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Comunicazione Filosofica n. 6 - novembre 1999

 

Lo Statuto Epistemologico della Filosofia di fronte alle Nuove Tecnologie della Comunicazione

Relazione presentata al Seminario di Studio del Ministero della P.I.

Le nuove tecnologie e l’insegnamento della storia e della filosofia

Fiuggi, 26-30 ottobre 1998. [i]

 

Il mio intervento affronta il tema “Lo statuto Epistemologico della Filosofia di fronte alle nuove tecnologie”. Cercherò di restare fedele ai tempi che mi sono stati fissati, in modo da non appesantire il tutto: per far questo, sono stato molto rigoroso con me nel fissare sei e solo sei punti che toccherò nel percorso. Il primo punto riguarda il concetto di nuove tecnologie, il secondo riguarda invece l’allarmismo catastrofistico che si è diffuso, che talvolta viene sollevato nei confronti delle nuove tecnologie soprattutto nel mondo umanistico e dei filosofi. Ne identificherò sia gli errori “cognitivi” che quelli “comportamentali”. Mi soffermerò poi sul vero e proprio nodo preliminare di cui nel titolo, e, sia pur brevemente, sul problema dello “statuto epistemologico della filosofia” per se. Poi cercherò, in quarta istanza, di vedere fino a che punto le tecnologie della comunicazione nel corso dell’evoluzione della civiltà della cultura si sono intrecciate con la Filosofia e la Filosofia si è modellata a partire da certe tecnologie della parola, piuttosto che altre nel suo percorso. E cercherò di proporvi un punto di vista problematico: tutto ciò di cui oggi vi parlo non è nient’altro che una recensione di una serie di problemi di ricerca che stiamo definendo. Cercheremo quindi di assumere un punto di vista il più possibile comprensivo e critico sul nesso che c’è fra statuto Epistemologico della Filosofia e nuove tecnologie. E infine vorrei proporre due punti, gli ultimi punti, una specie di critica del lessico delle nuove tecnologie, che si focalizzerà su due concetti che sono veri e propri luoghi comuni, ma più che luoghi comuni, sono slogan diffusi nel linguaggio parlato; sono in ordine interattività e multimedialità.

Il problema che devo affrontare lo voglio sdrammatizzare subito, e mi ha aiutato un colloquio ieri con il collega Di Giandomenico: si diceva che il nostro maestro è Pippo, Pippo che, da vero filosofo qual è, ad un certo punto si pone le domande: “chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”, ma aggiunge una domanda tutta sua: “con che cosa ci andiamo?” Il discorso che dobbiamo fare è una recensione attorno a questo interrogativo, tenendo fede alle domande tradizionali della nostra storia, che sono quelle di senso, ma anche interrogandoci sui percorsi, sulle modalità con le quali arrivare dove vogliamo arrivare, ossia sui mezzi di “navigazione” con i quali affrontare, nel contesto della “società dell’informazione”, il viaggio filosofico.

 Ora, noi siamo già immersi in un universo segnato dalla presenza delle nuove tecnologie, viviamo in una società che è già caratterizzata dal “dominio delle tecnologie dell’informazione”: si parla sempre più di “società dell’informazione”, dell’era dell’informazione. È molto facile spiegare cosa intendiamo qui con “nuove tecnologie”: sono i “nuovi media”, che si sono sviluppati nel corso del nostro secolo. Potremmo ripercorrere mentalmente una rapidissima carrellata dall’inizio di questo secolo, l’abbiamo sotto gli occhi tutti perché ci siamo immersi. L’era che MacLuhan ha chiamato “l’era elettrica”[ii], che appunto ha presentato un’innovazione che vanno dal telefono alla telefonia, fino alla telematica, dopo la telefonia la televisione, dopo la televisione i nuovi media in particolare, cioè i “personal computer”, le tre grandi fasi dello sviluppo dell’evoluzione del “personal computer”, fino ad arrivare proprio alla telematica. Ora, se in questo universo mediale siamo immersi, significa che possiamo affrontare il discorso non solo e non tanto come ha fatto il collega Di Giandomenico ieri, sulla quaestio de juris, e neanche sul quid facti, dato che ci siamo già, “dentro” le nuove tecnologie. Vorrei suggerire un altro punto di vista, che io chiamerei “trascendentale”, che forse integra e amplia quanto suggerito ieri da Di Giandomenico. Si tratta di riflettere su come queste tecnologie, e le loro strutture, modificano gli universi del sapere, divenendone fattori costituenti. Questo è un problema che tocca ovviamente la Filosofia, perché ci si chiede sempre più che cosa succede al pensiero quando opera in questo nuovo contesto. Questo punto di vista non consiste tanto nel riflettere sulla struttura profonda, prendendo anche magari posizione (qualche volta è necessario, contro i guru dell’Informatica che si pensano i nuovi Galileo, e s’immaginano che il mondo sia scritto in bit, invece che in caratteri matematici); ma piuttosto del rapporto che viene posto in essere fra queste nuove tecnologie e il pensiero, ossia quali mutamenti noetici e categoriali essi comportano per chi si esprime, comunica e riflette immerso in questi nuovi media. Non mi soffermo sulla descrizione delle nuove tecnologie perché presuppongo che vi sia, come a me, già un po’, ed  abbiate quindi presente di cosa sto parlando. È anche vero, peraltro, che una analisi spassionata di quello che è successo è comunque importante perché l’atteggiamento tante volte ancora presente è quello della meraviglia, della venerazione, di fronte a queste macchine, al che si assimila l’incapacità di osservarle in modo distaccato e critico. Considero invece la reazione di paura e preoccupazione che abbastanza spesso si sente echeggiare nei discorsi dei filosofi. Ora, l’allarme apocalittico che viene lanciato da molti colleghi di fronte a questo nuova situazione è assai significativo. Si dice che in questi mezzi è implicita una “Filosofia”, che sta “dentro” questi mezzi, quando utilizzati ovviamente per il calcolo delle parole (negli ipertesti, negli ipermedia, nella telematica). È una “rivoluzione mentale”, ci viene detto, che tocca profondamente e cambia il comportamento comunicativo e la conoscenza. Si dice infatti che da un modello di pensiero, da un modello noetico (quello tradizionale, centrato sulla sequenzialità  e quindi sulla logica deduttiva e induttiva, ipotetico deduttiva) — da quel processo che Hegel chiamava “la fatica del concetto” — si passa a un modello “a rete”, anche “neuronale” se volete, che dai francesi è stato chiamato un modello “rizomatico”, in cui la logica dominante è la logica ipotetico abduttiva piuttosto che quella ipotetico deduttiva o induttiva. Il che è, sin qui, condivisibile. Ma spesso a queste constatazioni generali fa seguito anche un ulteriore valutazione, che rappresenta invece un vero e proprio errore cognitivo[iii]. Di fronte alla  “rivoluzione mentale” in corso, si adotta un orientamento che è solo di chiusura e difensivo. L’introduzione dei nuovi media viene giudicata come un mutamento di portata “catastrofica”[iv] per la concezione stessa della Filosofia. Si percepisce, con nettezza, un clima di timore e di paura. Al “riorientamento gestaltico” introdotto dai nuovi media, di cui viene compresa la portata da “rivoluzione mentale” (ossia il fatto che comporti una “ristrutturazione delle facoltà mentali”),  si attribuisce il rischio di introdurre «mutamenti di portata catastrofica nella stessa concezione della filosofia», tanto da condurre al «dissolvimento della specificità della filosofia» (tanto da suggerire la «riapertura della questione della morte della filosofia”»); si mette in guardia contro un uso superficiale, ingenuo di questi mezzi che poi conduca all’“eutanasia pedagogica” del pensiero filosofico[v].

