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Comunicazione Filosofica n. 7 - luglio 2000

Giovanni Casertano

Una volta fui arbusto e muto pesce del mare

a Graça

C'era una volta un uomo che non era stato sempre un uomo, ma albero, uccello, pesce, fiera, dio. C'era un dio che era anche un uomo, venerato amato benedetto. Le creature infelici si recavano da lui, bisognose di una parola che le guarisse da affanni, tormenti, paure, di una parola che sapesse far sognare un domani di pace e di tranquillità. Perché quell'uomo, che era anche un dio, ed era stato fanciullo e fanciulla, albero, pesce, e che sarebbe stato ancora un dio, un albero, un fanciullo, una fanciulla, un pesce, era capace di vedere là dove non riuscivano a vedere dieci e venti generazioni di uomini, vedeva nel passato e vedeva nel futuro. Perché la sua mente, che era il suo corpo, che era tutte le menti e tutti i corpi che erano vissuti, che vivevano e che sarebbero vissuti, rimaneva saldamente ancorata al suo senno, forte nella sua mobilità, agile nella sua fermezza.
Quell'uomo era vissuto in Sicilia, nella bionda città di Akràgas, che a febbraio era circondata dalla neve dei mandorli in fiore (e bianche erano le bende che gli cingevano il capo), che a giugno era circondata dall'oro delle spighe mature (e dorate erano le vesti che gli avvolgevano il corpo). Quell'uomo era un mago: sapeva calmare i venti; era un fisico: sapeva come e di quali radici sono costituite tutte le cose del mondo; era un filosofo: sapeva l'essere e il non essere del pensiero; era un medico: sapeva guarire i mali del corpo e quelli dell'anima. Una volta il suo nome era Empedokles.
Ad Akràgas le quattro radici di tutte le cose erano visibili a tutti: nell'aria limpida che forma la cupola del cielo in cui volano gli uccelli, nell'acqua luminosa e azzurra del mare in cui guizzano i pesci, nella terra bionda che nutre i dolci frutti, nel fuoco che s'innalza potente dalle bocche della montagna. Ma Empedokles le catturò nei suoi versi e le rese docili al pensiero: tutti gli uomini poterono allora non solo vedere, ma anche capire. Ad Akràgas l'odio e l'amore erano visibili a tutti: nelle guerre che opponevano padri a figli, fratelli a fratelli, nelle dolci unioni che legavano la femmina al maschio, in tutti gli esseri viventi. Ma Empedokles li catturò nei suoi versi e li rese docili al pensiero: tutti gli uomini poterono allora non solo vedere, ma anche capire. 
Gli uomini dalla vita di un giorno scorgono solo una misera parte della vita, nella loro vita di breve destino, eppure si vantano di scoprire il tutto; per i deboli poteri che sono diffusi nelle loro membra, e per i molti mali che li affliggono, hanno pensieri ottusi; con le loro parole e con le loro opere costruiscono follie, credendo di superare tutti i limiti ed immaginandosi un potere che consenta loro di farlo. Credono di plasmare se stessi e le cose, credono di plasmare il mondo, e non sono più capaci di penetrare nell'intimo di se stessi, di sentire le cose con gli occhi, con gli orecchi e con tutte le loro membra, in cui invece sono le vie per conoscere; non sono più capaci di capire e rispettare l'armonia del mondo. 
Fanciulli, questi uomini dai pensieri corti, credono di dominare la vita e fingono di ignorare la morte, sognano di plasmare o addirittura di creare la vita sperando di dominare la morte. E non sanno che vita e morte non sono che nomi, che puri nomi, perché non c'è né c'è mai stata né mai ci sarà nascita di nessuna delle cose che muoiono, non c'è e non c'è mai stata né mai ci sarà morte funesta di nessuna delle cose che vivono. Ma tutto è stato, è e sarà sempre, mescolanza e separazione di ciò che è immortale, ingenerato ed eterno: le radici di tutte le cose: l'aria che non è il cielo, l'acqua che non è il mare, la terra che non è quella che calpestiamo, il fuoco che non è quello che distrugge le nostre città. Non può nascere ciò che prima non è, non può distruggersi ciò che è. 
