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Comunicazione Filosofica n. 6 - novembre 1999

 

A. Greco

FILOSOFIA E DIDATTICA

 

L’alternativa tra metodo storico e metodo sistematico nell’insegnamento della filosofia è fuorviante. Altrettanto fuorviante è la proposta di una sintesi tra i due metodi, ove non si rivedano le concezioni correnti di storia e di sistema.

Per storia si intende forse l’approccio obiettivante, filologicamente e metodologicamente avvertito (analisi critica delle opere riguardate come documenti)? Se sì, è ovvio che non è né opportunopossibile fondare la didattica sulla storia della filosofia.

Non è opportuno - anche qualora fosse possibile -, perché l’approccio della storiografia scientifica non è che una delle tante interpretazioni del divenire. Lo dimostrano sia la molteplicità dei paradigmi entro i quali esso si esplica, sia il carattere inevitabilmente congetturale (per quanto scientifico) dei risultati che consegue. Non sussistono dunque ragioni convincenti per privilegiare la prospettiva storica (nel senso ristretto che qui si dà alla parola) come inquadramento dell’evento filosofico. Tale prospettiva non garantisce affatto l’obiettività che promette. Anzi, i metodi e le tecniche della storiografia scientifica (analisi testuale linguistica e stilistica, critica delle fonti, ricostruzione delle relazioni temporali e causali, ecc.), proprio per il loro carattere distanziante, rischiano di perdere di vista l’essenziale, ovvero il senso stesso (la dimensione teleologica) degli eventi culturali. L’approccio analitico richiede la sospensione dell’adesione pratica e patica. Non bisogna farsi prendere dal discorso (dalla logica dell’argomentazione, dal fascino della narrazione, dalla musicalità del verso), bisogna invece restare vigili e distaccati per analizzare i testi e i discorsi.

 

Lo scienziato dello spirito - scrive, ad esempio, un convinto sostenitore di questo punto di vista - è essenzialmente interprete di professione che non deve subire l’attrazione di suggestioni contingenti ma instaurare una distanza tra soggetto e oggetto e consolidarla con un’attività oggettivante; non è esposto al magico influsso della parola e del suo messaggio e non vuole esserne il mediatore, ma si pronuncia su di essa in modo neutrale e costante. Perfino l’atteggiamento performativo o l’immedesimazione vengono da lui messi in opera per potersene servire come strumento di ricerca sensibile al metodo e di analisi proposizionale; egli non indirizza le sue asserzioni al pubblico oppure alla comunità ma ad altri studiosi. [Reinhard BRANDT, La lettura del testo filosofico, Laterza, Roma-Bari 1998, pag. XIV]

Sappiamo invece che i testi e i discorsi risultano intelligibili solo a chi sia animato da intenzioni applicative. Già Vico diceva che la filologia (per lui sinonimo di storia) senza la filosofia è cieca, così come questa senza quella è vuota. E il suo verum est factum, applicato alla didattica della filosofia, significa che il vero (cioè vivo e concreto, e non obiettivo!) significato delle opere filosofiche si dischiude solo a chi le inquadri entro la propria prospettiva filosofica. Non saprebbe da che cosa distanziarsi e neppure che cosa ricercare, nell’analisi delle opere di Platone, l’uomo che non si interroghi sull’etica, sulla conoscenza, sull’essere stesso (1) , ovviamente nei modi consentiti da una determinata prospettiva storica e personale.

Con ciò - si badi bene! - non si vuol dire che la comprensione del testo implichi l’istituzione di una relazione empatica tra l’autore e l’interprete; e che la comune appartenenza al medesimo orizzonte culturale (nella fattispecie a quello della filosofia) garantisca l’efficacia (l’obiettività) dell’atto interpretativo. Ciò significherebbe indulgere alle illusioni dell’ermeneutica romantica (Schleiermacher e Dilthey).

Al contrario: si vuol dire che l’appartenenza a un medesimo orizzonte culturale è cagione di fraintendimento e di equivoco, e che tale incomprensione è coessenziale alla comprensione. Non c’è l’una senza l’altra, proprio come non c’è figura senza sfondo. È impossibile comprendere un testo senza, nel contempo e in pari misura, fraintenderlo. E non si può equivocare un testo (e quindi nemmeno capirlo), senza riscriverlo (re- interpretarlo) alla luce delle intenzioni imposte dalla propria congiuntura storica. Ecco perché è necessario essere a propria volta filosofi per comprendere Platone. Se non si cerca di applicarlo (ovvero di fraintenderlo = intenderlo in forma diversa da come egli stesso si intese), e se dunque non si è a propria volta, e sia pure in misura ridotta, filosofo, si vedrà nella sua teoria delle idee una costruzione artificiosa e gratuita.

Il presupposto ideologico della pratica filologica è la convinzione che si dia una sorta di immacolata comprensione del testo letterario: una comprensione pura, sulla quale poi si innesterebbero corretti atti interpretativi e applicativi. Si teme che questi ultimi soggiacciano all’arbitrio soggettivo del lettore, ove non si fondino su una comprensione scientificamente garantita. E a tal fine si ritiene necessario un approccio rigorosamente filologico, inteso a neutralizzare i pregiudizi e le convinzioni dell’interprete. Si tratta di una posizione le cui radici affondano nell’ermeneutica del secolo scorso. Schleiermacher e Dilthey ritengono che l’interpretazione del testo si configuri come sforzo di ricostruzione psicologica. Essi considerano lo scritto quale espressione (Ausdruck) dei pensieri dell’autore. Non sbagliano nel fondare la possibilità dell’atto interpretativo sull’appartenenza di autore e lettore al medesimo orizzonte, cioè sulla comunanza dei loro vissuti ed intenzioni. Non vedono tuttavia che tale relazione non si configura come trasposizione del lettore nel mondo dell’autore. Il primo non riproduce nel proprio intimo l’atto creativo del secondo.

Autore ed interprete non sono - e non possono essere - accomunati da un’identica disposizione d’animo. Non bisogna dimenticare che ogni atto interpretativo avviene all’interno di una particolare congiuntura storica e personale.

L’immedesimazione del lettore all’autore costituisce una forma di applicazione (nel senso gadameriano del termine), in quanto non è mai disgiunta dalla reciproca immedesimazione dell’autore al lettore. Non bisogna illudersi di poter ricostruire l’autentica intenzione espressiva dell’autore. Fraintende se stesso chi pretenda scoprire quel che ha veramente detto (o anche soltanto inteso dire) Platone.

L’interpretazione di un’opera filosofica richiede l’afferramento della continuità di senso che accomuna l’orizzonte culturale del lettore a quello dell’autore. Ma la continuità non è la fusione. L’intenzionalità filosofica che accomuna i pensatori attuali a quelli del passato deve essere analoga, non identica.

L’operazione filologica è un utile richiamo al principio di realtà. Serve a tener desto il senso della prospettiva storica, evitando che l’alterità dell’autore venga cancellata dalla inevitabile violenza dell’atto interpretativo. Non può tuttavia inibire la tensione creativa del gesto ermeneutico. La contrapposizione tra filologia e filosofia è di natura dialettica, in quanto, nel differenziare i due poli, saldamente li unisce. Tale relazione non è tuttavia perfettamente simmetrica (anche questo rientra nel suo carattere dialettico!): l’operazione filosofica può essere disgiunta da quella filologica; ma non può darsi l’inverso.

Senza l’apertura realizzata dal gesto filosofico non vi è approfondimento filologico. La filologia è un modo derivato di rapportarsi ai testi. La relazione originaria con i discorsi è sempre, in generale, fondata su un progetto. E dunque, la possibilità di comprendere i discorsi dei filosofi scaturisce dalla capacità di rapportarsi al mondo nei termini di un proprio progetto filosofico. Ciò non va tuttavia banalmente inteso nel senso che la curiosità o l’interesse per le filosofie del passato scaturiscano solitamente dall’impegno filosofico presente. Va invece inteso nel senso, più radicale, che il primo approccio al testo è necessariamente partecipativo: mira all’applicazione più che all’obiettivazione. Non è possibile di-stanziarsi da ciò entro cui non ci si è mai stanziati.

 

L’immedesimazione alla soggettività dell’autore - idea limite che orienta la prassi filologica - è sempre mediata dall’assimilazione alla sensibilità dell’interprete - ideale che ispira l’esegesi filosofica -, in un delicato e precario equilibrio tra introiezione e proiezione.

È una conseguenza inevitabile della finitezza umana. Se non fossimo enti finiti non avremmo infatti bisogno di gettare sonde (ipotesi, concetti, pregiudizi), per conoscere la realtà. E, quando la realtà è un’altra soggettività (filosofica, letteraria, religiosa, ecc.) la sonda non può che essere la nostra stessa soggettività.

Al filologo si chiede di circoscrivere l’ambito smisurato delle concezioni che si possono plausibilmente attribuire all’autore. Ma - pur così delimitato - tale ambito contiene infinite possibilità. Queste sono imprevedibili, quali effetti che si sprigionano dall’impatto dell’opera scritta con le mutevoli condizioni in cui (per dirla in termini heideggeriani) si trova gettato l’interprete. Vengono escogitate, e non scoperte. L’impressione della loro oggettività non deriva da un improbabile ancoraggio alla soggettività dell’autore (come voleva l’ermeneutica schleiermacheriana), ma dal fatto che esse letteralmente si impongono, in un determinato contesto. Non è dunque legittimo restringere il campo infinito delle possibili significazioni testuali entro gli angusti limiti di ciò che può avere effettivamente pensato un autore, e di ciò che possono realmente averne inteso i suoi contemporanei. L’opera - in se stessa considerata (come testo scritto) - può essere interpretata a prescindere dalle reali intenzioni espressive dell’autore. Le chiavi di lettura di un testo sono infinite. L’analisi filologica può solo metterne fuori gioco alcune.

