Torna al sommario di Comunicazione Filosofica Comunicazione Filosofica n. 6
Fabio Minazzi
L'insegnamento della filosofia quale diritto di cittadinanza per la scuola italiana del nuovo millennio
In Italia, per una lunga, complessa e persino eteroclita tradizione culturale e civile, che affonda le sue radici più profonde nel mondo del Seicento, i cambiamenti costituiscono una "merce" assai rara e preziosa. Tanto più se si parla di cambiamenti "istituzionali", un ambito nel quale lo sviluppo storico italiano assomiglia maggiormente, semmai, ad una cipolla teratologica, poiché, in genere, ogni "cambiamento" si è quasi sempre sovrapposto allo strato precedente, inglobandolo infine in una matassa che appare sempre più ingarbugliata. Naturalmente il mondo della scuola non fa eccezione a questa configurazione, largamente patologica, in virtù della quale molto spesso le norme burocratiche si riproducono a getto continuo, mentre il tumore cartaceo domina incontrastato un ambiente in cui, per lunga e consolidata tradizione gesuitica, i cambiamenti sono, in genere, affidati a rivoluzioni meramente nominalistiche: cambiano i nomi, ma le cose rimangono tali e quali. Il che spiega perché la struttura della scuola italiana secondaria superiore sia sostanzialmente rimasta immutata nel corso di pressoché tutto il Novecento. Delineata dalla famosa riforma di Giovanni Gentile la struttura della scuola secondaria superiore italiana ha infatti superata indenne i vari decenni del Novecento. Persino la bufera connessa con il crollo del fascismo e la conseguente nascita della nuova repubblica "democratica ed antifascista" non è stata in grado di modificare sensibilmente la struttura dell'antica scuola gentiliana voluta e appoggiata dal fascismo. Il che costituisce un aspetto davvero non secondario del tradizionale continuismo storico italiano. Un esempio davvero emblematico se è vero, come è vero, che la scuola delineata da Gentile, pur recependo in gran parte i risultati elaborati dalla Commissione Reale per la riforma della scuola superiore italiana, voleva tuttavia essere espressione coerente di un'Italia che oggi, soprattutto sul piano economico-civile, non solo non esiste più, ma è stata largamente modificata dal drammatico impatto del nostro paese con l'economia mondiale occidentale. Sicuramente la scuola delineata da Gentile non corrisponde più alla configurazione reale del nostro paese e non è neppure più in sintonia con il mondo moderno occidentale che si affaccia, non senza ferocia e con tutte le sue incredibili e laceranti contraddizioni, al nuovo millennio. Ma detto questo, limitandoci al problema molto più delimitato e circoscritto della scuola italiana e della sua storia novecentesca, è comunque interessante porsi una domanda radicale di fondo: qual è il punto che oggi avvertiamo essere il più arretrato della riforma di Gentile? Esiste tale segreto "punto archimedeo" della riforma gentiliana? Oppure questa riforma-Gentile appare irrimediabilmente "datata", del tutto inserita nello Geistzeit dei primi decenni del secolo? Naturalmente non è certamente questa la sede più adatta per sviluppare una disamina analitica della riforma gentiliana la quale, per la verità, presenta molti aspetti discutibili e francamente datati, accanto ad altre indicazioni che mostrano ancora, invece, una loro indubbia validità (e in qualche caso, curioso destino della storia, sono proprio questi aspetti più interessanti che nella scuola italiana sono rimasti lettera morta: basterebbe pensare all'indicazione gentiliana di leggere in classe i classici della filosofia che non ha mai trovato un'adeguata traduzione educativo-didattica, con la conseguenza che i manuali hanno dominato incontrastati per decenni, fagocitando, quasi sempre, i classici e la loro conoscenza diretta). Tuttavia, si può cercare di cogliere un'orizzonte di fondo che ha guidato Gentile nell'elaborare la sua riforma la quale, non a caso, è stata posta in essere e fatta sua da un regime totalitario e repressivo come il fascismo. A mio avviso il punto centrale e decisivo della riforma gentiliana si radica - e non potrebbe essere diversamente - sia nella concezione della cultura elaborata da questo filosofo neoidealista, sia nella sua concezione della società e dei rapporti tra le differenti classi sociali. Meglio ancora: il progetto di riforma della scuola delineato da Gentile trova un suo punto di riferimento privilegiato nella collocazione strategica che questo pensatore ha sistematicamente assegnato alla filosofia e al suo insegnamento. Per Gentile filosofo l'insegnamento della filosofia riveste infatti un ruolo decisivo e primario. Non è quindi un caso che l'insegnamento della filosofia - al