Ma gli uomini dal corto pensiero pensano di essere i signori della vita e della morte, non vedono al di là dell'immediato, del loro breve destino, e non si curano di ciò che era e di ciò che sarà. Se il nome di nascita è il nome della mescolanza delle radici eterne, e il nome di morte è quello della separazione delle eterne radici, essi non vedono come tutte le nascite e tutte le morti che si sono sempre susseguite e continueranno ad avvicendarsi per sempre non sono altro che le maniere sempre diverse, particolari ed irripetibili, di una vicenda eterna in cui le loro stesse vite e morti sono solo una luce ed un'ombra effimere. 
Persi dietro i loro sogni di potenza, e credendo che la loro presenza nel mondo sia come quella di un potere dominante in una terra occupata, gli uomini dal corto pensiero e dai sensi offuscati hanno perso la capacità di vedere negli uomini, nelle donne, negli alberi, negli uccelli, nelle fiere, nelle acque, nei monti, nelle divinità, quell'unica legge eterna che rende manifesti e poi fa scomparire gli infiniti esseri che nascono e che muoiono. Sono diventati incapaci di slanciarsi con pensieri veloci per tutto il cosmo, di vedere il cosmo intero come un tutto che eternamente vive e muore nelle infinite nascite e morti che formano la sua immortalità e la sua eternità.
Gli uomini dal corto pensiero non sanno vedere il respiro cosmico di questo intrecciarsi di tempo ed eternità, scandito nei ritmi dell'Amicizia e della Contesa. Philotes e Neikos sono appunto i nomi che segnano queste due forze cosmiche che sempre erano e saranno, giacché mai di loro sarà vuoto l'infinito tempo. Amicizia e Contesa connettono e separano le radici dando luogo alla vita e alla morte di tutte le cose. Ed ogni cosa è "uno", la singolarità irripetibile ed originale delle radici sempre uguali. 
Ma gli uomini dal corto pensiero non sanno vedere come dall'uguale nasca il diverso, dall'immobile il mutevole, dall'eterno il temporale. Duplice infatti è l'uno, duplice la sua nascita, duplice la sua morte: "uno" è il singolo ente, quest'uomo, quell'albero, quel fiume; ma "uno" è pure il cosmo, il tutto. Amicizia aggrega gli elementi a comporre la forma del singolo ente e Contesa li disgrega per passare alla composizione di nuove forme e di nuovi enti; Amicizia aggrega gli elementi a comporre la forma dell'universo nel suo regno, e Contesa li disgrega dando luogo ad un nuovo ciclo. Questa è la tensione, il respiro dell'universo intero, in cui generazione e dissoluzione sono strettamente unite. Dove la vita delle cose mortali passa attraverso la morte di altre cose mortali, ma anche la vita del cosmo si riforma dalla sua morte; così la morte delle radici nella loro forma propria è la nascita dei composti nelle loro diverse forme. La nascita degli uomini, degli animali, delle piante, è la morte degli elementi che entrano nella loro composizione; la nascita del cosmo uno è la morte della molteplicità degli elementi che lo compongono; ma anche la nascita del molteplice è la morte dell'uno, ed il mutamento del cosmo non può esserci senza il permanere di ciò che rimane immobile nel mutamento stesso.
Gli uomini dal corto pensiero hanno creduto di costruire una scienza della vita ed una scienza della morte, ma mentre nel costruire la loro scienza della morte sono stati bravissimi a camuffarla sotto i nomi del progresso, della pace, dell'equilibrio, della democrazia, nel costruire la loro scienza della vita non hanno saputo fare altro che clonare l'identico, il malato, l'uguale. Uccidendo così i colori e i suoni e i sapori sempre diversi che la natura pittrice disponeva sulla tavolozza del mondo, le hanno impedito di mescolarli armonicamente nelle loro varie misure, hanno mortificato la sua sapiente composizione degli uomini, delle donne, degli dèi, degli uccelli, dei pesci, che in numero infinito ella si preparava a render manifesti, meravigliosi a vedersi, agli occhi dei mortali. 