Bene, gli aspetti di questa rivoluzione sono sostanzialmente due (ma non penso sia mio compito oggi entrare troppo nei dettagli su questo), gli ipertesti e gli ipermedia da una parte, e la telematica dall’altra. Questa rivoluzione comporta davvero dei problemi di tipo noetico, cognitivo, così come anche dei problemi di quantità, di “overload” dell’informazione, oppure dei problemi di tipo sociologico sulla chiusura del mondo, del mondo telematico sulla introduzione di sperequazioni fra chi dispone delle informazioni e chi non ne dispone, o fra gerarchie, fra chi è diciamo dipendente e chi può invece liberarsi dalla dipendenza: questi sono alcuni degli argomenti che vengono affiancati nel grido d’allarme che esterna una paura un po’ apocalittica. Ma i presupposti di questa paura io credo che vadano identificati in un punto. Si sostiene che «per la prima volta» questo rischio per la Filosofia «non si pone in relazione ad un limite interno alla tradizione filosofica e alle sue questioni essenziali, ma a opera di strutture tecnologiche che ridefiniscono le facoltà mentali che hanno permesso il costituirsi stesso del logos, e questo può essere l’indice di un passaggio epocale»[vi]. E questo è un vero e proprio errore, che di fatto, in prospettiva si può commettere, ma dal quale dobbiamo guardarci. Infatti non è proprio la prima volta che succede nella storia del pensiero che le facoltà mentali sono definite, strutturate o ristrutturate da tecnologie della parola, o dalle tecnologie dell’espressione. Non è la prima volta che il pensiero umano, e poi la “filosofia”, sono passati attraverso una “ristrutturazione” di questo genere. Si può partire addirittura dal punto di vista paleoantropologico[vii]. Il nesso profondo che c’è nella nascita della cultura fra la parola e la mano, fra la parola e la tecnica, la parola come strumento che si affianca ad un altro strumento che è appunto quello della mano, nel processo di liberazione che è avvenuto nell’evoluzione della specie, con la stazione retta: la liberazione della mano, quindi la tecnica, il mondo delle tecniche e la liberazione della parola, e il contesto entro cui è avvenuta poi l’encefalizzazione così come la vediamo oggi (poi da quanto è arrivato l’homo sapiens sapiens, penso modifiche genetiche nella nostra specie non sono ancora intervenute). L’intera evoluzione della nostra specie si dipana dentro questo “universo culturale” dato dalla tecnica e dalla parola che è non bipartito, ma duale. Senza la mano non sarebbe possibile nemmeno la parola, e senza la parola non sarebbe stato possibile nemmeno lo sviluppo corticale superiore. Le “tecniche” sono sempre state presenti, non solo quando si è trattato di trasformare il mondo, ma quando si è trattato di plasmare la stessa evoluzione della struttura cerebrale. La nostra corteccia cerebrale, come sapete, è, per la maggior parte della sua struttura, volta al controllo della stazione eretta, della mano e degli organi della fonazione.

E, da questo punto di vista, noi possiamo certamente mettersi nella giusta prospettiva e correggere questo primo errore, proseguendo nello studio dell’evoluzione dei mezzi di espressione e di comunicazione creati nel corso dell’evoluzione delle culture, fino al  momento in cui, mentre avviene la rivoluzione dei “nuovi media”, noi siamo messi, ancora una volta, di fronte a mezzi che rivoluzionano il rapporto che c’è tra la parola e l’immagine, tra la parola e le altre parole, tra la parola e qualsiasi altro mezzo d’espressione, compreso il suono. Queste nuove relazioni che non sono più “lineari e sequenziali”, come nella scrittura e nel testo a stampa, ma sono in una forma diversa: si da una forma diversa del testo. In questo contesto ci rendiamo conto che dobbiamo ripensare alle modalità con le quali nella storia del pensiero, il rapporto fra le tecnologie della comunicazione e la mente sia andato via via definendosi. Si tratta di un rapporto, una relazione che si cmprende bene se si assume un punto di vista olistico, non certo pensando alle “tecniche” come ad un qualcosa di “esterno” al pensiero stesso.

A guardar bene, questo è solo un punto di vista diverso, forse nuovo rispetto a molti altri, del dibattito sul rapporto tra mente e corpo che è uno dei dibattiti filosofici molto vivi, vivaci nel nostro secolo, e nell’intero corso della storia della filosofia occidentale.

L’atteggiamento pessimistico e negativo di alcuni filosofi nei confronti delle nuove tecnologie non è ovviamente l’atteggiamento di tutti i filosofi, o di tutti quelli che si occupano di Filosofia, ma è comunque un atteggiamento diffuso e significativo, e pensandoci bene, alquanto più significativo nella misura in cui, per esempio, si pensa che Polizzi è proprio un “pioniere” nel campo dei rapporti tra filosofia e nuovi media, nel senso che è il coautore di materiali didattici, centrati per l’utilizzo dell’Informatica nell’insegnamento della Filosofia[viii].

Invece (come non mi stanco di suggerire da parecchio), l’atteggiamento corretto da assumere è quello di chi è consapevole che «L’esistenza stessa della filosofia e di tutte le scienze e le “arti” (…) dipende dalla scrittura: questo significa che esse sono prodotte non dalla mente umana senza aiuti, ma dalla mente che usa una tecnologia profondamente interiorizzata, incorporata nei processi mentali stessi. La mente interagisce col mondo materiale in modo più profondo e creativo di quanto finora non si credesse. La filosofia […] dovrebbe avere più consapevolezza di essere un prodotto tecnologico, il che significa un tipo speciale di prodotto molto umano. La logica stessa emerge dalla tecnologia della scrittura» [ix].

Dal che si comprende che il problema di cui ci dobbiamo occupare stamane non è relativo solo al rapporto fra filosofia  e nuovi media, ma vale in generale per le relazioni tra filosofia e tecnologia della parola, tra la filosofia e qualsiasi tecnologia dell’espressione. Verrei così al problema centrale del nostro lavoro, la questione senza dubbio più difficile da mettere a fuoco. Al solito, la cosa importante è proprio identificare e definire i problemi, più che pensare di avere le soluzioni. Di per sé, per metterci in un ginepraio di questioni aperte, nel bel mezzo di un dibattito irto e difficile, basterebbe ci limitassimo al problema dello “Statuto Epistemologico della Filosofia” (anche se va detto che è  una questione in cui altrettanto raramente si procede sino in fondo con rigore e volontà di sintesi).