Ma innanzitutto non può farlo definitivamente, in quanto nuovi paradigmi di ricerca e inattesi riscontri possono ridare credito a ipotesi temporaneamente accantonate. L’epistemologia e la storia della scienza ci mostrano infatti che la falsificazione di una teoria scientifica (e tali si presume siano anche le ricostruzioni storiche) non è mai definitiva.

Inoltre, se le chiavi di lettura di un testo sono infinite, anche l’eliminazione di un grande numero di interpretazioni, lascia aperte infinite (inimmaginabili) possibilità di comprensione. La storia degli effetti che un testo può generare è imprevedibile. Alla luce di nuove esperienze e di inedite concezioni filosofiche, uno scritto può sprigionare significati sorprendenti.

Questa è la conclusione liberatoria che si ricava dalla rivoluzione ermeneutica di questo secolo. Nell’interpretazione di un’opera possiamo liberamente scegliere i vincoli più confacenti al gioco linguistico che vogliamo giocare. In quanto filologi, ci proponiamo la "fedeltà" all’autore. Ma, in quanto filosofi, riconosciamo la cogenza dei vincoli testuali.

È emblematica, a questo riguardo, la risposta ironica fornita da Heidegger ai critici che gli rimproverano l’inosservanza delle cautele filologiche nell’interpretazione della filosofia kantiana.

 

Di continuo ci si scandalizza per le forzature che si ravvisano nelle mie interpretazioni, e questo scritto può servire molto bene a documentare questo tipo di accuse. Si può perfino dire che gli storici della filosofia hanno ragione quando rivolgono quest’accusa contro quelli che vorrebbero promuovere un dialogo di pensiero tra pensatori. A differenza dei metodi della filologia storica, che ha il suo proprio compito [sottolineatura del redattore], un dialogo di pensiero è soggetto ad altre leggi che sono più vulnerabili. Nel dialogo è più alto il rischio dell’errore, e sono più frequenti le mancanze.

[Martin HEIDEGGER, Prefazione alla seconda edizione di Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1985]

L’applicazione non è una prerogativa esclusiva dei filosofi riconosciuti, di quelli - per intenderci - che possono dialogare da pari a pari con Platone o con Kant. Essa è la conditio sine qua non di qualsiasi autentico rapporto con il testo, a qualsiasi livello di profondità esso si realizzi. Rinunciare al compito applicativo significa tagliarsi fuori da qualsiasi possibilità di comprensione, e doversi accontentare della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco (esemplificate da molta dossografia manualistica). Dunque, anche chi non sia capace di filosofare in forma qualificata e personale è tenuto - se vuol comunque capire le opere dei filosofi - all’esercizio applicativo.

Scrive Gadamer …

Nella realtà non c’è mai un lettore […] che, di fronte al testo, si limiti a leggere ciò che vi è contenuto. In ogni lettura accade invece una applicatio, di modo che chi legge un testo vi è già dentro lui stesso, nella misura in cui ne percepisce il significato. Il lettore appartiene egli stesso al testo che comprende e interpreta. Ora, ciò che vale per qualunque lettore vale anche per lo storico. Solo che, nel suo caso, si tratta dell’insieme della tradizione storica, che egli necessariamente ha da mediare con il presente della sua stessa vita, se vuole comprenderla, e che in tal modo mantiene aperta verso il futuro. […] [Hans Georg GADAMER, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1985, pag. 394]

L’applicazione filosofica richiede l’adozione di una prospettiva strumentalista e sperimentalista. Il significato di una parola, di una proposizione, di un discorso, di una teoria, di una tradizione (cioè di qualsiasi struttura del linguaggio filosofico) si coglie nell’uso che ne facciamo. Le concezioni filosofiche possono essere considerate strumenti mediante i quali l’esser-ci tenta di chiarire il proprio rapporto con l’essere. Esse svolgono questa funzione innanzitutto e per lo più in chiave metafisica (e quindi inautentica), allorché si esauriscono nella tematizzazione degli enti e scotomizzano l’essere. In ogni caso - anche quando tentano di salvaguardare il senso del mistero -, esse intendono ri-descrivere (magari in forma non assertoria) e chiarire (magari in forma non fondativa e non deduttiva) l’esperienza.

Quest’ultimo termine non va ovviamente inteso nel senso ristretto che gli è stato conferito dalle tradizioni empirista, kantiana e positivista. L’esperienza di cui qui si parla non è una forma di conoscenza (sensazioni elementari, precetti, intuizioni spazio-temporali) contapposta ad altre (concetti, idee, teorie). E neppure si può ridurre a tutta la conoscenza, ove questa venga, a sua volta, cartesianamente contrapposta alle relazioni pratiche e patiche con il mondo. Esperienza è l’intero complesso delle relazioni che l’uomo intrattiene con il mondo, relazioni cognitive e affettive, pratiche e teoretiche, estetiche ed etiche, sensibili e concettuali, ecc. . L’esperienza, intesa in tutta la sua complessità, non può essere racchiusa entro forme predefinite, entro apriori biologici e logici, ma è perennemente fluente e imprevedibile.

Ogni filosofia può essere dunque riguardata come opera di chiarificazione dell’esperienza: questa "definizione" - nella sua intenzionale vaghezza - si adatta anche alla concezione deflazionista dell’ultimo Wittgenstein, e persino agli sconfinamenti poetici del secondo Heidegger. Essa ci consente di stabilire il seguente assioma didattico di sapore strumentalista:

Comprendere una concezione filosofica significa utilizzarla per rendere chiara l’esperienza.

Lo storico della filosofia tende a svolgere compiti esplicativi. Egli cerca, ad esempio, di dedurre le concezioni filosofiche dalle strutture del mondo della vita. Ma per far ciò si affida alle interpretazioni dell’antropologo culturale, del sociologo e dello psicologo. In tal modo egli sconfina in campi che con la filosofia hanno ben poco a che vedere. Nessuno nega che si possa trattare antropologicamente e storicamente il tema filosofico, e far vedere, ad esempio, come l’anima dell’uomo greco e le strutture della polis ateniese si siano espresse nella retorica sofistica e nella dialettica socratico-platonica; o anche come queste ultime si siano, a loro volta, riflesse nelle prime. In tal modo, le idee filosofiche vengono inquadrate entro la prospettiva della storia esterna, e posti in relazione causale con eventi di diversa natura.

Ma con ciò nulla ancora si dice di propriamente filosofico.

Non si individuano, ad esempio, gli effetti profondi che la retorica sofistica e la dialettica socratico-platonica hanno prodotto - anche al di là della consapevolezza dei soggetti in cui si sono incarnate -, nella storia del pensiero occidentale. Non ci si pronuncia sui molteplici sensi che la loro rivoluzione di pensiero assume alla luce delle attuali concezioni filosofiche. Non ci si interroga sulle possibilità che esse hanno offerto - e forse tuttora offrono - alla riflessione filosofica. Non si ricostruiscono le contrastanti immagini della verità (o dell’errore) e quelle dell’essere (o del non essere) che hanno depositato nella galleria del pensiero. Non si ricercano all’interno delle rispettive strutture di pensiero i segni premonitori (non più che tracce) del destino storico cui sono andate incontro: ad esempio, le dinamiche interne che hanno condotto - con vicende alterne - al mutarsi, come in dissolvenza, del sogno metafisico (sconfitta platonica) nell’attuale risveglio tragico (rivincita sofistica).

E, soprattutto, non si ricostruiscono gli intricati percorsi argomentativi attraverso i quali esse hanno tentato di rendere plausibili o certe le rispettive tesi ontologiche e gnoseologiche, e quindi quelle antropologiche, etiche, politiche, estetiche, ecc. .

Ma, per affrontare tematiche di questo tipo bisogna avere il coraggio di tornare a fare e a insegnare filosofia (anziché storia, antropologia, sociologia, linguistica, critica letteraria, ecc.). Bisognerebbe cioè inquadrare gli eventi filosofici entro le aperture interpretative che l’epoca ci impone. E ciò naturalmente nella malinconica, ma non disperante, consapevolezza che ogni apertura è, nello stesso tempo, chiusura, e che ogni interpretazione è inevitabilmente prospettica e storicamente condizionata (è questo - come ha mostrato Heidegger - il senso genuino del termine greco epoché).

Nient’altro che questo esercizio applicativo - inteso alla costruzione di una storia interna della disciplina - può consentirci di compiere una genuina esperienza filosofica.

La distinzione tra storia esterna e storia interna non va presa troppo sul serio, ma neppure alla leggera. Se potessimo collocarci in un’ottica divina (… ma sarebbe ancora un’ottica?) questa contrapposizione non avrebbe alcun senso. Potremmo unificare causalità (esterna) e teleologia (interna), potremmo spiegare comprendendo e comprendere spiegando. Non vi sarebbe allora distinzione tra ciò che è storicamente dato e ciò che è logicamente necessario. Ci porteremmo, d’un balzo, al di là dell’abisso spalancato dalla dialettica di Kant, entro la rassicurante identità hegeliana di reale e razionale.

Ma, si dà (per fortuna!) il caso che l’assunzione di un’ottica divina sia incompatibile con la nostra umana finitezza. Un essere limitato può rapportarsi al mondo sempre e soltanto da un determinato punto di vista (nella fattispecie, in chiave teleologica oppure in chiave deterministica). E non può pertanto aspirare ad una conoscenza storica totalizzante, che sia interna e, allo stesso tempo, esterna. Vige qui una sorta di principio di indeterminazione. L’evento umano può essere riguardato come fatto inserito in una catena causale sociale, psichica, economica, ecc.; ma allora resta sullo sfondo il suo significato ideale. Viceversa, può essere compreso come idea, ovvero come senso che non si esaurisce entro nessuna particolare realizzazione storica, e che può essere sempre di nuovo interpretato; ma allora passano in secondo piano le sue relazioni causali.