Gli uomini dal corto pensiero, infatti, non solo vanno perdendo la capacità di vedere con occhi infaticabili ciò che la divina Afrodite aveva preparato loro, e rendono sempre più piccola la parte destinata alla lieta luce, ma perdono anche la capacità di congiungere le une alle altre le vette dei loro discorsi. Che diventano sempre più piccoli, cancellano sempre di più le loro vette per strisciare, per comodo, per indifferenza, per opportunismo, entro l'orizzonte della piccolezza. Vanno perdendo sempre più la via dei canti che, derivando discorso da discorso, convergevano nell'unità dell'Amicizia. I loro discorsi spezzettati, di parte, che tracciano confini dappertutto, che inventano artificiosamente sempre nuovi confini, che separano tutto ciò che dovrebbe essere unito, riescono a costruire con grande facilità i tortuosi sentieri di Contesa.
Gli uomini dal corto pensiero hanno commesso la loro colpa più grave separando la morte dalla vita. Hanno riempito la vita di contese e gemiti mentre proclamavano di volerne alleviare i dolori; hanno abbassato la Contesa da forza cosmica, necessaria al manifestarsi della terra e dell'acqua, e dell'etere e del sole, alla volgare e furente causa delle discordie umane, che quotidianamente agitano e contrappongono gli uomini gli uni agli altri: alla volgare e furente contesa che li spinge ad uccidersi tra di loro, a prestare falsi giuramenti, ad errare nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita, che li getta in un vortice di odio che abbraccia mare e terra ed etere e che va al di là dello stesso ciclo della vita di un uomo, fino a diventare forza distruttrice dello stesso mondo. 
Hanno abbassato la morte, ipocritamente nascondendola in un velo di scientificità, al bruto contrario della vita, facile da raggiungere ma ancor più facile da dare, nel corpo e nell'anima. Hanno abbassato la morte a mancanza di memoria, a sonno, ad oscurità, alla massima delle sventure, ad eco funesta di una vita funesta. Hanno distrutto l'unica forma di immortalità concessa all'uomo, quella di riuscire a conquistarsi un grande sapere, di riuscire a tendere la sua intelligenza, di riuscire soprattutto ad essere d'ausilio agli altri in opere sagge d'ogni specie. 
Gli uomini dal corto pensiero hanno tolto ai loro fratelli l'unica maniera di poter essere felici, cioè di acquistarsi ricchezza non di oro ma di intelligenza divina, nel mentre che gli prospettano, imbandendogliela in tutte le religioni possibili ed impossibili, una immortalità di sopravvivenza individuale, che rimedi in un orizzonte di non essere alle miserie e ai dolori che hanno seminato nell'orizzonte concreto del loro essere. Hanno nascosto che l'anima dell'uomo non è che l'espressione di quella specifica mescolanza che costituisce quel singolo uomo, è quella proporzione e connessione determinata che esprime quel singolo individuo, è quella misura della mescolanza irripetibile e fragile che dura lo spazio di un sol giorno, e che andrebbe perciò allevata e nutrita con cura. Hanno separato la vita dalla morte proprio mentre pretendevano e promettevano una vita eterna nel chiuso di un'individualità sempre chiusa in se stessa, egoisticamente uguale a se stessa ed inutile agli altri esseri. Hanno separato la vita dalla morte cospargendo di morte la vita e progettandosi una vita eterna che non è che morte.