È vero, d’altra parte che, com’è stato detto anche ieri, ci possono essere almeno due modi di intendere la ricerca filosofica, e sostanzialmente, anche due modi diversi di accedere alla Filosofia. Il primo è quello che si qualifica attribuendo alla Filosofia un significato di tipo “dottrinale”. La Filosofia, da questo punto di vista, è un sapere tra i saperi o anche una tecnica per l’elaborazione di un sapere particolare in mezzo a tanti altri saperi. Una tecnica che permette di costruire il discorso, sulla base del quale si da poi conoscenza o sapere, o sulla base del quale si fanno circolare informazioni. E questa prima prospettiva può poi dividersi a sua volta in due direzioni diverse. Di fatto la Filosofia è stata sempre più nell’età moderna un ripensare se stessa, quindi l’oggetto del discorso è la propria stessa storia, la storia della propria tradizione, ed ecco allora la storia della Filosofia o la storia delle idee. D’altra parte questo sapere che si elabora con una prospettiva particolare, può anche essere orientato alla trattazione di problemi, i più disparati. Filosofia come un sapere tra i saperi, quindi, al cui interno si opera la distinzione tradizionale tra Filosofia intesa come ricerca storica, e la Filosofia come teoresi, o problematizzazione. Abbiamo anche a livello disciplinare in Università l’ipostatizzazione di queste due branche della ricerca, che abbiamo ereditate dalla tradizione come nettamente distinte. E il grande dibattito cui senz’altro molti di noi hanno assistito s’è appunto centrato sul presunto conflitto tra la “storia della filosofia” e la filosofia “analitica” , o filosofia tout court. Ma non è proprio vero però che queste siano due prospettive alternative, perché entrambe partono dallo stesso comun denominatore: la filosofia è un sapere. E poi, c’è un’altra possibile maniera di guardare alla filosofia. C’è un’altra possibile concezione della Filosofia: la Filosofia intesa come un’attività, non come una dottrina, un sapere fra i saperi. La Filosofia intesa come pratica, come esercizio del pensiero, ma anche come maniera di essere, come modo di vivere. Tutto sommato questa distinzione è abbastanza antica: se ci pensiamo, la ritroviamo anche in Platone, che tra l’altro è uno dei protagonisti proprio della conquista della consapevolezza profonda del legame fra tecnologia della scrittura e pensiero. Nella Lettera settima, e in altri luoghi dei dialoghi, Platone ci testimonia che la Filosofia è fatta di un lungo, rigoroso, duro esercizio dialettico, faticosissimo, ma che essa non si identifica con questo “controllo del discorso”, con questa “tecnica” della dialettica, del dialogare; la Filosofia è qualcosa di più. Ci dice che la Filosofia «non è una scienza come le altre», «non si può in alcun modo comunicare», è come «una fiamma che si accende da un fuoco che balza, nasce d’improvviso nell’anima»[x]. Insomma la Filosofia è un’esperienza interiore, personale, unica, e non si identifica con i tentativi di concettualizzare, definire, trasformare in un sapere che possa essere trasmesso. Essa non sarebbe pertanto un “discorso” su qualcosa, ma proprio l’esercizio di un modo di esistere, di vivere[xi]. Platone, poi, è proprio colui che tra l’altro, come ho detto, ha elaborato la sua ricerca e la comunica muovendo all’interno di un paradigma, che è quello permesso dalla scrittura, e del paradigma della logica argomentativa che lo descrive. Il suo è il primo modello organico di scrittura filosofica nella tradizione, e la discussa polemica da lui condotta nei confronti della scrittura, che pure utilizza, non è così paradossale come potrebbe sembrare, perché è proprio così che egli riesce a cogliere lo specifico della pratica filosofica: su questo crinale difficile per cui l’esperienza della Filosofia è si come una ricerca conoscitiva fra altre ricerche, una ricerca particolare tra altre, ma è anche e soprattutto un’esperienza, esercizio di pensiero di natura diversa rispetto alle esperienze della ricerca conoscitiva. La dottrina platonica relativa alla distinzione tra noesis e dianoia è abbastanza nota, ed importante, come voi sapete.

Poi, per far ricorso ad un esempio moderno, basterebbe riferirsi a quel celebre passo kantiano della Fondazione della metafisica dei costumi in cui egli, per definire in che cosa consista la “posizione critica” e la “genuinità” della filosofia, sostiene che essa consista proprio nel non poter “agganciare” la sua posizione «a nulla nel cielo, o ad appoggiarla a nulla sulla terra»[xii]. Credo possiamo leggere correttamente la metafora kantiana riferendola alla filosofia in quanto tale, e non solo alla filosofia pratica. La ricerca filosofica è per sua natura autonoma: poggia solo su se stessa, poggia sulla umana capacità di autocoscienza e di metacognizione, sulla capacità autonoma di riflettere su di sé, sulle condizioni stesse del proprio operare e sulle proprie pratiche, cogliendone l’orizzonte e ponendo le più radicali domande di senso.

In fondo poi noi, nel corso della nostra tradizione, ci siamo abbastanza pesantemente basati su una nozione di un sapere di tipo libresco, erudito, soprattutto nella modernità, mentre alle origini, il sapere era, pensate ad Odisseo, l’arguzia, l’acume, l’ingegnosità, la capacità di affrontare i problemi. E potremmo prendere proprio Odisseo come il prototipo del pensatore, di un pensatore allo stato nascente.

Pertanto, se noi parliamo di “Statuto Epistemologico della Filosofia”, è probabilmente perché già adottiamo un assunto particolare, ovvero il primo dei due che ho sopra descritto, e non pensiamo alla Filosofia tanto come attività o come pratica, ma alla Filosofia come un sapere tra i saperi. Un altro esempio atto a cogliere le problematiche che esplodono un volta che si consideri la filosofia semplicemente come “discorso”, come dottrina, come sapere, è dato dalla parabola storica dell’Epistemologia nel nostro secolo, fino alla sua crisi – crisi inclusa, ovviamente.