La contrapposizione tra storia interna ed esterna - si diceva - non va presa troppo sul serio, in quanto nelle trame logiche della prima si ritrovano le grandi linee intorno alle quali errano i percorsi della seconda. E quindi, questi due modi di interpretare l’evento non sono poi del tutto contrapposti. Ma, nello stesso tempo, la contrapposizione tra storia interna ed esterna non va presa troppo alla leggera, in quanto gli eventi storici si succedono accidentalmente, con evidenti trasgressioni al canovaccio della logica. E pertanto, da quest’altro punto di vista, le due prospettive tornano a disgiungersi.

Se l’impossibilità di contrapporle nettamente alimenta la tentazione di fingere una storia della filosofia di tipo hegeliano, ovvero una fenomenologia in cui lo spirito si sviluppa attraverso una progressiva esplicitazione di sé; l’impossibilità di unificarle dissuade dal ricercare ogni possibile connessione tra fatto e senso, tra evento e significato (2) .

È quanto ha visto Kant. Egli ha preso coraggiosamente atto del carattere aporetico dell’esperienza umana, insegnandoci a soggiornare nei dilemmi della ragione. Contestando a Kant i suoi inconciliabili dualismi, i critici hanno mostrato di non comprenderne il senso radicalmente antimetafisico. La Critica del Giudizio è stata a torto ritenuta un estrinseco e frettoloso tentativo di conciliazione, mentre in realtà era soltanto la naturale conseguenza della Dialettica.

Ebbene! Kant ha visto anche questa contraddizione: da un lato l’impossibilità di conciliare la ragione della storia (teleologia, storia interna, significato) con la storia della ragione (determinismo, storia esterna, evento); dall’altro l’impossibilità di tenerle nettamente distinte. Di qui l’andamento in apparenza aporetico dei passi in cui egli illustra le relazioni che corrono tra la filosofia come idea (il sistema architettonicamente sviluppato) e le filosofie storiche.

In uno di questi passi, leggiamo …

 

Se prescindo da ogni contenuto di conoscenza, considerata oggettivamente, ogni conoscenza allora, soggettivamente, è o storica o razionale. La conoscenza storica è cognitio ex datis, quella razionale invece cognitio ex principiis. […]

 

Ora il sistema di ogni conoscenza filosofica è la filosofia [… e] per essa s’intende il modello della valutazione di tutti tentativi di filosofare, il quale deve servire a giudicare ogni filosofia soggettiva, la cui costruzione è spesso così varia e così mutevole. In questo modo le filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, non data mai in concreto ma a cui si cerca di accostarsi per diverse vie […]

[Immanuel KANT, Critica della Ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pagg. 632 -633]

Qui sembra che la conoscenza storica e quella razionale non solo non si possano identificare, ma siano anche contrapposte.

In un altro passo invece leggiamo …

 

I sistemi paiono, come i vermi, essere nati per una generatio aequivoca dal semplice concorso di concetti raccolti insieme, da prima mutili, poi, col tempo, formati completamente, quantunque avessero tutti il loro schema, come germe originario, nella ragione che semplicemente si sviluppa; e perciò non soltanto ciascuno per sé è organizzato secondo un’idea, ma inoltre tutti, a lor volta, sono tra loro riuniti opportunamente, come membri di un tutto, in un sistema di conoscenza umana, e permettono un’architettonica di tutto il sapere umano […].

[Immanuel KANT, Critica della Ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pag. 631]

E qui invece sembra che conoscenza storica e conoscenza razionale non solo non si possano disgiungere, ma addirittura si identifichino.

Non si tratta tuttavia di un’involontaria contraddizione del filosofo ma di un’opposizione dialettica, che è nell’ordine delle cose, ed è pertanto irresolubile come le altre antinomie della ragione.

In questo stesso spirito, e non senza ironia, anche noi qui affermiamo l’opportunità di integrare la storia esterna con quella interna.

Quando si parla di storia interna o storia delle idee non bisogna tuttavia pensare a una storia delle rappresentazioni psichiche individuali o collettive. Queste rientrano infatti a pieno titolo nella storia esterna. Non a caso di esse si occupano efficacemente gli specialisti delle cosiddette scienze umane: psicologi, psicoanalisti, sociologi, antropologi, ecc. . Quando si parla di storia interna ci si riferisce invece all’analisi dei significati in quanto tali, a prescindere dai modi in cui si può presumere siano stati esperiti dai soggetti. Ciò - è quasi superfluo esplicitarlo - non vuol dire che i significati siano idee in sé sussistenti (o semplicemente presenti), ché forse neppure Platone intendeva sostenerlo. Significa invece che il senso di un evento culturale (di un’idea, appunto) trascende qualsiasi concreta realizzazione storica (forse questo è il significato della trascendenza platonica). Occuparsi di una concezione filosofica dal punto di vista della storia interna significa dunque non limitarsi al senso che essa può aver avuto per coloro in cui si è incarnata (che cosa è stata l’Idea per Platone, l’ironia per Socrate, ecc.). Significa invece attribuirle i significati che essa assume alla luce dell’attuale consapevolezza filosofica, e interpretare i segni del suo destino nella storia della verità (si noti l’iniziale minuscola!).

Ma - si potrebbe obiettare - non si rischia in tal modo di imporre al pubblico e ai discenti un particolare punto di vista, cioè quello della filosofia europea attuale? È legittimo partire dalle nostre concezioni attuali per comprendere filosofie di differenti momenti storici e concezioni di altri contesti culturali? Non si torna, in tal modo, all’imperialismo della metafisica?

L’obiezione non è valida, in quanto l’argomentazione precedente non intende mettere completamente fuori gioco la prospettiva esterna nella considerazione delle tematiche filosofiche e, in genere, culturali. Intende invece semplicemente evitare che tale prospettiva, esibendo credenziali di scientificità, si presenti come alternativa all’analisi interna (propriamente filosofica) e non come indispensabile complemento. L’ancoraggio empirico delle indagini storiche, antropologiche, psicologiche e sociologiche salvaguarda infatti le differenze culturali dai rischi della semplificazione metafisica.

Contro gli entusiasti sostenitori dell’obiettività delle scienze umane, è opportuno sostenere le ragioni della filosofia. Abbiamo infatti bisogno di continuare a reinventare le tradizioni in cui siamo gettati. Non possiamo smettere di interrogarci sul senso dell’essere parmenideo, sulla tragicità del relativismo sofistico, sulla trascendenza dell’idea platonica, sull’immediatezza del cogito cartesiano, sulla purezza dell’appercezione kantiana, sulla realtà della razionalità hegeliana, sull’intenzionalità del soggetto husserliano, ecc. .

Ma, contro i nostalgici della metafisica, è opportuno riaffermare i diritti dell’indagine empirica. Avvertiamo infatti la necessità di distinguere le nostre interpretazioni da quelle degli uomini che ci hanno preceduti, e da quelle di coloro che vivono attualmente in mondi molto diversi dal nostro (culture extraeuropee). Non possiamo pensare che essere, relativismo, idea, cogito, appercezione, razionalità, soggetto, ecc. siano più che (ma neanche meno (3) che!) interpretazioni rese possibili dalle nostre attuaali pratiche filosofiche.

Considerazioni analoghe a quelle sin qui opposte all’approccio storicistico si possono far valere nei confronti dell’approccio materialista, che deduce le concezioni filosofiche dai rapporti di produzione e dalle tecnologie, e nei confronti dell’approccio esistenzialista, che insiste sulle relazioni (peraltro indiscutibili) che legano le opere filosofiche alle vicende personali degli autori. Si tratta di approcci legittimi, che (come diceva Heidegger a proposito della filologia) hanno i propri compiti. Possono fornire utili spunti alla riflessione e all’analisi testuale. Ma lasciano insoddisfatta la domanda filosofica. Essi infatti applicano all’evento filosofico metodi e categorie di carattere biologico, antropologico, sociologico, economico, psicologico, ma rinunciano a comprenderlo dall’interno. Non lo interpretano cioè da un punto di vista propriamente filosofico.

Fare filosofia significa invece non solo e non tanto prendere ad oggetto la filosofia, ma interpretarla in chiave filosofica. Significa non già collocare la filosofia entro la realtà (o meglio, entro ciò che le scienze specialistiche rappresentano come tale), ma collocare la realtà tutta (filosofi compresi) entro la filosofia.

Per lo stesso ordine di ragioni non soddisfa un approccio ai testi che privilegi l’analisi stilistica. È interessante riflettere sulle forme della scrittura filosofica. Se un autore espone il proprio pensiero in forma poetica, un altro mediante saggi e trattati, un altro attraverso dialoghi e narrazioni, e un altro ancora con aforismi, non è affatto un caso. La scelta della forma espressiva è una perfetta ipotiposi delle concezioni dell’autore. Essa segnala, ad esempio, le sue svolte di pensiero.

Consideriamo la scrittura di Wittgenstein! Il suo Tractatus merita questo nome. Non ci si deve infatti lasciar ingannare dalla forma slegata delle proposizioni. Che non si

tratti di aforismi lo si desume dalla struttura della numerazione. Quest’ultima indica un preciso ordine sistematico che trova puntualmente riscontro nelle idee del primo Wittgenstein. All’epoca, il filosofo sosteneva la possibilità di costruire un linguaggio ideale, esente da ambiguità e contraddizioni. E individuava tale strumento - com’è noto - nella logica formale. Egli inoltre, pur sostenendo che la filosofia non può essere considerata una forma di sapere (in quanto la conoscenza si dà solo entro le scienze empiriche), sembrava convinto che essa potesse svolgere la funzione di canone del linguaggio. L’autore del Tractatus riteneva di poter chiarire essenze e forme logiche (ad esempio la forma generale della proposizione), e di poter, in tal modo, risolvere definitivamente i problemi filosofici, attuando una rigorosa terapia linguistica. Ebbene! Questa fase metafisica del pensiero di Wittgenstein è perfettamente rappresentata dall’ordinamento sistematico delle proposizioni del Tractatus.

