa dell’apprendimento è correlata al numero e al carattere dei collegamenti dei nuovi dati con quelli già posseduti e dall’attività di auto-monitoraggio che il soggetto che apprende sviluppa rispetto a se stesso. In ultima analisi, come si vede, la qualità dell’apprendimento è dipendente in primo luogo dall’attività meta-cognitiva.

Una didattica di ispirazione costruttivista non è da confondere con un generico atteggiamento di indulgenza verso le interpretazioni e il punto di vista degli studenti a discapito delle "risposte esatte" e dei contenuti disciplinari. L’attività di costruzione in cui il soggetto è impegnato non riguarda direttamente i contenuti, che possono essere i dati informativi di una disciplina, bensì gli ordinamenti dei dati in strutture cognitive e in sequenze di significati e la loro integrazione nelle "ecologie cognitive" complessive. Una tale didattica è centrata soprattutto sulla rete di relazioni in cui il soggetto si situa e sui modi come il soggetto opera per costruire dinamicamente una logica di senso e di unità nella complessità delle interazioni in cui è coinvolto.

Ciò che apre prospettive nuove ed interessanti alla relazione educativa è la focalizzazione dell’attenzione sulle strutture cognitive. Nell’ottica di un insegnamento praticato come trasmissione di conoscenze, le strutture concettuali e le costruzioni di senso sono lasciate all’attività privata del soggetto che apprende; non emergono nell’area dinamica del rapporto educativo come variabili del gioco e come fattori di cui tenere conto: non se ne sa nulla. In molti casi neanche il soggetto a cui appartengono ne sa nulla.

Allora, il problema non è tanto se l’apprendimento debba avere o no per oggetto dei contenuti codificati. Per la didattica, il problema è come accompagnare e sostenere il processo per cui la conoscenza formale-disciplinare possa svolgere l’importante funzione di strumento di mediazione simbolica al servizio dello sviluppo e non dell’erudizione estrinseca. Non si tratta di rinnegare la conoscenza formale; si tratta di renderla meno separata da quella "vitale" e di contestualizzarla. Assolvendo a questo compito, la scuola si colloca tra individuo e società, in una funzione di mediazione, non sempre facile, tra esigenza di "risposte giuste" (conformi alla tradizione o ai dati dei saperi disciplinari) e rispetto per i punti di vista già acquisiti e le interpretazioni soggettive. La didattica non si limita a prendere atto della costruzione dei tanti significati possibili, ma opera per organizzare ambienti di apprendimento tali da far crescere i significati condivisi. Non solo, ma è attenta a riconoscere la molteplicità di vie di accesso alla conoscenza, alla differenza di stili di pensiero e alla varietà di background culturali che guidano e orientano il soggetto nella sua attività di apprendimento (Gardner H., Formae mentis, Feltrinelli, Milano 1987).

La scommessa è quella di trasformare la scuola da cinghia di trasmissione che procede in una sola direzione, dalla società all’alunno, in un luogo di incontro e di dialogo tra i due termini entro i quali l’attività formativa si colloca. Dipenderà dal grado di consapevolezza che i docenti sviluppano rispetto all’intera dinamica se le scuole potranno essere le "progressive discourse communities" proposte da Bereiter (Bereiter C., Implications of Postmodernism for science, or, science as progressive discourse, in "Educational Psychologist", 29, 1/1994, pp. 3-12.) o le "communities of inquiry" proposte da Lipman (Lipman M., Thinking in Education, Cambridge University Press, 1991), nella prospettiva di fare del costruttivismo (psicologico e socioculturale) la piattaforma di una didattica in cui il testo e l’insegnante cessino di essere, comunque, un’autorità e il metodo dell’apprendimento "per scoperta" cessi di interpretare come oggetto della scoperta, la risposta, unica, che l’insegnante ha nella mente.

Rispetto alle prospettive illustrate fin qui, l’insegnamento della filosofia ha i requisiti potenziali per fare da battistrada e da modello. Senza allargare il discorso sul suo particolare statuto epistemologico o sulle alternative metodologiche tra metodo "storico" e metodo "zetetico", concentrerò le mie riflessioni su una pratica dell’insegnamento filosofico che appare, con consenso pressoché unanime, come la via maestra dell’innovazione della didattica: la lettura ed interpretazione dei testi filosofici.

È una attività i cui esiti non sono affatto scontati e che richiede una riflessione allargata alla questione più generale del linguaggio - o dei linguaggi- e della comunicazione in un contesto, come il nostro, della comunicazione di massa e della multimedialità.

Sembra ritornare di grande attualità un tema che risale alle origini della filosofia e trova la sua espressione dilemmatica in Platone: il rapporto tra oralità e scrittura (Platone, Fedro, 274c-276a). Si consideri che anche quando il discorso filosofico è fissato nella scrittura, esso non cessa di incorporare la sua matrice dialogica, che il lettore/interprete può riportare alla luce riattualizzandolo. Ancora oggi si impone una riflessione sui diversi codici linguistici, sulle reciproche relazioni e sulle relazioni tra linguaggi e forme di pensiero, in un quadro di elevata complessità, visto che nel "villaggio globale" in cui siamo situati circola una molteplicità di linguaggi, dall’oralità alla scrittura, ai linguaggi iconici e ad una serie di ibridazioni che comprendono, per esempio, la scrittura elettronica, la stessa televisione, ecc.

È in questo scenario di multimedialità che bisogna inquadrare oggi la questione della lettura di un testo filosofico a scuola e domandarsi:

1. Come si rapporta un testo filosofico con la scrittura, con l’oralità, col linguaggio iconico?

2. Con quali strutture cognitive (quelle prevalenti negli studenti della scuola di massa) deve fare i conti l’incontro con un testo filosofico?