Certo, è vero che l’impatto delle nuove tecnologie su questi diversi modelli di Filosofia, questi diversi aspetti della tradizione filosofica è diverso. L’impatto, l’impulso che viene dato dall’utilizzo delle tecnologie informatiche dei nuovi media nel campo della storia delle idee, o nell’analisi linguistica e testuale, è veramente rivoluzionario; ma non è neanche tanto difficile capire che non ci fa porre grandi domande. La lessicografia computerizzata è un esempio di come la ricerca conoscitiva venga accelerata, si vengano ampliate le nostre facoltà mentali nell’analisi del testo[xiii]. Il che ci conduce a meglio definire i diversi “scenari” della storia, ma poi non basta all’elaborazione di una storia della Filosofia. Infatti, nel momento in cui noi cerchiamo di elaborare un discorso di tipo ermeneutico, per cogliere il senso delle informazioni che abbiamo meglio messo a fuoco, ecco che l’impatto delle tecnologie è già più dubbio: ieri abbiamo visto un esempio di queste difficoltà nel tentativo di pensare ad un’analisi computerizzata, meccanizzata, negli aspetti semantico-sintattici di un testo. E, al terzo livello è ancora più problematico pensare alla presenza di un supporto informatico, ossia in quella  attività che noi potremmo chiamare “Filosofia teoretica”, che non è solo la Filosofia per problemi, ma è proprio la Filosofia tout-court, quell’orizzonte entro cui si da ogni discorso razionale, ma che in fondo il discorso stesso presuppone e mai riesce a illuminare, evidenziare, esaurire. In un testo di Pietro Prini[xiv], egli accenna alla distinzione che ho fatto, con termini diversi, e dice che il linguaggio conoscitivo è un linguaggio calcolante ed è quello su cui l’Informatica produce un’accellerazione terribile. Ma il linguaggio calcolante, è un linguaggio costruito, ed esso «come ogni costruzione è l’elaborazione di un materiale (“informazione”, “dati” o “assunti”) secondo strutture (linguistiche, logiche, epistemologiche) che regolano il programma della costruzione stessa»[xv]; e questa costruzione noi la chiamiamo “conoscenza certa”, o scienza. Ma questo linguaggio calcolante non può in alcun modo scoprire l’orizzonte entro il quale esso avviene. Il linguaggio attraverso cui noi elaboriamo ogni  discorso conoscitivo «si scontra, alla sua radice, nel paradosso del metalinguaggio, in cui si esprime l’impossibilità, per noi, di un linguaggio assoluto, ossia tale da contenere nella sua totalità il senso di se stesso»[xvi]. Questo linguaggio calcolante è un linguaggio costruito dall’intelligenza attraverso il ricorso a diversi codici, e non solo quello della parola. Ora ovviamente lo vediamo con sempre più maggiore consapevolezza, data la “transcodificabilità” dei diversi codici in quello informatico (a struttura logica binaria). Nemmeno quest’ultimo, può però, costitutivamente, rappresentare il “Linguaggio assoluto”.

Seguendo sempre Prini, «la mente come autocoscienza (…) è la consapevolezza di questo paradosso che proibisce la “costruzione” di un linguaggio assoluto e dunque si istituisce come il silenzio o senso dell’indicibile nell’ambito di ogni nostra pratica linguistica. Qui è la differenza tra l’intelligenza naturale dell’uomo e l’intelligenza artificiale che egli progetta e costruisce. Questa può soltanto procedere nella costruzione del proprio linguaggio verso livelli sempre più alti di astrazione, ma non può dare un senso al proprio non poter parlare; quella, l’intelligenza naturale, può invece rovesciare il proprio parlare nel silenzio della sua incapacità di costruire il senso della propria origine»[xvii].

Nell’orizzonte di questo stimolante punto di vista sulla tradizionale questione del rapporto tra pensiero e conoscenza, tra mente e cervello, quel che importa, per noi, è cogliere dalle parole di Prini quanto segue: il discorso che tiene aperto lo sguardo su questa situazione paradossale è il discorso filosofico: è questo il suo specifico. È questa l’irriducibilità della pratica filosofica ad alcuna tecnologia dell’espressione. È questa la strutturale e fondante alterità fra pratica filosofica e linguaggio calcolante: fra qualsiasi linguaggio e la filosofia.

Continuiamo però nella nostra riflessione andando a vedere quali rapporti si danno tra l’evoluzione delle attività filosofiche, delle procedure e delle tecniche nelle quali la Filosofia si è sostanziata per produrre determinati prodotti, e il parallelo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, con i relativi sensoria, entro il modello di cultura in cui sono avvenuti[xviii].

Tavola 1

Questa Tavola non è nient’altro che un excursus (un po’ problematico ovviamente, come ogni tentativo di mettere in una tabella degli schemi), che può lasciare il tempo che trova, ma può anche essere un opportuno contenitore entro cui noi elenchiamo un po’ i problemi che vogliamo toccare. Penso che con l’aiuto di questo schema vengano a galla un po’ tutte le questioni fondamentali, o almeno il mio intento nel presentarlo è proprio far emergere le domande di base in quest’ambito di ricerca.

La storia dell’evoluzione della tecnologia della comunicazione è passata attraverso quattro grandi fasi, sono quelle che vedete nella seconda colonna. La liberazione della mano; la liberazione della parola, e il linguaggio orale, l’oralità; poi la scrittura, una “soglia” fondamentale nello sviluppo della civiltà, poi ancora la stampa, la tipografia, la cultura tipografica e infine l’ultima tappa, il mondo dell’elettronica. Queste sono le fasi fondamentali. Attorno a queste fasi da una parte possiamo riflettere sui supporti di queste diverse tecnologie della comunicazione, dall’altra sull’attività filosofica (metanoetica e meta-conoscitiva) – e qui ho lasciato molti vuoti perché potremmo lavorare parecchio, sui modelli di cultura, ed anche soprattutto sui sensoria coinvolti. Procediamo in modo trasversale, cioè vedendo in ciascuna fase un po’ tutti cinque punti.

L’oralità è lo spazio in cui avviene il dialogo, che è originale nella Filosofia: la dialettica nasce nello spazio dell’oralità, è interrogare radicale. Per contro, la Filosofia nasce nel momento in cui si sta affermando, o si è affermata, nella società greca. E, senza la scrittura, senza lo sguardo reso possibile dalla nuova tecnologia della parola, non sarebbe stato possibile l’emergere del logos dialettico. Comunque, l’interrogare radicale, la dialettica, è precisamente la discussione di un vecchio modello dell’oralità (e di una forma primitiva di scrittura) che era quello del mito, al centro del quale stava appunto la cultura tribale, e il cui supporto era la comunità stessa, centro e della tradizione del sapere, supporto del sapere. È il suo “trascendimento evolutivo”. I sensoria centrali in questo mondo magico dell’udito erano appunto il mondo audio-tattile, l’ascolto della parola parlata e del suono. Sul questo versante dell’evoluzione della cultura, nel cuore del passaggio dall’oralità alla scrittura, la Filosofia nasce in quanto tale, come un Giano bifronte: da una parte emancipazione dal mito, dall’altra autocoscienza dell’orizzonte stesso della dialettica (dianoia): ossia noesis, orizzonte che lo sguardo della ragione non riesce mai a dominare. Essa è dialetticamente legata al mito che mette in discussione, senza che ne possa cancellare il senso, ma di cui rivela l’orizzonte, mentre nello stesso tempo si esercita entro una tecnica nuova, quella della scrittura filosofica, appunto.