Al contrario, le Ricerche filosofiche

[…] sono scritte in uno stile colloquiale e nella terminologia del linguaggio comune, con paragrafi numerati ma non susseguentisi secondo nessi logici precisi e regolari […].

Il fatto che le Ricerche siano costituite da una serie di osservazioni che non pretendono di formare un discorso lineare, ma tornano più e più volte sullo stesso argomento o su argomenti affini da punti di vista diversi […] dipende […] dalla consapevole scelta di non far violenza alla naturale inclinazione dei propri pensieri, di restar fedeli alla natura della ricerca filosofica […].

[Marina SBISÀ, Wittgenstein, Ubaldini editore, Roma 1975, pag. 69]

Questo diverso stile di scrittura rispecchia dunque fedelmente la svolta del secondo Wittgenstein. Il filosofo non s’illude più di poter risolvere definitivamente i problemi filosofici, e non confida più di pervenire alla chiarezza mediante i congegni della logica formale.

Leggiamo infatti il § 133:

 

Non vogliamo raffinare o perfezionare in modo inaudito il sistema di regole per l’impiego delle nostre parole.

La chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa (4) . Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. […]

[Ludwig WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983, pag. 71]

Il secondo Wittgenstein "afferma" dunque il carattere prospettico e relativo delle soluzioni filosofiche. Ma tale affermazione si applica a se stessa, come mostra (e non dimostra!) la forma di scrittura in cui si esprime. La forma colloquiale delle Ricerche segnala che l’opera non si presenta come un complesso di teorie assolutamente valide. Anzi, Wittgenstein non pretende neppure di elaborare teorie, ma si accontenta di fornire esempi. Leggiamo ancora nel citato § 133:

La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. - quella che mette a riposo la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa. - Invece si indica un metodo dando esempi; e la serie degli esempi si può interrompere. --- Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema.

Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie. [sottolineature dell’autore]

[Ludwig WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983, pag. 71]

Dunque, anche in filosofia, - come mostra questo esempio - lo stile è tutt’altro che una forma estrinseca e casuale.

Ciò tuttavia non significa che l’attività filosofica si possa ridurre alle forme scritturali entro le quali si esplica. È ovvio che non esisterebbe alcun genere di filosofia senza la pratica alfabetica.

L’antropologia culturale e la psicologia interpretano l’intelligenza come una costellazione di abilità che si sviluppano nell’uso dei media. Intelligence - scrive lo psicologo canadese David Olson - is a skill in a medium. Con quest’ultimo termine ci si riferisce a uno qualsiasi dei campi esecutivi in cui si esplicano le operazioni intellettive. Ci sono media materiali come il corpo umano, la scacchiera, il computer, il libro; e media simbolici come la danza, la scacchistica, l’informatica e la scrittura. I media simbolici si suddividono, a loro volta in sistemi e forme simboliche. Sotto la prima espressione viene catalogato qualsiasi …

[…] complesso di simboli organizzati in modo tale da formare un sistema di opzioni interrelate o correlate con un campo di riferimento (ad es., linguaggio, musica, numeri).

[David OLSON, Introduction a Media and symbols. The form of expression, communication and education, in 73th Yearbook of the NSSE, Chicago University Press, Chicago 1974, pag. 12]

Con la seconda espressione Cassirer indica …

[…] modi di conoscenza, percezione, ed esperienza, ad es. mito, arti, scienze, storia e religione.

[David OLSON, Introduction a Media and symbols. The form of expression, communication and education, in 73th Yearbook of the NSSE, Chicago University Press, Chicago 1974, pag. 12]

Ebbene! Uno dei più importanti sistemi simbolici è proprio il linguaggio verbale, grazie al quale le interpretazioni della realtà assumono forma di discorso.

Il medium verbale si differenzia tuttavia in due codici molto diversi, che rendono possibili due distinte formae mentis e correlativamente due differenti concezioni della realtà: il linguaggio orale e quello scritto. Un codice non è un mezzo trasparente che si lasci semplicemente attraversare dall’esperienza. Quest’ultima non è mai pura, poiché non è separabile dalle strutture semantiche e sintattiche dei linguaggi. I media sono i messaggi, nel senso che ciascuno di essi pone in essere non solo specifiche forme di espressione e di pensiero, ma anche particolari interpretazioni del mondo. È la pratica della scrittura che fa sgorgare dal senso comune le forme simboliche della nostra cultura: segnatamente la storia, la scienza e la filosofia. Secondo il già citato David Olson, è possibile riassumere in sette punti le differenze tra il senso comune dell’oralità e la mentalità teoretica della scrittura.

Primo, la conoscenza del senso comune è codificata per l’azione. Esso implica un piano per l’azione contingente, non un concetto della verità universale. […]

Secondo, la conoscenza del senso comune è limitata al particolare e al concreto […] essa è pertanto estremamente sensibile al contesto.

Terzo, […] Mentre nella scienza un’eccezione confuta la regola, nel senso comune l’eccezione conferma la regola.

Quarto, l’esperienza del senso comune si risolve in elementi di conoscenza che non sono completamente in accordo fra di loro. […]

Quinto, il senso comune è valutativo […].

Sesto, i suoi strumenti intellettuali sono l’illustrazione e l’esempio piuttosto che la definizione e la deduzione. […]

Settimo, il senso comune è strutturato in funzione sociale piuttosto che in funzione logica. Per esempio in una discussione di senso comune ha la meglio non chi porta un gran numero di argomentazioni, ma chi riesce ad avere l’ultima parola. Cioè, la verità è una questione di autorità.

[David OLSON, Il linguaggio dell’istruzione, in Linguaggi, "Media" e processi educativi, a cura di Clotilde PONTECORVO Loescher, Torino 1979, pagg. 197 - 198]

Gli aspetti caratteristici della mentalità universalizzante sono dunque il frutto della pratica alfabetica.

A questa si possono infatti attribuire quelli che Derrida considera i predicati essenziali della scrittura. Il filosofo francese compie infatti una sorta di esame trascendentale della scrittura. Egli cerca di individuare le condizioni di possibilità del testo, ovvere le caratteristiche che esso non può non avere. E individua i seguenti predicati essenziali.

[…]

  1. un segno scritto, nel senso corrente del termine, è una marca che resta, che non si esaurisce nel presente della sua iscrizione e che può dar luogo a una iterazione in assenza e al di là della presenza del soggetto empiricamente determinato che lo ha, in un contesto determinato, emesso e prodotto. Proprio su questa base, tradizionalmente, si distingue la "comunicazione scritta" dalla "comunicazione orale";
  2. analogamente, un segno scritto comporta una forza di rottura con il proprio contesto, cioè con l’insieme delle presenze che organizzano il momento della sua iscrizione. Questa forza di rottura non è un predicato accidentale, ma la struttura stessa dello scritto. […]
  3. questa forza di rottura concerne la spaziatura che costituisce il segno scritto: spaziatura che lo separa dagli altri elementi della catena contestuale interna (possibilità sempre aperta di trapianto e innesto), ma anche da tutte le forme di referente presente (passato o futuro […]) oggettivo o soggettivo. […]

[Jaques DERRIDA, Firma evento contesto, Aut-aut, gennaio-aprile 1987, pagg. 177 - 199]

Queste tre condizioni richiamano, in forme diverse, un unico predicato essenziale: la decontestualizzazione. Derrida afferma esplicitamente, al punto 2, che si tratta della struttura essenziale dello scritto.

Ebbene! Come non vedere nella scrittura alfabetica la pratica che esprime in forma ideale la liberazione dai vincoli del contesto? Essa è il luogo di nascita di quel soggetto panoramico - come lo chiama Carlo Sini - che persegue il progetto della verità universale.

La scrittura in genere - e soprattutto quella alfabetica - si rivolge al lettore universale. E pertanto essa è il medium che genera il Logos (pensiero razionale, universalmente vero). Proprio come un testo scritto dev’essere, in linea di principio, decodificabile da chicchessia; allo stesso modo, le leggi della logica, della fisica e della storia, nonché i principi della metafisica, devono essere comprensibili e validi per chiunque, per l’uomo universale.

Anche le scritture ideografiche liberano, entro certi limiti, la comunicazione dai vincoli del contesto. Ma ciò non pone ancora le condizioni per l’affermarsi di un atteggiamento teoretico. La rivoluzione dell’alfabeto consiste nella scarnificazione dei significati. Questi vengono definitivamente privati di ogni residuo carattere iconico. Gli schemi della scrittura ideografica sono ancora troppo compromessi con la sensibilità. Essi restituiscono solo l’aspetto visibile delle cose. Non riproducono i significati astratti e i loro nessi logici. La scrittura alfabetica consente invece l’espressione di qualsiasi significato pensato. Le astrazioni più esangui (non solo gli oggetti, ma anche i loro sensi) e le più relazioni più impercettibili (non solo i nessi tra le cose, ma anche quelli tra le proposizioni) trovano in essa pronta e chiara espressione.

Ma, il riconoscimento del nesso strettissimo che lega filosofia e scrittura, e specifiche pratiche filosofiche a determinati stili letterari, non deve far dimenticare che la filosofia non è letteratura. Che essa venga all’esistenza entro un determinato sistema simbolico (il codice scritto) e si articoli entro una pluralità di forme comunicative non implica che l’analisi linguistica e quella testuale possano sostituirsi alla considerazione filosofica dei discorsi.