suo massimo livello, nel quadro dell'insegnamento secondario superiore - sia inserito nei licei e sia invece rigorosamente escluso dalle altre scuole. Si può esprimere la posizione gentiliana in molti modi, ricorrendo a differenti ascendenze culturali, tuttavia non si può affatto negare come un ragionamento di fondo che ha guidato Gentile in questa sua scelta strategica si ricolleghi anche ad un preciso motivo di classe, connesso con il rapporto che in ogni paese deve instaurarsi tra chi comanda e chi deve invece obbedire agli ordini dei "dirigenti". Letto da questo particolare, ma decisivo, angolo prospettico, l'intento gentiliano si configura in tutto il suo preciso valore culturale e sociale: la filosofia deve essere insegnata solo nei licei, con la rigorosa esclusione degli altri ordini di scuole, perché solo nei licei si formano le future classi dirigenti. Solo a queste ultime e ai suoi rampolli deve essere riservata lo studio della filosofia. Perché? Perché la filosofia, con il suo tipico abito storico-critico, aiuta a ragionare, molto più di altre discipline. Per questa ragione la filosofia va insegnata a chi dovrà poi comandare nella società. Chi comanda deve infatti saper ragionare poiché dovrà guidare e dirigere la società del futuro. Al contrario, coloro che usciranno dalle altre scuole (tecniche, commerciali, et similia) dovranno invece ubbidire ai padroni. Per questa ragione di fondo è meglio che questi altri studenti rimangano digiuni e privati dell'insegnamento della filosofia. Infatti, come è agevole comprendere, dal punto di vista di chi comanda, è senza dubbio preferibile avere a che fare con dei subordinati che tendenzialmente non sanno ragionare con la propria testa. Meglio avere dipendenti solerti ed esecutivio, "dipendenti" pure intelligenti ma tali da ubbidire senza porre tante domande di fondo e senza troppo ragionare sulle indicazioni operativi che sono loro dettate. Messa in questi termini la collocazione liceale dell'insegnamento della filosofia voluta e difesa da Gentile appare in tutta la sua linearità sociale e, persino, nella sua intrinseca brutalità classista. Ma per quanto poco simpatica possa apparire questa scelta strategica è comunque questo il preciso "messaggio" sociale, politico e civile che emerge dalla riforma gentiliana la quale ha sempre concepito la scuola sulla base di una precisa concezione dei rapporti tra le classi sociali, nonché su una precisa concezione dei rapporti tra gli individui e lo stato. Non per nulla Gentile fu sinceramente fascista, difensore estremo del totalitarismo mussoliniano (anche nella fase della Repubblica Sociale Italiana), intellettuale organico, coerentemente convinto che il bene della filosofia fosse da riservarsi unicamente a coloro che nel futuro avranno la possibilità di comandare la massa di chi deve solo ubbidire. A queta considerazione di fondo si potrebbe muovere la seguente obiezione: ma allora come spiegare la presenza della filosofia negli istituti magistrali? Tuttavia, a ben considerare la struttura della scuola gentiliana, anche in questo caso è abbastanza agevole rendersi conto che questa "obiezione" in realtà non è affatto tale. Il deprimente profilo con il quale la filosofia doveva essere insegnata negli istituti magistrali conferma, nuovamente, ruolo di classe e squisitamente ideologico che Gentile attribuiva all'insegnamento della filosofia, anche negli istituti magistrali. A suo avviso, infatti, le future maestre dovevano possedere una certa qual "infarinatura" filosofica proprio perché avrebbero dovuto "formare" la mentalità infantile del maggior numero di italiani. Nella misura in cui le maestre partecipavano alla formazione di una mentalità di fondo della nazione, dovevano allora conseguire una qualche informazione filosofica di base che le aiutasse a "guidare" nella giusta direzione le infantili masse italiane affidate alle loro amorevoli cure. Ma in questa deprimente e subordinata prospettiva di classe alle maestre erano riservate solo le "briciole" dell'autentico sapere filosofico poiché nell'ottica gentiliana le maestre dovevano appunto collaborare positivamente a formare quelle masse infantili di dominati sulle quali avrebbe poi dovuto esercitare la sua opera plasmatrice la futura classe dominante. A questa sola spettava il compito del comando e pertanto a questa sola classe doveva essere riservata l'arte del saper ragionare e del saper riflettere criticamente. Se la riforma di Gentile viene riletta nei termini sociali testé suggeriti appare allora chiaro come l'autentico scardinamento di questa riforma - che ha dominato incontrastata per gran parte del Novecento nella scuola italiana - si possa ottenere solo nella misura in