Platone è il primo autore di cui possediamo tutte le opere, messe per iscritto (grave fatto che oscura il  periodo precedente, generando il “mistero” col quale la storia della filosofia sempre di nuovo ricomincia: il periodo dello “stato nascente” della filosofia, il momento del “passaggio” dal mito al logos). E nel momento in cui si passa oltre l’oralità diventa fondamentale una nuova attività filosofica che non è più solo il dialogo, ma anche la lettura e la scrittura, la scrittura come appunto, supporto fondamentale del manoscritto. Il modello di cultura che nasce non è più dunque quella chirografica, la cultura degli “scribi”, ma una nuova dimensione della scrittura stessa.  Come si è detto, la Filosofia sta comunque chiaramente su un versante critico-dialettico rispetto alla cultura degli scribi (si intende appunto la cultura del libro con la elle maiuscola, che è più legata alla vecchia tradizione tribale e sacrale). È abbastanza agevole cogliere che probabilmente la Filosofia si colloca sempre proprio su quel “crinale” rappresentato dal prendere consapevolezza (metanoetica) della tecnica entro la quale essa si esercita. Nel mondo della cultura chirografica, infatti, per la maggior parte, i sensoria coinvolti sono soprattutto ancora quelli audio-tattili (fino al tardo Medioevo, quando voi sapete si passa dalla lettura ad alta voce, lettura monastica, bisbigliata, alla lettura silenziosa). In quel momento, quando avviene il passaggio alla lettura silenziosa, avviene definitivamente il distacco dalla cultura degli scribi e si entra nella cultura chirografica in senso stretto. Il segno viene materializzato con la scrittura, e quindi appunto si trasforma completamente la “visibilità” del testo, e questa è proprio una grande rivoluzione. La seconda grande rivoluzione della scrittura si presenta con l’invenzione della stampa — fenomeno che è stato definito da una nota ricercatrice[xix] “la rivoluzione inavvertita”. Il libro a stampa, genera una nuova cultura, e quindi crea il contesto per lo sviluppo della Filosofia moderna, potenzia appunto i sensoria visivi, ad un grado ulteriore rispetto a quello che era stato già conseguito con la cultura chirografica, e genera la rivoluzione dell’ipertesto. L’ipertesto, infatti, non nasce con la rivoluzione elettronica, l’ipertesto esplode con la biblioteca a stampa, nel settecento, con l’Ideale Enciclopedico di Diderot de D’Alembert. L’Encyclopédie  è già un ipertesto[xx]; e negli anni settanta del nostro secolo un altro ipertesto, l’Encicopedia Einaudi segue esattamente lo stesso tipo, anzi potenzia e sviluppa ulteriormente lo stesso modello, quello di una galassia di saperi, di un grafo che traccia una mappa di una galassia di concetti tutta da navigare, sulla base di un criterio, appunto, associativo e non sequenziale. Nella storia dell’attività filosofica, avviene anche quello che Chenu ha chiamato “la nascita della coscienza”[xxi]. In realtà probabilmente le cose non sono andate in modo piano e semplicistico. Non c’è infatti attività filosofica senza coscienza, e quindi probabilmente questa “nascita” non si colloca solo nel basso medioevo, ossia nel dodicesimo secolo, come appunto sostiene quel testo interessante di Chenu. Però è certo comunque che in questa fase, ossia nel passaggio dalla cultura chirografica a quella tipografica, avviene un ripiegamento dell’individuo su di sé, avviene anche un’estraniazione fra soggetto e oggetto, nel momento in cui appunto si sviluppa questa tecnologia della comunicazione che è la  tipografia[xxii].

Ed oggi abbiamo un grande punto di svolta, con i relativi grandi interrogativi: siamo nell’era in cui l'elettronica trasforma radicalmente, pesantemente — altro che “leggerezza” del software” —, qualsiasi cosa tocchi. Guardate quanto è piena la corrispettiva casella dello schema: ci sta proprio di tutto. È facilissimo identificare i supporti della nuova era dell’informazione, detto meglio, della rete globale. I modelli di cultura sono tutti discutibili (ed anche da identificare con maggior precisione): fate come se mettessimo un punto interrogativo attorno a quelli di cui si parla: sono il villaggio globale, l’intelligenza collettiva o connettiva, la ciber-cultura o ciber-paideia (che è poi appunto un po’ il rilanciare l’idea della biblioteca universale) e, infine, dell’intelligenza globale, collettiva. A livello dei sensoria avviene una rivoluzione: e sicuramente si tratta del cambiamento più evidente e facilmente descrivibile. Un recupero del mondo audio-tattile, una seconda oralità, che quindi appunto vengono ridefiniti: viene ristrutturata, diciamo, la collocazione geografica dei sensoria all’interno del medium. La smaterializzazione si trasforma, diventa una specie di ri-materializzazione in una forma nuova che è quella virtuale, tanto che il termine che si utilizza è quello di “iperrealtà derealizzata”. Una situazione inedita ovviamente, quindi una nuova frontiera per la tecnologia della comunicazione.

La pratica filosofica si immerge dentro queste nuove tecnologie? Può farlo? Che ne è del suo senso e della sua figura, dopo questa immersione? È destinata a cambiare volto, a perdere la fisionomia a fatica evolutasi nel corso della sua storia?

Noi oggi abbiamo bisogno esattamente dello stesso tipo di atteggiamento, che un tempo si manifestò in Platone: abbiamo bisogno di fare l’operazione che è stata fatta da Platone, per comprendere fino in fondo, sia gli elementi positivi della tradizione (che non sono cancellati o distrutti) sia le novità. La stessa operazione condotta, in scala diversa, anche da un personaggio di calibro sicuramente inferiore a Platone, Johannes Trithemius,  che nel 1494 o 1496, adesso non ricordo esattamente, in piena rivoluzione gutenberghiana, scrisse il “De laude scriptorum”, un testo che poi egli, ovviamente, fece pubblicare a stampa[xxiii].

Ma oggi, se possibile, non accade nemmeno quello che è successo nel caso Tritemio: non si compie lo stesso tipo di operazione e invece, tendenzialmente, ci limitiamo al sotto-utilizzo dello strumento. E avremmo bisogno piuttosto di renderci conto appunto se, così facendo, abbiamo affrontato il problema fondamentale, se ne teniamo conto dal punto di vista dello statuto Epistemologico della filosofia. Quindi dovremmo sperimentare se è vero, in che misura è vero, che questa ri-definizione dei modelli logici, dei modelli del pensiero, cancella qualcosa della nostra tradizione.

Più mi addentro in questo tipo di domande e più mi rendo conto che probabilmente non è valida una risposta drastica di rifiuto: può essere vero che un utilizzo minimale è più facile e meno controproducente di un utilizzo illusorio, un utilizzo anche “distorto” del mezzo. Ma non è forse il sottoutilizzo un “utilizzo improprio” delle tecniche? Siamo troppo ossessionati dallo spettro del “dominio della tecnica”, ed esercitiamo il sospetto nella direzione sbagliata. Eppure questa  è proprio la politica minimalista che si è seguita per lo più nella produzione di strumenti informatici per la didattica della Filosofia.