È significativo che il primo grande scrittore di filosofia, Platone, abbia anche denunciato con forza i pericoli insiti nel feticismo della scrittura. Egli ha così mostrato doti profetiche. I suoi timori appaiono oggi sempre più fondati, man mano che il tessuto vitale della scrittura viene ad essere compresso da una pletora di testi e ipertesti che ripetono impersonalmente - e dunque sterilmente - le parole dei pensatori originali. Il riconoscimento di questi pericoli non comporta necessariamente l’adesione a posizioni logocentriche. Un conto infatti è affermare la superiorità del dialogo vivo rispetto al testo scritto, nella discutibile presunzione che il primo garantisca quella perfetta comprensione che il secondo impedisce. Altro invece è denunciare il carattere inautentico che il discorso assume (decadendo al rango di chiacchiera, curiosità ed equivoco) allorché si riduce alla simulazione scritta del pensiero. La prima affermazione parte dalle premesse - attualmente inaccettabili - che la Verità (nel caso di Platone, i primi principi) sia pienamente afferrabile, e che essa sia adeguatamente comunicabile con il medium appropriato (il dialogo). La denuncia invece segnala opportunamente i rischi di alienazione che minacciano l’uomo della scrittura, allorché - soggetto inconsapevole di/a questa pratica - dimentica che essa è per la filosofia, e non viceversa. Il valore di tale denuncia non viene scalfito dal riconoscimento del nesso essenziale che lega la filosofia alla scrittura. Tale nesso ha la forma dell’implicazione semplice, non già dell’identità: non può certo darsi filosofia senza scrittura; è possibile tuttavia che si dia - e ciò purtroppo attualmente si verifica innanzitutto e per lo più - scrittura senza filosofia.

Gli studiosi e i docenti di questa disciplina dovrebbero dunque attentamente meditare sulla Lettera VII di Platone. Vi si trova una lucida analisi degli effetti indesiderati della scrittura. Si tratta di un documento di grande significato pedagogico e didattico. Platone spiega come debba svolgersi lo studio filosofico. Egli lamenta che spesso i discenti si accontentano di vuote formule imparate a memoria. Ed è il caso del suo allievo Dioniso, tiranno di Siracusa.

 

A questa gente - scrive Platone - bisogna mostrare cos’è davvero lo studio filosofico, e quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta. […] Quelli […] che non sono veri filosofi, ma hanno soltanto una verniciatura di formule, come la gente abbronzata dal sole, vedendo quante cose si devono imparare, quante fatiche bisogna sopportare […], giudicano che sia una cosa difficile e impossibile per loro; sono quindi incapaci di continuare a esercitarsi, e alcuni si convincono di conoscere sufficientemente il tutto, e di non aver più bisogno di affaticarsi.

[Platone, Lettera VII]

Non è difficile applicare questa descrizione ai ricercatori di comode soluzioni didattiche e manualistiche. C’è più saggezza didattica in Platone di quanta non se trovi negli attuali compilatori di raccolte antologiche e di percorsi didattici. Questi sembrano mossi dall’unico intento di evitare al discente le disavventure del fai da te. E propongono rassicuranti itinerari (quasi viaggi organizzati), per i quali sono minuziosamente previsti

(programmati) commentari di brani classici (soggiorni), letture di passi della letteratura critica contemporanea (escursioni guidate) e digressioni su temi di attualità cibernetica, bioetica, epistemologica, ecc. (colazioni al sacco e fast food).

Imperversa il mito del documento. Come se bastasse appellarsi all’auctoritas del testo per risolvere i problemi dell’insegnamento! Ma, non vi sono miracolosi ritrovati didattici; non si dà una via regia alla filosofia. Il successo dell’insegnamento filosofico dipende dall’efficacia della mediazione del docente. Qualcuno potrebbe pensare che tale mediazione consista nell’adattare la struttura disciplinare alle abilità cognitive dei discenti. No! Sia l’una che le altre non sono (per fortuna!) che artificiose invenzioni di pedagoghi superficiali. Non c’è una struttura disciplinare della filosofia. Non c’è un metodo filosofico. E non ci sono neppure strutture mentali pre-costituite a cui adattare i modelli filosofici. Di più: la filosofia - diversamente dalle altre discipline - non presenta neppure un corredo di abilità che si possano apprendere. Il suo studio non è finalizzato all’acquisizione di metodi, procedure e tecniche di analisi. Nessuno si aspetta che, al termine di un corso di filosofia, i discenti sappiano impostare e risolvere problemi filosofici. Se così fosse, saremmo ancora fermi alla metafisica classica. Questa si poteva trasmettere attraverso trattati e manuali organizzati in forma deduttiva (con postulati più o meno espliciti, metodi di prova più o meno rigorosi, e risultati consolidati), al pari di qualsiasi disciplina tecnica. La metafisica presumeva infatti di essere scienza rigorosa (sapere). Lo studio filosofico è invece finalizzato a produrre esperienza - più che abilità tecnica -, esperienza delle più significative posizioni di pensiero che hanno inaugurato e scandito la storia della coscienza europea. Ciò tuttavia non si ottiene - se ascoltiamo il monito di Platone - infarcendo le menti di formule verbali che sintetizzano i metodi e i risultati delle ricerche filosofiche. Bisogna invece saper riprodurre - in una sorta di laboratorio delle idee - la struttura argomentativa interna e i nessi fondativi esterni del soggetto filosofico tematizzato (brano, opera, autore, corrente).

È necessaria l’applicazione! Non tanto nel senso banale dell’impegno approfondito e continuativo; quanto invece nel senso dell’esercizio ermeneutico. La filosofia - come qualsiasi altra disciplina - non può essere appresa senza la fatica del pensiero. Non è sufficiente mettere sotto gli occhi del discente lo scritto dell’autore. Chi studia filosofia dev’essere guidato a compiere l’operazione filosofica. Questa non va però confusa con l’operazione filologica. Non riproduce le condizioni soggettive dell’originario atto di pensiero. Non consente di mettersi nei panni dei filosofi che ci hanno preceduti, nel tentativo di vedere il mondo con i loro occhi. Essa invece cerca di metterli nei nostri panni, e di integrare le loro opere nel nostro campo visivo. Il loro pensiero non va restaurato e conservato nella galleria delle idee; va invece recuperato come elemento essenziale dell’attuale panorama ideale. Ciò richiede che l’attenzione dello studioso di filosofia si sposti dagli autori (ricostruzioni di personalità e ambienti culturali) alle opere (individuazione degli assunti, analisi dei nessi argomentativi, valutazione dei risultati e degli effetti…).

Studiare filosofia non è tuttavia la stessa cosa che filosofare in prima persona. Non bisogna insomma prendere alla lettera le indicazioni didattiche che Platone fornisce nella Lettera VII. Studiando filosofia non si apprende a filosofare. Si impara a calcolare, studiando matematica. Si acquistano conoscenze e abilità pratiche, con gli studi di chimica e di fisica. Si apprendono le tecniche dell’analisi personale e di gruppo, con la teoria e la pratica psicologica. E così via. Ma non è possibile perseguire analoghe finalità didattiche in campo filosofico. La filosofia consente solo esperienze di pensiero.

E tuttavia - lo si è già detto - la filosofia (al pari di qualsiasi altra disciplina) può essere adeguatamente compresa solo attraverso l’esercizio applicativo. Ne consegue la necessità di elaborare una sorta di tassonomia delle operazioni eseguibili sul testo filosofico. È questo il problema fondamentale della didattica disciplinare.

Quindi: da un lato siamo portati a negare che l’apprendimento filosofico consista nell’acquisizione di abilità operative, in quanto la filosofia non è una forma di conoscenza, non è un campo del sapere (non è metafisica!), e non esibisce quindi un proprio corredo di abilità cognitive (un proprio statuto disciplinare); ma, d’altro canto , siamo indotti ad affermare che l’apprendimento di questa disciplina non può comunque esaurirsi in uno sterile nozionismo verbalistico (il monito di Platone) e deve in qualche modo realizzarsi in forma attiva, in termini applicativi (corollario dell’ermeneutica filosofica contemporanea). L’apparente contraddizione si risolve riconoscendo che l’operatività richiesta dalla filosofia non è, per così dire, a valle bensì a monte. Ciò vuol dire che l’esercizio applicativo che qualsiasi studioso (o studente) di filosofia è chiamato a compiere non è, e non può essere, l’obiettivo della formazione filosofica, dal momento che - come si è già detto - non vi sono abilità filosofiche da acquisire. Esso può, tutt’al più, rappresentare un mezzo (un elemento del training), in quanto la comprensione autentica di un discorso richiede un approccio operativo: analisi, sintesi, descrizioni, spiegazioni, argomentazioni, contestualizzazioni, schematizzazioni, parafrasi, transcodificazioni, posizioni e soluzioni di problemi, estrapolazioni, simulazioni, ecc. . Insomma: l’operazione filosofica non costituisce l’obiettivo dell’insegnamento di filosofia, ma offre soltanto lo stimolo e il cimento da cui prende le mosse l’esperienza filosofica. L’educazione filosofica è una Bildung, non una forma di istruzione. Essa è più simile all’educazione artistica, che all’istruzione scientifica e tecnica. Il gusto e il talento estetici non si insegnano, tutt’al più si educano o si affinano. Non vi sono infatti princìpi e norme della creatività artistica. La determinazione dell’attività estetica (giudizio o creazione) mediante formule precostituite non mette capo - almeno per noi Europei - all’arte, bensì alla maniera. Allo stesso modo, l’attività teoretica (speculativa o scientifica) che applica princìpi e procedure già dati non è filosofia, bensì metafisica o scienza normale.

Coloro che sostengono la possibilità di insegnare filosofia secondo il metodo zetetico o euristico (dal greco zetesis = ricerca), si rifanno solitamente a un noto passo della Critica della ragion pura.

Tra tutte dunque le scienze razionali (a priori) scrive Kant - soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare.

[Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pag. 633]

All’inizio del capoverso precedente Kant contrappone la conoscenza razionale (cognitio ex principiis) alla conoscenza storica (cognitio ex datis). Ne consegue che, in generale, egli ritiene possibili due forme di apprendimento (e quindi di insegnamento): quello storico, quello razionale. Il primo sarebbe rivolto alla conoscenza delle dottrine e delle opinioni tramandate. Il secondo tenderebbe invece alla conoscenza sistematica della struttura analitica e sintetica della ragione.