Gli uomini dal corto pensiero hanno riempito la loro vita delle cose solite fra gli uomini, della sete di guadagno, di dominio, di onori, hanno chiuso tutti gli uomini nella piccola monade della loro individualità, di singoli o di classi o di popoli, ed hanno dimenticato il faticoso cammino della conoscenza, che è l'unico rimedio ai mali ed alle sofferenze proprio perché apre tutte le porte e tutte le finestre di tutte le monadi additando la via di Amicizia. Solo lo stare saldamente appoggiato ad una forte intelligenza e ad una forte sensibilità, il contemplare le cose con esercizio e sollecitudine puri, autentici, per tutta la vita, consente di elevarsi sulle monadi, di evitare le molte sofferenze, di aiutare chi da lungo tempo è trafitto da aspri dolori e non sa alleggerire l'animo dalle tristi angosce. La conoscenza è ciò che consente ad Empedokles di incantare, di incantarci a vicenda con la parola, il principale strumento di liberazione:
bavxii eujhkhvi è la parola che bisogna imparare a pronunciare per guarire i dolori degli uomini: bavxii è la voce, la parola, il discorso, ma dev'essere eujhkhvi, cioè capace anche di ascoltare l'altro ed esaudire volentieri alle sue richieste: è l'unico strumento, rimedio (a[koi), per guarire (ajkevomai), portarci soccorso vicendevolmente.
Gli uomini dal corto pensiero nelle loro notti invernali accendono la luce di strumenti che li illudono di comunicare con il mondo, al quale confidano in segni muti e sempre uguali i loro bisogni sempre più piccoli nell'apparente vastità degli orizzonti, rinchiudendosi sempre più nella loro piccolezza nell'illusione di aprirsi alla conoscenza di tutte le cose; hanno dimenticato come si accende il lume, splendore di fuoco ardente, che consentiva di proteggersi dal vento dell'ignoranza, hanno dimenticato come quel lume voleva protezione e amore e fatica e lunga consuetudine con le parole dette e ascoltate; hanno istituito la molteplicità infinita dei soliloqui facendola passare per un dialogo; hanno scambiato il sembrare per l'essere; hanno ben imparato l'arte di mascherare i loro piccoli discorsi di potere, di ricchezze, di dominio, con parole menzognere, aggiungendo sempre più contesa a Contesa. 
Gli uomini dal corto pensiero hanno costruito un'infinità di monadi piccole o grandi, e le hanno contrapposte le une alle altre, dimenticando che nelle loro contese non solo si danneggiavano a vicenda, ma andavano inquinando e danneggiando sempre più irrimediabilmente l'orizzonte fisico e mentale nel quale essi stessi vivevano ed operavano.
Il canto doloroso di Empedokles aveva visto come Amicizia, egualmente prima tutt'intorno librata, si fosse ritirata agli estremi confini del cielo di fronte all'avanzare di Contesa funesta. Contesa non tratteneva più in alto la legge del disgiungersi di tutte le cose, ma calata al centro del turbine aveva riempito del più profondo abisso la mente e il cuore dei mortali, e i sentieri del mondo si riempivano dei suoi velenosi prodotti: dappertutto la cecità degli uomini spargeva ricchezze e miserie, non mescolate. Le mani delle dolci fanciulle non giocavano più con clessidre di rame ben lavorato, mescendo e misurando le gioie e le ansie degli uomini, ma le mani di uomini servi di altri servi, dal pensiero offuscato e pieno di invidia, mescolavano solo il sangue e l'oro degli uomini mortali, con l'unico pensiero di trarre l'oro dal sangue. E tutte le cose che gli uomini servi di un altro servo producono nello spirito di Contesa vanno errando per diecimila stagioni: l'impeto dell'etere le rigetta nel mare, il mare le rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta le getta nei vortici dell'etere: ogni elemento le accoglie da un altro, ma tutti le odiano, ed esse non trovano né danno ai mortali mai pace. 