cui l'insegnamento della filosofia non è più riservato esclusivamente agli studenti dei licei. Proprio questo è il coraggioso e ambizioso tentativo che ha ora preso le mosse con la costituzione di un'apposita Commissione Nazionale, voluta dal Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer per studiare la possibilità di inserire la'insegnamento della filosofia in ogni indirizzo delle scuole secondarie superiori. Questa Commissione, negli intenti del Ministro, ha infatti il compito primario di delineare l'orizzonte culturale ed istituzionale per un possibile insegnamento della filosofia in tutte le scuole secondarie superiori italiane. La Commissione, formata da una decina di docenti universitari di filosofia e da tre docenti liceali di filosofia, è guidata e coordinata da un ispettore tecnico della Dirclassica del Ministero della Pubblica Istruzione e da un Dirigente Generale del medesimo ministero: rappresenta quindi un ristretto gruppo di lavoro che in tempi brevi dovrà presentare al Ministro le conclusioni dei suoi lavori. In ultima analisi e in sinstesi estrema il compito di questa Commissione può allora essere indicato come il seguente: rispondere alla domanda - ad un tempo culturale e sociale - del perché l'insegnamento della filosofia debba essere eventualmente presente in tutte le scuole secondarie italiane. Ma in realtà, ponendosi questa domanda, ci si pone, contemporaneamente, una questione culturale e sociale della massima importanza poiché, in ultima analisi, ci si interroga sulla seguente questione aperta: l'insegnamento della filosofia costituisce veramente un autentico diritto di cittadinanza per ogni cittadino italiano? Chi scrive è radicalmente convinto che a questa domanda occorra rispondere in modo positivo e coraggioso non solo - e non tanto - per contrastare ab imis fundamentis l'impostazione sociale e culturale reazionaria della riforma gentiliana (che da questo particolare angolo prospettico risulta essere del tutto in sintonia con la concezione del totalitarismo fascista e di ogni totalitarismo che riduce il singolo ad una variabile dipendente dello Stato assoluto), ma anche perché nei diritti di cittadinanza per qualunque uomo deve rientrare l'effettiva tutela di una sua autonoma e libera formazione critica, in grado di tutelare l'autonomo sviluppo culturale e mentale di ciascun individuo. Si badi: non già che si attribuisca alla filosofia il privilegio, unico, di far ragionare, ma è comunque indubbio che una valutazione filosofica aiuta sempre a sviluppare un atteggiamento critico rispetto ai vari possibili ambiti di indagine. Il che è forse dovuto allo statuto teorico profondamente "ambiguo" della stessa riflessione filosofica la quale, lungo i secoli della nostra tradizione occidentale, in linea di massima ha sempre abitato, di preferenza, i problemi aperti dell'umanità, quelli in cui, di volta in volta, si ponevano le questioni decisive e cruciali per lo stesso sviluppo della nostra storia. Non per nulla la filosofia, malgrado tutti gli arbitrari "accoppiamenti" cui è stata variamente sottoposta (con la storia, con la scienza, con la religione, con la letteratura, ecc. ecc.) ha sempre rotto tutti questi differenti letti di Procuste, rivendicando una sua libertà più radicale e dimostrando una perenne capacità di vivere tra le pieghe dei problemi, collocandosi spesso ai confini tra le differenti discipline. Per questa ragione di fondo oggi, alle soglie del nuovo millennio, l'insegnamento di questa attitudine critica non può più essere negata a nessun cittadino. La collettività nazionale, nella misura in cui vuole effettivamente tutelare l'autonomo sviluppo sociale e culturale di tutti i suoi cittadini, non può più negare ai suoi giovani la conoscenza di una disciplina decisiva che li aiuterà sempre - indipendentemente da tutte le differenti strade che questi stessi giovani decideranno poi di percorrere nel loro futuro (più o meno immediato) - a valorizzare la propria autonomia e le proprie libere scelte. Per questa ragione l'insegnamento della filosofia per tutti i cittadini costituisce un diritto di cittadinanza irrinunciabile. È irrinunciabile come è irrinunciabile la libertà, ma, a differenza della libertà - che implica sempre un nostro impegno personale primario e una scelta individuale - l'insegnamento della filosofia va invece offerto a tutti i giovani, se è vero che la formazione di cittadini liberi ed autonomi costituisce un compito primario ed irrinunciabile di una società civile veramente degno di questo nome. Come non è cittadino colui che non sa resistere ai soprusi, così non può essere cittadino colui cui non sono stati forniti tutti i mezzi per diventare liberamente ciò che è. |