La conoscenza storica è - secondo Kant - fondata sul principio d’autorità. Essa sarebbe razionale oggettivamente, in quanto pur sempre proveniente dalla ragione umana, ma non soggettivamente, in quanto non verrebbe attinta alle fonti della ragione universale. Kant dice che la conoscenza storica procede ex datis, in quanto essa non fonda le proprie tesi, ma si limita ad accoglierle nel modo e per quel tanto che le vengano tramandate mediante l’insegnamento o la narrazione.

La conoscenza razionale è fondata invece sul principio dell’evidenza. Essa dunque potrebbe dirsi razionale anche in senso soggettivo, in quanto dotata di validità universale e necessaria. Kant dice che tale conoscenza procede ex principiis, in quanto viene personalmente ricavata dai princìpi universali della ragione.

Vi sarebbero solo due forme di conoscenza razionale: la matematica e la filosofia.

Esse si differenziano - secondo Kant - non solo nel metodo di fondazione, ma anche nella didattica. Solo la prima sarebbe infatti insegnabile in forma sistematica, in quanto la sua effettiva realizzazione storica è conforme alla sua idea. Al contrario, la filosofia non è mai data in concreto, ma solo come idea di una scienza possibile. Di essa esisterebbero solo copie più o meno simili al modello ideale, derivanti dai ripetuti tentativi che scandiscono la storia del pensiero. Non si dà dunque - secondo Kant - la filosofia, ma una successione di filosofie, ciascuna delle quali incarna, limitatamente a qualche aspetto e solo entro una certa misura, il sistema compiuto.

A quale pensatore, a quale corrente - chiede Kant - ci si può rivolgere per conoscere la filosofia come sistema? E la domanda è puramente retorica. Almeno fino ad ora - egli dice -, nessuna filosofia ha mostrato di possedere i requisiti per affermarsi come paradigma. Ciascuna di esse è solo una delle tante vie, attraverso le quali si cerca di accostarsi alla meta della verità.

Fin qui non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi princìpi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi princìpi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli.

[Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pagg. 633 - 644]

Kant tuttavia auspica che un giorno la filosofia possa costituirsi in forma scientifica (l’allusione è alla propria filosofia trascendentale). Si avrebbe, in tal modo una copia abbastanza corrispondente - per quanto è concesso agli uomini - al modello.

Sembra dunque che la negazione kantiana della insegnabilità della filosofia non abbia valore di principio, ma si limiti a registrare una realtà di fatto. Fino ad ora - egli dice - la filosofia non si può apprendere. Ma non è detto che essa debba necessariamente e sempre essere così. Allo stesso modo: fin qui la filosofia si è identificata con la metafisica speculativa (il mondo dei sogni), ma non è affatto detto che, prima o poi, essa non si costituisca come scienza rigorosa.

Non vi è dunque, secondo Kant, un sistema di filosofia. Ma ciò è dovuto al fatto che non si è ancora fatto abbastanza per costruirlo. La metafisica non è fino ad ora pervenuta allo stadio di scienza. È ancora allo stadio del sogno, in cui ogni soggetto abita il proprio mondo fantastico. E pertanto non v’è modo di insegnare questa disciplina in forma sistematica. Chi può dirsi - chiede Kant - in possesso di un tale sistema già compiuto?

Sarebbe - egli ritiene - certamente possibile realizzarlo. Ma ciò richiederebbe un auto-esame preliminare della ragione, onde approntare un organon, o almeno un canone, da cui farsi guidare nella costruzione di un sistema dispiegato di tutto lo scibile a priori (metafisica scientifica). Tutti gli sforzi di Kant sono dunque rivolti in un’unica direzione: superare la tortuosa successione di tentativi ed errori nella ricerca della verità, dotando i filosofi di un sicuro strumento d’indagine: la filosofia trascendentale. Questa è - per ora - solo un’idea, ovvero uno schema, del costruendo sistema compiuto della ragione pura. E offre pertanto la traccia che il filosofo deve seguire nell’edificazione di ogni futura metafisica che si presenterà come scienza.

La Critica della ragion pura mira appunto all’elaborazione di questa idea di sistema. Essa offre il metodo per la costruzione della vera metafisica. Il suo studio è propedeutico sia all’elaborazone di un sistema compiuto dell’esperienza che alla ricostruzione e alla critica delle filosofie storiche.

Scrive Kant:

Da tutto ciò scaturisce dunque l’idea di una scienza speciale che si può chiamare Critica della ragion pura. […]

Una tale critica è dunque una preparazione, se è possibile, ad un organo; e, se questo non dovesse riuscire, almeno ad un canone della ragione, secondo il quale in ogni caso si potrebbe un giorno esporre, così analiticamente come sinteticamente, il sistema completo della filosofia della ragion pura […].

[E …] se si pone a base questa critica, si ha una sicura pietra di paragone per valutare il contenuto filosofico di opere antiche e moderne in questa branca; se no, storico e giudice incompetenti, giudicano le asserzioni infondate degli altri in nome delle proprie, che sono altrettanto infondate.

[Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo I, pag. 57 -59]

Questo è dunque il contenuto del futuro insegnamento della filosofia. Non v’è certamente ancora un sistema insegnabile di filosofia, ma è fin d’ora possibile approntare un organo (o almeno un canone) in base al quale si possa in futuro intraprendere la costruzione di un solido edificio metafisico. Dunque, - si può presumere - prima o poi, dovrebbe essere possibile insegnare ed apprendere filosofia in modo analogo a quanto già ora avviene per le matematiche.

Restano grandi differenze tra queste due forme di conoscenza razionale. A differenza della filosofia, la matematica attinge i suoi princìpi direttamente all’intuizione pura, possiede pochi e chiari indefinibili, ecc. . In matematica, …

[…] le fonti conoscitive, da cui soltanto il maestro può attingere, non si trovano se non nei princìpi essenziali della ragione, e quindi dallo scolaro non possono non essre prese d’altronde, né in alcun modo contrastate; e questo perché avviene qui l’uso della ragione soltanto in concreto, benché tuttavia a priori, cioè nell’intuizione pura, e appunto perciò scevra d’errore, ed esclude ogni confusione ed errore. Tra tutte dunque le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare […].

[Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pag. 633]

Ma - almeno sembra - il baratro che tuttora separa la filosofia dalla matematica sarà colmato, quando anche la prima si sarà dotata di un metodo scientifico. Sono chiarissime, a tal proposito, le indicazioni metodiche (a metà tra fenomenologia e matematica) che Kant prescrive alla filosofia nello Studio sull’evidenza dei princìpi della teologia naturale e della morale.

È qui che possiamo comprendere che cosa egli intenda per filosofare, quando scrive che è questo è ciò che tutt’al più si può imparare.

Si tratta di un complesso di suggerimenti che Husserl avrebbe tranquillamente sottoscritto. Ma ciò dimostra, al massimo, la forte compromissione della fenomenologia con la metafisica (nonostante tutte le buone intenzioni di Husserl).

Qui Kant - come, in seguito il primo Husserl - appare ancora immerso in piena atmosfera metafisica. È vero che egli si oppone all’ontologia speculativa in nome di una ragione critica e riflessiva. Ma è anche vero che la sua pretesa di elaborare un metodo (un organo, un canone) che conduca a un sistema scientifico dell’esperienza (esibente credenziali di universalità, necessità e completezza) è un progetto che si inscrive pienamente nella storia della metafisica dogmatica. Su posizioni analoghe si sono ancora schierati, all’inizio di questo secolo, grandi pensatori come Husserl e Wittgenstein. Ma il loro acume critico li ha, presto o tardi, indotti ad arretrare verso postazioni meno esposte a sdrucciolamenti metafisici. Grazie anche alle loro ricerche è ormai impossibile illudersi che vi sia un metodo (organo) della filosofia. Ed è pertanto impossibile presumere che si possa imparare a filosofare nello stesso modo in cui si impara a calcolare. Kant chiedeva: dov’è il metodo filosofico, chi l’ha in possesso? E rispondeva: fin qui non c’è. Ma confidava di poterlo approntare egli stesso secondo l’idea di una filosofia trascendentale, filosofia …

[…] non data mai in concreto, ma a cui si cerca di accostarsi per diverse vie, finché non sia scoperto l’unico sentiero che il senso non lasciava vedere, e che giunga a rendere la copia, finora difettosa, pari, per quanto è concesso agli uomini, al modello.

[Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pag. 633]

Oggi, in un’epoca che si pretende post-metafisica è giocoforza ripetere l’interrogazione di Kant: dov’è il metodo filosofico? … Ma non è più possibile far eco alla sua risposta: c’è, ma fin qui non è stato scoperto. Bisogna invece rispondere che il metodo non c’è … e basta!

Ci possono tutt’al più essere metodi, non il metodo. E questo perché si è ormai compreso che nessun metodo può essere fondato e che - esattamente all’opposto di quel che pensava Kant - esso non deriva dalla critica della facoltà stessa della ragion pura, bensì dalla critica dei libri e dei sistemi (5) storicamente dati (oltre i quali nessuna ragione è ipotizzabile). Nessun metodo filosofico può offrire una chiave di lettura esaustiva della realtà, e un infallibile metro di giudizio per confrontare i libri e i sistemi. Non è possibile fare appello ad alcuna virginea facoltà razionale, che non derivi - più o meno direttamente - da quei fallibili e tortuosi tentativi che i filosofi hanno consegnato ai loro libri e non di rado hanno congelato nei loro sistemi. È dunque assai dubbio che si possa adottare qualcosa di simile a ciò che Kant definisce metodo zetetico: applicazione dei principi generali della ragione a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi princìpi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli - diceva Kant.

Ed egli poteva ben dirlo! Era ancora - nonostante tutte le sue critiche un metafisico in piena regola. Non aveva ancora tratto tutte le conseguenze desumibili dalla finitezza del soggetto, da quella finitezza che pure egli ha aperto alla nostra comprensione.

Ma … oggi, si può più ritenere che esistano princìpi evidenti direttamente attingibili alle sorgenti della ragione?