Ma il canto gioioso di Empedokles aveva visto anche come Amicizia sarebbe tornata dal profondo abisso in cui era stata ricacciata a spandere sul mondo pensieri ed opere di pace. Perciò Amicizia doveva chiamarsi anche Afrodite Citerea e Ciprogenea, per poter abbracciare e congiungere l'Oriente e l'Occidente; e poi Amicizia sarebbe diventata Armonia, la bella e giusta e necessaria proporzione dell'eterna aggregazione e dell'eterna disgregazione.
Cipride è infatti colei che imprime le infinite forme agli elementi, consegnandole al fuoco perché le consolidi, ciascuna con le proprie specifiche caratteristiche; per la sua comparsa provvidenziale succede che i principi di tutte le cose, che erano non mescolati, solitari, siano presi dallo spirito d'amore dovuto ad Amicizia, ed Afrodite era la forza vitale, dinamicizzante, che scuote dall'immobilità e spinge alla mescolanza, dei sessi delle opere dei pensieri. Afrodite dovrà essere ancora la forza dell'amore, non solo tra gli elementi, ma tra gli uomini, tra gli esseri animati in generale, perché è essa che spinge all'unione dei sessi e quindi dà vita al ciclo delle nascite. Perciò essa viene chiamata
zeivdwroi, dispensatrice di vita. Con la sua opera essa già una volta pose fine ai maldestri tentativi di aggregazione di elementi e delle parti in esseri strani e mostruosi, esseri con due volti o con due petti, stirpi bovine con volti umani, o, viceversa, stirpi umane con volti bovini, sessi e forme maschili e femminili mescolati insieme: mostri che nascevano e morivano senza nessuna condizione di stabilità, e che però riempivano l'ampia terra delle loro mostruosità. Finché Afrodite non produsse composti armonici di esseri mortali, l'armonizzazione dei corpi e delle opere tanti quanti erano e dovrann'essere resi armoniosi.
E con Afrodite venne già una volta nel mondo e dovrà tornare la bellezza, e la gioia e l'amore che essa fa nascere, la bellezza che si vede e che attrae e che si gode. La bellezza che si vede: gli occhi infaticabili sono il prodotto più specifico di Afrodite: nelle mani di Cipride per la prima volta essi nacquero insieme. Agli occhi, ed alla memoria che grazie ad essi nasce in noi, si deve appunto il desiderio d'amore. Ad Afrodite si deve dunque questo legame inscindibile che connette insieme vista, bellezza e amore. Afrodite è dunque ciò che rende amici, che spinge all'amore reciproco, è il bisogno/desiderio ineludibile che dà piacere e gioia. 
Questo cantò con bellissima voce Empedokles, invitando i mortali di sessanta e dieci e cinque generazioni ad essere amici di tutte le parti, lo splendore del sole, la terra e il cielo e il mare, affinché, armonicamente disponendole nella mescolanza, reciprocamente si amassero resi simili ad opera di Afrodite, solo così pensando cose amiche e compiendo opere di pace. 
Perciò Empedokles cantò con voce alta il suo sdegno per gli uomini che commettono ingiustizie ed empietà, che si divorano reciprocamente, il suo sdegno per i padri che strappano la vita ai figli, per i figli che uccidono i padri: il suo sdegno per l'assurda cecità della mente dei padri e dei figli che uccide il mondo. 
Perciò Empedokles sognò con voce dolce una
koinwniva tra gli uomini, tra tutti gli esseri animati, tra gli esseri animati ed il mondo, un mondo in cui predomina Amore, in cui non ci sia né Ares, né Tumulto, né Zeus sovrano, né Crono, né Poseidone, ma in cui sola regni la Cipride regina, in cui uomini che vivono in pace le offrano, invece di nobili tori, uccisi e mangiati sugli altari degli dèi della guerra, del profitto, dell'avidità, dell'egoismo, della sopraffazione, splendidi dipinti, e profumi dall'odore sottile, e biondo miele; un mondo di concordia e di comunanza tra tutti gli esseri animati, illuminato da sentimenti e pensieri di filofrosuvnh, di benevolenza e di amicizia.