E qui siamo giunti all’errore comportamentale più serio che si commette da parte della nostra genia dei “filosofi apocalittici”. Le nuove forme delle tecnologie dell’espressione e della comunicazione non posson essere utilizzate come se esse comportassero la cancellazione del contesto e dei mezzi delle tecnologie precedenti. No: la mediamorfosi, l’evoluzione dei media, delle tecniche di comunicazione si è ramificata: noi viviamo oggi nella compresenza di queste tecniche, di queste tecnologie. Non è quindi del tutto corretto utilizzare il concetto di “rivoluzione” per parlare dei cambiamenti intervenuti nella storia della tecnologia della comunicazione. È più giusto, a mio parere, utilizzare un concetto che riprendo sempre dalla paleoantropologia culturale o dalla teoria dell’evoluzione. Io chiamo ciascuno di questi passaggi «trascendimento evolutivo»: abbiamo infatti attraversato varie fasi, sono avvenuti vari trascendimenti evolutivi che non hanno cancellato ed eliminato quello che c’era prima. Così come nell’evoluzione generale la nascita della vita non ha cancellato il mondo inorganico, o così come appunto, la scrittura non ha cancellato l’oralità e via dicendo. Trascendimento evolutivo significa infatti che avviene un cambiamento «in cui l’evoluzione trascende se stessa, nel senso che si formano esseri che hanno proprietà e seguono leggi dei tutto nuove rispetto a quelli che li hanno preceduti» [xxiv].

Noi oggi abbiamo bisogno di ripensare al paradigma per il quale guardiamo a questi eventi: è necessario che questo paradigma sia intersemiotico, non può più essere monosemiotico. E vi faccio un esempio: è molto frequente – negli ultimi quindici anni – che quando si tratta di insegnamento della filosofia, si ripeta come un leitmotiv lo slogan della “centralità del testo”. Ma gli slogan, come si sa, non sono affatto grimaldelli universali, e sono gingilli dei quali si deve far uso cum grano salis… E così, non si può intendere la “centralità del testo” come se l’oralità non avesse alcuno spazio nella pratica filosofica. Noi sappiamo invece che chi vuole leggere un testo veramente non lo può fare se non in un contesto fortemente dialogizzante, altrimenti il testo non si legge. Il testo è un processo, che si realizza e si attiva nel momento della lettura (la quale è un’operazione ed un esercizio che coinvolge attivamente il lettore, o il lettori)…  Lo stesso può valere anche quando ci dedichiamo alla scrittura filosofica. Non so se avete mai provato a compiere un’esperienza di scrittura collettiva in Filosofia: è un’avventura entusiasmante, dalla quale si apprende che l’esercizio della scrittura può facilitare l’apprendimento del filosofare. Se ci dev’essere uno slogan, allora, che si concentri sulla plurivocità delle pratiche, o meglio, sulla “circolarità delle pratiche” (l’esercizio del dialogo, la scrittura, la lettura, il silenzio, l’ascolto, e via dicendo si intersecano e si “agganciano” l’una con l’altra, in un processo aperto e polidirezionale).

Se poi pensate alla “ricaduta didattica”, ossia, come si dice oggi, alla “spendibilità” di quest’impostazione, bastano quattro parole: è tutto da sperimentare… ora si deve pensare ad un laboratorio di Filosofia, l’unica cosa certa è che non c’è alternativa. Abbiamo già dei modelli che si sono diffusi – e penso a quello illustrato da Calvani [xxv] –, ma in realtà non l’ho visto discutere né prendere sul serio, tanto nella didattica empirica quanto in quella teorica…

Ci si distrae a volte ripiegando sui problemi di ristrutturazione della scuola, mentre su questo non voglio proferire nemmeno una virgola; o, a volte, tornando a vecchie polemiche o presunti dilemmi: piuttosto, sarebbe bene cogliere quei risvolti di questi problemi attraverso i quali noi possiamo meglio comprendere cosa vuol dire fare Filosofia, non solo insegnare Filosofia.

Se c’è una storia della coscienza che si sviluppa, la storia dell’interiorizzazione delle tecnologie della comunicazione dentro l’evoluzione della mente umana, allora dobbiamo tornare a mettere a fuoco quali sono le pratiche di interiorizzazione della tecnologia da parte della mente, da parte della pratica filosofica: questo è un programma di ricerca. Non so se sia facile rendersene conto, vi ho solo fatto una panoramica delle domande che noi ci stiamo ponendo.  È evidente che se la Filosofia non è solo un discorso che si materializza facendo ricorso alla più varie tecnologie della comunicazione (e quando dico “le più varie” dico che anche l’immagine può valere); se la Filosofia è un discorso, la Filosofia è anche esercizio del pensiero, e la Filosofia è stare sulla soglia, quella soglia in cui attraverso la pratica del discorso, si va nella direzione non del moltiplicare il sapere, ma del prendere autocoscienza dei paradigmi noetici e cognitivi che noi adottiamo nella pratica stessa della tecnologia della comunicazione che stiamo usando. Questo può valere per l’oralità, per la scrittura, per tutti i media indifferentemente. Stare sulla soglia: un’espressione che riprendo dall’insegnamento di Carlo Sini [xxvi]: e che denota la situazione in cui si trova chi esercita la pratica della filosofia, e si trova a constatare di essere «nel bilico in cui tutti i saperi e tutti i progetti sono sospesi, sono in aria, senza fondamento, e quindi di troviamo là dove non sembrerebbe esserci via, né avanti né indietro, perché ogni via sarebbe una pratica»[xxvii].

Un esempio di come si può praticare il pensiero critico filosofico attorno ai nuovi media, potrebbe essere, tra altri, quello di addentrarsi nell’analisi dei termini che vengono utilizzati nel linguaggio comune dell’Informatica, e sono poi entrati anche nel linguaggio comune, o in quello giornalistico. Ne scelgo due, particolarmente di successo: e sono l’“interattività” e la “multimedialità”. C’è chi ha parlato di “inganno interattivo”, ma credo che non siamo tanto lontano dalla verità nel prendere consapevolezza che i nuovi media in particolare non producono una situazione realmente interattiva[xxviii], e che l’interazione reale non è quella fatta dai media, i quali tutt’al più simulano. Anche i più bei programmi che ci sono in giro, che sono quelli di Rossetti[xxix] che avete visto l’anno scorso, appunto nella simulazione rivelano che al centro viene messa l’interattività fra l’uomo e la macchina, mentre nell’esperienza del pensiero, l’interattività è una interattività dialogica con un tu, con un’altra coscienza, e oppure con un dialogo interiore. Ecco, cosa serve per la vera interattività? Qui debbo sorvolare rapidamente perché il tempo a mia disposizione sta scadendo. La comunicazione umana presuppone un feed-back talmente profondo da far si che in chi propone il messaggio, cioè l’emittente, sia presente in un certo senso, un’anticipazione del pensiero dell’uditore. È un’esperienza interiore che non viene formalizzata ovviamente certo attraverso una concettualizzazione. È un discorso interiore che anticipa: se noi pensiamo al modello del medium come un tubo attraverso cui noi facciamo passare l’informazione ecco che non ci siamo[xxx]. O forse pensiamo che l’interattività, appunto, con la macchina possa sostituire questo tipo di interazione che invece è interazione autenticamente dialogica?