Sorprende pertanto che si possa ancora leggere - in piena epoca post-metafisica - che …

l’insegnamento della filosofia altro non è che avviamento al filosofare, cioè all’esercizio delle capacità intrinseche al proprio raziocinio [sic], piuttosto che invito all’apprendimento e al possesso di nozioni definite una volta per tutte e fondamentalmente condivise dalla comunità scientifica.

[Franco BIANCO, Insegnamento della filosofia: metodo "storico" o metodo "zetetico", in Paradigmi, VIII, 1990, 23, pag. 397]

Si è proprio sicuri che il giusto antitodo al piatto nozionismo dossografico della tradizione didattica italiana sia questo ingenuo appello a un mitico raziocinio? È proprio vero che quest’ultimo potrebbe costituirsi senza la partecipazione al patrimonio ideale sedimentato nelle secolari tradizioni filosofiche? E infine: è proprio necessario rassegnarsi alla secca alternativa tra l’apprendimento manualistico (a torto identificato con l’approccio storico) e la fumosa applicazione di vaghe capacità razionali ai problemi della vita?

 

Quindi Kant giunge, per altra via, alla medesima conclusione di Platone.

La filosofia non si può insegnare nella medesima forma in cui si insegna una qualsiasi dottrina scritta - afferma il filosofo greco nella Lettera VII.

 

Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri, che non capiscono nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma si accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di sé medesima.

[Platone, Lettera VII]

E Kant - lo si è già visto - spiega:

[…] non si può imparare alcuna filosofia […]. […] Si può soltanto imparare a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi princìpi generali […].

[Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo II, pag. 633]

Kant non accorda qui la sua preferenza al metodo sistematico - preferenza che sembrerebbe attestata dal suo richiamo ai princìpi generali. Egli infatti esclude che tali princìpi si possano desumere da una qualsiasi filosofia data, e confida piuttosto - come Platone - che la loro comprensione scaturisca dall’esercizio del talento (magari come fiamma si accende da fuoco che balza).

Il riferimento al talento conferma l’impressione che l’esercizio filosofico sia una sorta di Bildung somigliante all’educazione estetica più che all’istruzione simile a quella scientifica.

Kant chiarisce nella terza Critica che cosa si debba intendere per esercizio del talento. In quel contesto egli contrappone il talento artistico a quello scientifico, proprio in quanto il primo è inimitabile e quindi non insegnabile, frutto esclusivo del genio personale.

Egli non parla del talento filosofico e non chiarisce se esso sia più simile alla prima o alla seconda forma. Si limita a fare gli esempi di Newton, da un lato, e di Omero e Wieland, dall’altro. Ci si può chiedere dove si collocherebbe egli stesso, in quanto filosofo.

Ora, se si considera che la nota caratteristica del talento artistico è l’opposizione assoluta con lo spirito d’imitazione, e quindi con la bisogna riconoscere.

Si possono ipotizzare diverse forme di esercizio applicativo in filosofia.

Innanzitutto, è possibile utilizzare la filosofia per rendere più chiaro l’universo precategoriale. In questo compito essa concorre con le discipline scientifiche. Anche queste perseguono infatti la chiarificazione del mondo della vita, e svolgono questa funzione con notevole successo. Qual è dunque la differenza tra l’una e le altre? [x]

Naturalmente si tratta di vedere se quest’opera di chiarificazione possa essere ripresa e condotta innanzi, al di là degli esiti effettivamente conseguiti dai filosofi che l’hanno intrapresa. Occorre estendere l’indagine alla cosiddetta storia degli effetti, per verificare se e sotto quale aspetto una concezione filosofica costituisca una premessa essenziale del pensiero contemporaneo. trascrizioni della realtà entro i quali prendono senso il visibile e l’invisibile, le cose e i processi, gli individui e le classi, i fatti e le teorie, gli esempi e i concetti, gli enti reali e quelli possibili, i significanti e i significati, ecc. .

  1. Proiettare le idee filosofiche entro le strutture del mondo della vita. Comprendere

L’approccio storico in filosofia non va dunque confuso con quello tipico della storiografia scientifica, almeno nella forma positivistica in cui viene inteso da alcuni autori.

Inteso in tal senso - ovvero come scienza che desume il dato empirico dall’analisi documentaria -, esso non appare neppure possibile - anche qualora risultasse opportuno -, in quanto le operazioni filologiche non consentono un aggancio immediato ai presunti dati storici. L’analisi epistemologica dimostra infatti che i dati non sono affatto tali, ma costruzioni fondate su postulati teorici: non sono fatti, ma interpretazioni.

Un presupposto dell’indagine filologica - si è detto - è la possibilità di distanziarsi dal testo. Ma non bisogna passare dal sobrio riconoscimento di tale possibilità all’ideologica pretesa di cogliere, sia pure per successive approssimazioni, l’intenzione originaria dell’autore. E ciò non tanto perché i mezzi conoscitivi a nostra disposizione siano insufficienti, ma perché la nozione stessa di intenzione originaria è solo un’idea regolativa della ricerca filologica. L’errore consiste nell’assegnarle valore costitutivo (nel prenderla sul serio), dimenticando che si tratta soltanto di un’interpretazione ideologica che esprime l’intenzionalità archeologica dello storico.

appare illegittima anche perché comporta il misconoscimento di un’altra distanza: quella che si interpone tra l’autore e il proprio scritto.

Sicché: se si pretende di ricostruire oggettivamente l’intenzione dello scrittore - quasi fosse una sorta di immutabile struttura mentale, cui tutte le interpretazioni storicamente date debbano indefinitamente approssimarsi - si è costretti a negare la distanza tra l’autore e lo scritto, e si resta spensieratamente nella metafisica logocentrica inaugurata dal Fedro platonico. Derrida ha infatti individuato in quest’opera il luogo in cui nascono la diffidenza nei confronti della scrittura e la venerazione per la parola detta. In quest’ultima si presume sia custodito il senso autentico dei discorsi, quel senso di cui lo scritto rappresenterebbe la riduzione e il tradimento. Nella parola sarebbe immediatamente presente (metafisica della presenza) il Logos. E la scrittura sarebbe invece assenza (dell’autore, del suo autentico pensiero). Su queste premesse si fonda, tra l’altro, l’illusione di riportare filologicamente alla presenza l’originaria intenzione espressiva. Nello scritto il logos non è più immediatamente presente, ma balugina attraverso le righe. Il senso, così come deve averlo pensato l’autore, è dato: si tratta solo di coglierlo attraverso accorte procedure analitiche. Tra il pensiero e la scrittura vien posto quindi lo stesso rapporto che l’idealismo empirico (nella definizione kantiana) supponeva tra la cosa in sé e il fenomeno. Questo è inteso quale mera apparenza che vela la realtà di quello.

Viceversa: se si afferma la distanza tra l’autore e lo scritto

L’ermeneutica filosofica di questo secolo si oppone invece alla reificazione del senso. E tenta di restiruire centralità alla scrittura, con una svolta densa di implicazioni (ancora, in gran parte, da svolgere). Una di queste è proprio la consapevolezza che dietro la scrittura non c’è nulla da cercare, né attraverso intuizioni simpatetiche né attraverso meticolose dissezioni filologiche. Quel che è da cercare si trova piuttosto davanti al testo: nel presente, più che in un morto passato. Ciò significa che l’autentica interpretazione - come afferma Gadamer, nel passo dianzi citato - consiste nell’applicazione del testo al contesto del lettore. Senza operazioni applicative non si dà interpretazione; così come senza interpretazione non si verifica alcuna autentica comprensione. Ovviamente qui si parla di autenticità nel senso inaugurato da Heidegger in Sein und zeit, e quindi con intenti opposti rispetto a quelli che ispirano la storiografia scientifica. Non si pensa certo a una prassi interpretativa che porti alla luce (mediante operazioni archeologiche) i veri significati sepolti sotto i depositi scritturali. I significati si danno solo in correlazione con l’atto interpretativo, e non sussistono (in sé) in attesa della scoperta storica.

Si pensa invece a un rapporto con il testo, che si esplichi nel quadro di una temporalità autentica. L’interpretazione storico-filologica si modella sulla struttura della temporalità inautentica. Questa è caratterizzata dal predominio del presente sul passato e sul futuro.

La specificità e l’effettualità delle due dimensioni dell’assenza (il passato e il futuro, appunto) viene oscurata dall’abbaglio della semplice presenza. Il passato vien ridotto a ciò che non è più, e va soltanto archiviato e ri-evocato; il futuro a ciò che non è ancora, e va soltanto pre-visto e pro-vocato. Al contrario, nella temporalità autentica, il presente illumina con la viva luce dell’attualità un passato che ancora effettualmente per-mane, e un futuro che già efficacemente per-viene.

Nella temporalità autentica è rovesciato il rapporto fra i momenti o estasi del tempo: non è più il presente che domina e modella la rappresentazione del futuro, ma viceversa […].

[Gianni VATTIMO, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di "Filosofia", Torino 1963, pag. 6]

La struttura dell’interpretazione autentica è conforme a quella della temporalità autentica. In questa prospettiva, l’interprete non si rassegna a ripetere il passato, ma si impegna ad arricchirlo dei significati inediti che si dispiegano incessantemente nell’orizzonte presente. Il passato non muore, in quanto viene compreso e ripreso (applicato) in forme sempre diverse (ma non certo arbitrarie!). In tal modo esso non cessa mai di produrre i suoi effetti nel flusso continuo dell’attualità, e non si riduce mai a inerte reliquia.

Occorre pertanto riconoscere la distanza (anzi, l’incolmabile assenza) che recide il rapporto tra la soggettività dell’autore e il significato dell’opera scritta. Quest’ultima - è stato da tempo riconosciuto - vive di vita propria. E la sfera dei suoi molteplici (anzi, inesauribili) significati può essere indefinitamente arricchita, senza riguardo alcuno a quanto potessero ammettere o anche soltanto immaginare l’autore e i suoi contemporanei.