3. Come si affrontano i problemi derivanti dalla differenza (determinata storicamente) di orizzonti tra autore ed interprete?

4. Quali obiettivi formativi si perseguono con la lettura e l’analisi dei testi filosofici?

Sarà più agevole rintracciare qualche risposta a queste e ad altre domande, se ci poniamo in una prospettiva dinamico-evolutiva, considerando, cioè, l’apprendimento come un processo che un suo preciso punto di inizio, le sue tappe, una sua meta finale. Se ci poniamo da questo punto di vista, troveremo che quelli che sembrano, in astratto, opposizioni irriducibili, trovano una loro plausibile composizione e, anzi, un’utile complementarità. Prendiamo, ad esempio, la coppia di opposti contenente le categorie "soggettivo" ed "oggettivo" in riferimento alla interpretazione di un testo. In altri termini, di un testo quante interpretazioni si possono avere? Se riteniamo che una sola è l’interpretazione corretta, implicando che essa corrisponde a ciò che l’autore voleva comunicare, stiamo perseguendo l’obiettivo di indicare un metodo di ermeneutica oggettiva (Cfr. Brandt R., La lettura del testo filosofico, Laterza, Roma-Bari 1998). Se, al contrario, riteniamo che il contenuto di un testo, i suoi significati ed il suo senso, derivino dall’incontro dialogico tra autore e lettore (Cfr. Gadamer H. G., Filosofia ermeneutica, La Nuova Italia, Firenze 1999; Gadamer H. G., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983) ), allora saranno ammissibili più interpretazioni dello stesso testo. Anche in questo caso, tuttavia, ci chiederemo se c’è un limite alla gamma delle interpretazioni e, se c’è, qual è il vincolo che lo determina.

Da un punto di vista didattico, queste che appaiono come alternative più o meno irriducibili, possono, invece, diventare semplicemente tappe differenziate di un medesimo percorso. Se, infatti, il nostro insegnamento vuole prendere le mosse dal punto in cui ogni studente si trova (condizioni di partenza), sarà opportuno accettare preliminarmente anche la soggettività più arbitraria nella lettura di un testo e non porre alcun limite alla gamma delle interpretazioni. Questa fase del lavoro sarà particolarmente utile per le seguenti ragioni:

1. Consente una diagnosi sulle strutture cognitive e le generali ecologie mentali dello studente. Chiunque tenti di interpretare un testo non può evitare di a fare appello ad una pre-comprensione (Cfr. Gadamer, Verità e metodo, cit.) basata sulle sue aspettative (pre-giudizi ed esperienze precedenti). Col linguaggio di Piaget, si direbbe che la prima operazione consiste in una assimilazione. Nel fare questo, lo studente mette in gioco se stesso.

2. Permette di avviare un processo di coscientizzazione dei pre-giudizi e delle aspettative di senso dell’interprete. Le strutture cognitive sedimentate e più profonde non agiscono a livello della coscienza. Esse ci guidano senza che noi ce ne rendiamo conto. Il ritorno alla coscienza delle premesse e delle assunzioni che stanno alla base dell’ordinaria attività di conoscenza è suscitato dall’insuccesso: finché tutto fila liscio, non ci preoccupiamo di riflettere sul perché e sul come delle cose. Il dubbio, lo scacco è l’unico motore della riflessione. Una discussione di gruppo delle diverse interpretazioni, opportunamente guidata dall’insegnante, produce generalmente dubbi e perplessità che possono condurre ad una revisione delle prime ipotesi, mettendo in luce la loro debolezza. Dopo una discussione di questo genere (o una serie di discussioni) che deve assumere la forma dell’argomentazione sempre più rigorosa, si può assistere ad una drastica auto-riduzione della gamma delle interpretazioni.

3. La presa di coscienza delle ragioni soggettive dell’interpretazione consente di instaurare un vero e proprio circolo ermeneutico.

In una fase successiva si dà il via alla dinamica di assimilazioni e accomodamenti successivi che corrisponde alla logica dello stesso circolo ermeneutico II che si svolge in un confronto continuo tra le pre-comprensioni e le verifiche sul testo, raggiungendo man mano che avanza crescenti livelli di aderenza al testo. Possiamo immaginare le tappe seguenti:

1. In seguito alle revisioni e agli aggiustamenti che ogni studente ha apportato alle sue interpretazioni, si ritorna al testo per una rilettura e una analisi che comporta la scoperta di nuovi significati alla luce delle revisioni operate sulle prime interpretazioni: nuove aspettative e nuove ipotesi guidano la lettura. A questo punto si possono introdurre delle procedure più standardizzate di analisi testuale.

2. Si innesca il circolo ermeneutico I che mette in relazione circolare e dinamica il testo con orizzonti concentrici di contesto: dal brano al capitolo, dal capitolo all’intera opera, dall’opera singola alla struttura complessiva del pensiero dell’autore e da questo a contesti storici e di discorso più ampi e più comprensivi.

Questo punto di arrivo rappresenta, sul piano formativo, l’accesso alla conoscenza storica o, meglio, alla presa di coscienza della storicità della conoscenza conseguita come ampliamento progressivo dell’orizzonte iniziale.

Così intesa, l’operazione di interpretazione di un testo filosofico costituisce una pratica paradigmatica di una formazione che avanza alimentandosi delle elaborazioni autonome di ogni soggetto che apprende quando si trova a vivere esperienze di confronto dialogico e, attraverso un progressivo decentramento del proprio Sé, costruisce e ricostruisce insieme agli altri l’ordine e il senso del mondo in cui vive.