Sul tema della multimedialità potremmo dire cose diverse, ma più o meno secondo lo stesso tipo di atteggiamento radicalmente critico. Ma prima una rapidissima considerazione personale. A occuparmi di queste cose, in particolare, sono stato “tirato per i capelli”, per la mia formazione, perché appunto io vengo da esperienze di ricerca di lessicografia computerizzata e la conclusione della mia formazione universitaria è avvenuta lavorando sull’Index thomisticus. Mi occupo di queste cose da quando mi sono laureato, anzi, da prima, dal tempo delle ricerche che ho condotto in vista della tesi: sono stato spesso rimproverato di essere un’entusiasta di queste cose, mentre in realtà il mio atteggiamento è quello di chi vuole almeno evitare la disposizione ingenua della meraviglia di fronte al mezzo, o la semplice rassegnazione di fronte al pur reale “dislivello prometeico”[xxxi]. Se noi contestualizziamo e poi pratichiamo un po’ le nuove tecnologie e nella didattica ci sperimentiamo sopra, ci rendiamo conto di queste cose, e quindi è una relativizzazione che lascia grande spazio ai nuovi media ma che appunto li colloca in un orizzonte molto aperto, non chiuso. Io do ragione a chi, come Polizzi, sostiene che non è accettabile che noi pensiamo che tutto passi attraverso l’informatica: ma è fin troppo evidente.

Cosa vuol dire multimedia? Forse, la parola multimedia è di quanto di più contorto c’è nel lessico dell’Informatica. Cosa voglia dire veramente è molto difficile da cogliere. Non è solo il concorso in un processo di comunicazione di diversi media: se si trattasse solo di questo, non sarebbe una rivoluzione, visto che esiste praticamente da quando è apparsa la specie umana: c’erano cinque sensi, e noi della specie homo comunichiamo attraverso dei codici che non sono solo quelli della lingua parlata, non solo quelli dello scritto ma anche quello della gestualità, della mimica: i linguaggi e i codici sono molti.

Multimedialità oggi si usa soprattutto quando si pensa ai CD-ROM, agli ipertesti o agli ipermedia, a questi ultimi soprattutto, in senso stretto. Un solo supporto, un solo codice, quello digitale, che ci permette con un unico elaboratore di trattare i codici di informazioni più diversi, dai suoni, dall’oralità sino alle parole, le immagini, le video sequenze. Questa è una delle nozioni di multimedialità, non l’unica, ma è forse la più significativa. Del resto poi l’elaboratore è il punto da cui partono i dispositivi che una macchina deve pur utilizzare, le cosiddette “periferiche”, le quali sono appunto macchine di tipo diverso. Per stampare devo usare un dispositivo diverso da quello per riprodurre suoni, ecc.

La seconda nozione di multimedialità che noi possiamo incontrare è una nozione di tipo diverso, cioè produrre un’opera per molti media. Questa è l’esperienza dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, la quale è vero ha ricevuto parecchie critiche, alcune delle quali anche condivisibili (ad es., il modo cieco con il quale si è sorretta e organizzata l’iniziativa presta il fianco a molte critiche, perché, è chiaro, con molti meno soldi si potevano fare cose anche magari più avanzate. Ci sono piccoli siti, magari senza spendere alcunchè, che magari sono molto più significativi dal punto di vista della sperimentazione, dell’immersione in questi nuovi media). Però l’idea del creare una rete nella comunicazione di un’opera che assume diverse connotazioni a seconda del mezzo col quale viene prodotta, fa parte dell’universo possibile degli usi dei nuovi media della nostra era. E l’impresa dell’Enciclopedia multimediale vuole permettere di muoversi su piani diversi, lavorando attorno all’opera (non più attorno alla macchina), in maniera da mettere al centro il contenuto che noi vogliamo veicolare, più che il mezzo col quale noi lo facciamo. In fondo il calcolatore è invece centripeto, nel senso che ci chiede di concentrarci un po’ di più sul suo funzionamento (anche se oggi per imparare non ci vuole molto, però appunto quelle in gioco sono prevalentemente abilità di tipo funzionale, quelle di cui abbiamo bisogno per poterci impratichire). Ora, il significato della multimedialità presta quindi il fianco a sua volta a questa ambiguità; almeno, abbiamo bisogno di pensarci un po’ più su… E poi dovremmo vedere ovviamente cosa significa ipertesto, cosa significa pensare per immagini, pensare in rete, cosa significa il rizoma del pensiero, del pensiero che utilizza criteri associativi e non criteri sequenziali, o associativi e sequenziali insieme, rimescolando le carte: questa è la nostra nuova frontiera.

La tesi che ho voluto in sostanza sostenere riprende e ritraduce nel nuovo contesto dei nuovi media quanto in analogia affermò McLuhan della stampa: non vi è qualcosa di buono o cattivo nelle nuove tecnologie della comunicazione: è solo la mancanza di consapevolezza dei suoi effetti ad essere rischiosa e pericolosa[xxxii].

Una conclusione molto rapida, per quanto possibile nell’impossibilità di porre alcun termine a simili argomentazioni. Vi suggerisco, in chiusura, uno strano connubio tra Lotto, Molière e Kant.

Per prima, una citazione da Molière, che nelle Femmes savantes a un certo punto definisce il gentiluomo, (il filosofo-gentiluomo direi). E chi è costui? «È qualcuno che sa tutto senza aver imparato niente» dice Molière[xxxiii]: ecco chi è il filosofo. Un paradosso che dovremmo tener presente, mi pare.

E poi, l’immagine di Lotto[xxxiv]:

Tavola 2

Ecco uno stupendo esempio di “pensiero per immagini”: un’impresa che è di enorme portata filosofica. Si tratta di una tarsia di Lorenzo Lotto, che si trova nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo, la mia città. È quanto di più straordinario io abbia trovato, per quanto riguarda il pensiero per immagini (ma c’è una vera miniera da riscoprire nella tradizione delle “imprese” e degli “emblemata”). Se voi guardate questa immagine, forse trovate una via per cogliere alcuni dei sensi del paradosso di Molière. Ed è stupefacente quanto questa figura poi sia quasi letteralmente commentata da Kant, due secoli dopo la morte del suo autore. Questa impresa lottesca non ha ricevuto dal suo autore un titolo, ma viene comunemente chiamata “Amor sulla bilancia”, o anche “amor sapientiae”, cioè Filosofia. Si tratta dell’immagine della Filosofia, quindi. Sotto la figura c’è scritto, non si vede tanto bene, ma forse riuscite a cogliere qualche cosa, Nosce te ipsum.  È un’immagne paradossale (come è paradossale il motto molièriano): il putto di Amore si regge da sé, sostiene se stesso sulla bilancia. Così è il pensiero filosofico: non una costruzione, un’esplorazione di territori di sapere, ma un’esperienza. Far filosofia è incontrare la situazione “critica” cui fa cenno Kant, nel passo già sopra menzionato: l’esperienza del filosofare fa perno sull’autonomia della sua stessa “posizione critica”, il fatto che essa stia «salda, senza poter tuttavia trovare né appoggio, né appiglio in qualcosa che stia in cielo o in terra»[xxxv]. «Il “che cos’è” della filosofia — se si vuole: il suo senso — sta anzitutto nel “come”, ovvero nella riflessione-domanda sulla possibilità della sua forma che le conferisce internamente significato (la pone in essere)»[xxxvi].