Ma veniamo all’altro corno del dilemma! Per sistema si intende forse l’approccio deduttivo, rivolto - come il precedente - alla scientificità e all’obiettività della trattazione, e consistente in una ordinata presentazione dei capitoli della filosofia contemporanea (etica, epistemologia, filosofia politica, ontologia)?

Se sì, è ovvio che non è né opportuno né possibile insegnare un sistema (e neppure degli elementi) di filosofia. Non esistono istituzioni di filosofia (come invece si danno istituzioni di diritto privato): non si dispone di un complesso di princìpi, metodi, tecniche e risultati accreditati dalla speculazione contemporanea.

Non è opportuno - anche qualora fosse possibile -, in quanto la filosofia, a differenza delle scienze matematiche e naturali, non dispone di paradigmi ufficiali, e, diversamente dalle scienze umane, non può neppure illudersi di darseli in un futuro più o meno lontano. Ciò dipende dalla natura del pensiero filosofico, che non può più essere considerato una forma di sapere, a meno che non si voglia ricadere nella metafisica. La filosofia non è conoscenza - lo sappiamo almeno dal 1781 (data della pubblicazione della prima critica kantiana), e pertanto non può fondarsi su basi empiriche o matematiche. È per questo che non si può, a rigore, parlare di paradigmi filosofici. Il concetto di paradigma, coniato dalla sociologia della scienza, indica infatti propriamente una costellazione di princìpi, metodi e procedure (imposti dagli strumenti diponibili, codificati in testi classici e manuali, e canonizzati dalle istituzioni scientifiche), che delimitano il campo problematico entro il quale la ricerca deve muoversi, nonché le procedure sperimentali, inferenziali e argomentative considerate valide. Insomma, un paradigma è una chiave di lettura ideologica, politica o scientifica adottata dalla maggioranza della comunità. Stupisce dunque che si possa parlare di paradigmi di filosofia, ove si convenga che questa disciplina - non disponendo di procedure costruttive o sintetiche (chi può infatti ancora sostenere che siano possibili giudizi sintetici a priori?) - e non potendo pertanto costituirsi quale scienza, non può fondarsi né su princìpi primi, né su tecniche di ragionamento e nemmeno su fatti certi. Come non rimanere dunque perplessi nel leggere che, per superare la prova del concorso a cattedre di filosofia, …

Il candidato dovrà dimostrare […] di aver maturato i fondamenti epistemologici e di conoscere i principi critico-metodologici relativi alla ricerca filosofica […].

[D. M. n. 357 dell’11 agosto 1998, Programmi e prove di esame per le classi di concorso a cattedre]

E che non si tratti solo una conoscenza storica delle concezioni metafisiche del passato, che tali fondamenti ingenuamente ricercavano, lo si deduce dall’articolazione tematica proposta nell’allegato A dello stesso documento. Laddove si propone candidamente la distinzione tra i cosiddetti fondamenti epistemologici e metodologici (tabella A) e i contenuti (tabella B).

Sotto il primo titolo rientra, ad esempio, …

Il dibattito interno alla storia della filosofia occidentale sulla identità della filosofia in rapporto alle altre forme del sapere, sui fondamenti epistemologici della filosofia […].

[D. M. n. 357 dell’11 agosto 1998, Programmi e prove di esame per le classi di concorso a cattedre, Allegato A]

Dunque, la filosofia è una forma di sapere, distinta dalle altre da propri metodi di fondazione, ma pur sempre accomunata ad esse dalla propria scientificità.

Questa residua concezione metafisica che fa della filosofia una sorta di scienza positiva riducibile a un complesso di elementi concettuali e metodologici è riscontrabile, in forma ancor più scoperta, nel famoso documento dei cosiddetti saggi, chiamati a porre le basi della riforma dei curricoli scolastici. Leggiamo …

L’insegnamento della filosofia - positiva specificità della scuola italiana - non può venire esteso indiscriminatamente nella sua forma attuale di ricostruzione storica. La sua destinazione generale consisterà nel dotare tutti i giovani di strumenti concettuali adeguati alla ragionevole costruzione di una soggettività propositiva e critica. Questa prospettiva include due versanti. Da un lato le questioni di senso e di valore (obblighi, scopi, diritti e doveri, valutazione delle condotte, questioni di giustizia): insomma, la costruzione della capacità di sviluppare razionalmente i propri punti di vista, e di comprendere e di discutere quelli altrui, a partire dalle situazioni e dai problemi dell’esperienza concreta (questioni di etica e bioetica, responsabilità, cittadinanza). Dall’altro, le questioni di verità, (a partire da questioni elementari di logica, teoria dell’argomentazione, epistemologia). […].

[I contenuti essenziali per la formazione di base, paragrafo I contenuti irrinunciabili, punto 5, marzo 1998]

Ecco! È qui evidente una duplice confusione: in primo luogo, tra la filosofia e quel complesso di pratiche discorsive intese alla definizione degli orientamenti ideologici e normativi che dovrebbero ispirare le scelte individuali e collettive (etica, educazione civica, politica,); e, in secondo luogo, tra la stessa filosofia e le forme di sapere che cercano di analizzare e spiegare le condotte umane (scienze dell’uomo: psicologia e psicoanalisi, antropologia, sociologia, storia, ecc.).

 

NOTE

1) Non bisogna tuttavia ridurre la filosofia di Platone (come qualsiasi altra filosofia) entro una prospettiva banalmente ontica, come se il filosofo avesse voluto dedurre criteri applicativi per il giudizio teoretico e morale. Platone (come del resto qualsiasi altro filosofo) non si interroga innanzitutto sulle cose che possono essere considerate vere, giuste o belle - o, almeno, non è questo l’oggetto immediato della sua ricerca; s’interroga invece su che cosa siano in se stessi il vero, il giusto, il bello. Kant direbbe che Platone ricerca le condizioni di possibilità della verità, della giustizia e della bellezza. Perciò le sue opere sono essenziali alla filosofia (e non alla scienza, alla politica, all’etica e all’estetica). Le domande della filosofia (e pertanto anche quelle di Platone) sono domande ontologiche e non ontiche. La teoria politica di Platone è forse la parte meno filosofica e più metafisica (e pertanto anche la più caduca) del suo pensiero, proprio in quanto essa affida al filosofo la conduzione della polis. È forse proprio da questo progetto che ha preso le mosse la saldatura tra metafisica e potere che caratterizza la nostra civiltà. Analoghe considerazioni si possono fare a proposito della sua gnoseologia (posto che gliene si possa attribuire una) e della sua etica.

2) Cfr. Carlo SINI, Filosofia e scrittura, Laterza, Bari 1994, pag. 82. Il filosofo milanese pone al centro della sua riflessione il nesso tra evento e significato. In un altro libro Immagini di verità. Dal segno al simbolo, Spirali, Milano 1990, leggiamo: "[…] l’esperienza della verità si colloca all’incrocio, al nodo, tra Evento e Significato […]. Potremmo immaginare due rette perpendicolari: chiamiamo quella orizzontale "Significato" e quella verticale "Evento"; la verità cruciale si pone al punto di intersezione delle due rette. […] L’incrocio della verità [di qui l’espressione "verità cruciale"] è naturalmente a due facce, cioè dice contemporaneamente i due sensi […]. - Evento della verità (accadere della verità). - Verità dell’Evento (cioè significato dell’Evento." [pag. 165].

3) Attribuire a una concezione filosofica o a una teoria scientifica lo statuto di interpretazione non comporta la sua riduzione al rango di mera fantasia soggettiva. Non è certo questo il luogo per tattare questa delicata e vexata questio. Può essere sufficiente richiamare quanto scrive Heidegger, nel § 32 di Sein und Zeit. Dopo aver affermato che "L’interpretazione di qualcosa in quanto qualcosa è fondata essenzialmente nella pre-disponibilità, nella pre-visione e nella pre-cognizione" e che, per contro "Il procedimento dimostrativo scientifico non può cominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare", egli si chiede: "Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo […]?". E risponde: "L’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. […] Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si riconosce una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema." [Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, pagg. 188 -195]

Non bisogna equivocare il senso dell’espressione chiarezza completa. Wittgenstein precisa che tale chiarezza si consegue smettendo di filosofare. E ciò va preso alla lettera! Non significa infatti che l’autore delle Ricerche continui ad illudersi metafisicamente di poter risolvere, una volta per tutte, i problemi della filosofia. Significa invece proprio il contrario. Egli si propone di uscire dal solco della metafisica, smettendo semplicemente di occuparsene. Egli vuole occuparsi di problemi particolari (non filosofici o, meglio, non metafisici), affrontati con metodi particolari (cioè attraverso l’analisi paziente e sempre provvisoria che il linguaggio ordinario compie su se stesso). E intende tralasciare (non già risolvere), una volta per tutte, i problemi generali (metafisici) affrontati con metodi rigorosi e argomentazioni logicamente garantite. È questo il senso delle due frasi che chiudono il citato paragrafo 133 delle Untersuchungen:

4) "Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie." [sottolineature di Wittgenstein].

5) "Che poi questo sistema [il sistema della ragion pura, l’organo o il canone, ovvero il metodo] sia possibile, anzi non sia per essere di tale ampiezza da togliere la speranza di compierlo, si può già argomentare da ciò, che […] non dovendo esser cercato fuori di noi, non ci può restare celato, e secondo ogni previsione è abbastanza piccolo da poter essere rilevato interamente, giudicato nel suo valore o non valore, e ridotto al suo giusto apprezzamento.

Tanto meno ci si può aspettare qui una critica dei libri e dei sistemi della ragion pura, bensì quella della facoltà stessa della ragion pura. Se non che, se si pone a base questa critica, si ha una sicura pietra di paragone per valutare il contenuto filosofico di opere antiche e moderne […ecc.]. [Immanuel KANT, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1975, tomo I, pag. 59]