Con questa immagine straordinaria credo di poter davvero concludere.

Il filosofo è qualcuno che sa tutto, senza aver imparato niente. Il filosofo ricerca, ma la sua verità non poggia da nessuna parte: certo non sui mezzi stessi della sua propria conoscenza. Proprio per questo non teme alcuna tecnica espressiva, e le pratica, a sua convenienza, tutte, senza identificarsi in nessuna.

Grazie.

Fulvio C. Manara

Fiuggi, 27 ottobre 1998

 

NOTE

[i]  Quella che segue è di fatto la trascrizione del mio intervento orale in quel contesto: e del contesto della lezione mantiene il registro e lo stile, che non ho inteso rivedere se non per l’inserimento delle note e per qualche lieve aggiustamento formale. Ai miei occhi si tratta, come ripetei anche in quell’occasione, di una bozza di un programma di ricerca, tutta da discutere, rivedere, in vista dello studio e della ricerca, appunto.

[ii]  Cfr. Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando 1976 (1995 V rist.).

[iii] Faccio riferimento in particolare ad un testo di un collega fiorentino, Gaspare Polizzi, dal titolo Filosofi al computer: gioco, dialogo o utile strumento?, in Scuola, Sito Web Italiano per la Filosofia, http://lgxserver.uniba.it/lei/swif.htm  ISSN 1126-4780, Anno I, n.2 seg.,  pag. http://lgxserver.uniba.it/lei/scuola/insfil/ins2_7.htm.

[iv]  È proprio questo il termine utilizzato da Polizzi.

[v]  cfr. G. Polizzi, op. cit.

[vi]  G. Polizi, op.cit.

[vii] Faccio qui riferimento agli studi di Leroy-Gourhan, in primis al suo capolavoro Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, come anche ad altri studi paleontropologici, quali, ad es. quelli di Fiorenzo Facchini, nonché alle ricerche di Walter G. Ong, tra cui principalmente Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986.

[viii] V.  Gaspare Polizzi -  Enzo Ruffaldi, Filosofi al computer, Torino, Loescher, 1996: sussidio informatico (di 4 floppy disk). Ma forse è proprio l’idea che si debbano “applicare” anche alla filosofia queste nuove tecnologie ad essere radicalmente inadeguata.

[ix]  Walter G. Ong, Oralità e scrittura, cit.,  p.238.

[x]  Cfr. Lettera VII, 341c-e.

[xi]  A questo proposito non posso non rimandare agli acuti e straordinari studi di Pierre Hadot, tra cui ricordo almeno Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1986, e Che cos’è la filosofia antica?, Torino, Einaudi, 1998.

[xii]  Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, sez. II, in Fondazione della Metafisica dei costumi - Critica della ragion pratica, tr. it. a cura di V. Mathieu, Milano, Rusconi, 1988, p.121. Qui Kant fa riferimento alla fondazione ontoteologica del comportamento morale (qualcosa cui ci si possa “agganciare” nel “cielo”), o, in alternativa, la sua fondazione “empirica” (qualcosa su cui si possa “appoggiare” la filosofia sulla terra). E sta parlando del “dovere”, la cui natura non è appunto fondata né su una credenza metafisica né su una empiria.

[xiii]  A proposito, cito gli studi di Roberto Busa, pioniere dell’automazione in filologia e nelle discipline umanistiche, tra cui principalmente Fondamenti di informatica linguistica, Milano, Vita e pensiero, 1987.

[xiv] Una relazione dal titolo “L’intelligenza artificiale e il senso del silenzio” al convegno “Informatica e metodologia filosofica”, tenutosi ad Andalo nel ’90, ora negli atti, a cura di Pietro Ciaravolo, Centro per la Filosofia Italiana, Roma, Cadmo editore, 1990, pp.15-19.

[xv]  Pietro Prini, op. cit., p.17.

[xvi]  Pietro Prini, op. cit., p.18.

[xvii] Ibid.

[xviii]  V. Tavola 1.

[xix] La Einstein, che ha intitolato una sua importantissima ricerca proprio così: La rivoluzione inavvertita, Bologna, Il Mulino, 1985.

[xx]  Non proprio il primo, forse: da questo punto di vista vanno certo indagati a fondo gli esempi precedenti di “scrittura associativa” e non sequenziale.

[xxi] Marie-Dominique Chenu, Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, Milano, Jaca Book, 1982.

[xxii]  Da qui anche la “storia infinita” del fallimento di qualsiasi tentativo di scrivere (sequenzialmente) di una dimensione, come quella della coscienza, che si sottrae a quella dimensione lineare (l’esempio emblematico sono, com’è noto, i Saggi di Montaigne).

[xxiii]  Ne esistono anche recenti riedizioni in lingue moderne: come Giovanni Tritemio, Elogio degli amanuensi, Palermo, Sellerio, 1997, oppure In praise of scribes: De laude scriptorum, ed. a cura di Klaus Arnold, Lawrence, Coronado Press, 1974.

[xxiv]  Fiorenzo Facchini, Premesse per una paleoantropologia culturale, Milano, Jaca Book, 1992.

[xxv]  Antonio Calvani, Iperscuola, Padova, Muzzio, 1994, in part. p. 119 e 145

[xxvi] V. Carlo Sini, Pensare il progetto, Milano, tranchida, 1992; Filosofia e scrittura, Bari, Laterza, 1994; Etica e scrittura, Bari, Laterza, 1996.

[xxvii]  C. Sini, Pensare il progetto, cit., p.33.

[xxviii] Fatta eccezione per alcuni aspetti della comunicazione telematica sincronica: videoconferenze, chat, ecc.

[xxix]  V. la serie “dialoga con” edita da Armando (sono disponibili Dialoga con Socrate; Dialoga con Cartesio, Dialoga con Husserl).

[xxx]  V. Heinz von Foerster, Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987.

[xxxi] Ossia l’atteggiamento di chi si rende conto che la propria fantasia non può neanche immaginare quello che la macchina può fare, che è l'atteggiamento che di solito si assume nei confronti di queste cose. Cfr. Gunther Anders,  L’uomo è antiquato I Considerazioni sull’anima nell’èra della seconda rivoluzione industriale, Milano, Il Saggiatore, 1963, e L’uomo è antiquato II Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

[xxxii]  «La tesi di questo libro non è che vi è qualcosa di buono o di cattivo nella stampa, bensì che la mancanza di consapevolezza degli effetti di qualsiasi forza è disastrosa, soprattutto se si tratta di una forza che noi stessi abbiamo creato», M. McLuhan, op. cit., p.325-26.

[xxxiii] 

[xxxiv]  V. Tavola 2.

[xxxv]  v. sopra, n. 12.

[xxxvi]  F. Desideri, Introduzione a Immanuel Kant, Questioni di confine, Tornio, Marietti, 1990, p.XIII.