Torna al sommario di Comunicazione Filosofica Comunicazione Filosofica n. 7 - luglio 2000 Armando Girotti A difesa dell’esserci della disciplina filosofica nel biennio finale della scuola dell’obbligo Su Il Sole 24 Ore del 19 marzo sono comparsi due articoli, uno di Giovanni Reale e l’altro di Marco Santambrogio, nei quali si vagliava l’opportunità di aprire l’insegnamento della filosofia agli studenti del biennio conclusivo della scuola dell’obbligo (corrispondente, più o meno, all’attuale biennio iniziale della scuola secondaria superiore). Plaudo alle ragioni addotte da entrambi sull’utilità di tale apertura richiamandomi però alle dovute cautele precisate da Dario Antiseri e da Luigi Alici pubblicate nell’Avvenire del 21. Là si richiamava l’attenzione sulla possibilità di condurre i ragazzi dal piano delle immagini a quello del concetto, dal piano del concreto a quello della riflessione, dalla esposizione di un fatto al rinvenimento delle cause che potrebbero averlo prodotto, mettendo in evidenza come lo scopo di questo insegnamento sia quello di “insegnare a pensare e a scrivere con chiarezza”; qua come “sia giusto fornire anche a chi non farà il liceo alcune nozioni fondamentali” con l’attenzione che “la lezione di filosofia non si trasformi in un contenitore in cui discutere in modo più o meno casuale degli spunti offerti dall’attualità. Ne verrebbe fuori una sorta di tuttologia dilettantistica che non avrebbe più nulla a che vedere con la filosofia”. Vorrei partire da quest’ultima considerazione per sottolineare come sia necessario che i docenti chiamati a questo impegno siano dei veri professionisti, anche nel rispetto di quanto il Ministro Berlinguer in ogni suo incontro con le associazioni di categoria o con le forze sociali ha continuato ad asserire per tutto il suo incarico, cioè che una buona riuscita di detta riforma poggia su docenti ben preparati. Allora se è richiesta al personale chiamato a questo scopo una affidabile preparazione come condizione necessaria perché la riforma decolli, l’attenzione va posta proprio su chi insegnerà la disciplina oggetto di discussione. Che possano essere gli insegnanti soprannumerari in una disciplina diversa da quella filosofica mi sembra contraddittorio; se lo scopo della riforma è di dare risultati validi, allora ne va di conseguenza una scelta ristretta ad alcune classi di concorso solamente; se invece l’attenzione è rivolta al bilancio dello stato che, dovendo corrispondere comunque uno stipendio a tutti gli insegnanti, anche a quelli soprannumerari, voglia evitare la bancarotta, ebbene, allora non parliamo di filosofia nel biennio ma, riprendendo la definizione di Alici, di ‘tuttologia’. La proposta va da sé: per insegnare filosofia nei bienni ci vuole un docente con delle competenze tali da portare nel più breve tempo possibile questi studenti (dai 13 ai 15 anni, non dimentichiamolo) dal piano della concretezza nella quale sono immersi a quello della riflessione, dal piano delle immagini a quello dei concetti. E se è decisamente poco ammissibile che il docente del triennio possa non essere al massimo della sua preparazione, tanto c’è un programma da seguire (quante volte lo abbiamo sentito ripetere da molti docenti!), ciò non è assolutamente consentito quando si hanno di fronte degli studenti che si affacciano per la prima volta a queste strutture mentali alla cui gestione non sono abituati. Mi sembra assodato dunque che a questo compito dovranno essere chiamati i docenti della classe 37 A o, in subordine, della 36 A. In effetti se l’esperienza della filosofia negli istituti tecnici è spesso fallita, la colpa non risiede nella progettazione della sperimentazione Brocca, ma nel personale chiamato a realizzarla, quasi sempre docente soprannumerario, appartenente ad altre classi di concorso diverse da quella per la quale sarebbe stato previsto quel preciso insegnamento. A questo punto si pone il problema dei contenuti, primo fra tutti, visto che tre dei quattro filosofi succitati lo espongono, quello di un programma che non può dimenticare la storia della filosofia. Su questo tema è bene porre l’attenzione per evitare una caduta. A suo tempo, al XXXIII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, tenutosi a Genova nel 1998, presentai una difesa dell’insegnamento della storia della filosofia con l’attenzione rivolta però alla definizione dell’ambito nel quale doveva muoversi la “storia della filosofia”. Essa può essere considerata, a mo’ degli idealisti o degli storicisti, come colei che il tutto spiega (pensiamo alla visione hegeliana della storia nel cui suo seno tutto trova giustificazione immergendovisi), oppure può essere interpretata, come accade nella pratica scolastica di alcuni docenti, come contenitore di sistemi da imparare più o meno a memoria. Ma c’è un terzo modo di interpretare la storia della filosofia, purché, come ben sottolinea Santambrogio, si recuperi lo strumento essenziale utile a far “storia della...”: il documento testuale; tale scelta va spesso contro quella operata ancora da troppi docenti che preferiscono affidarsi al solo manuale restringendo così lo strumento didattico ad un racconto, quasi si potesse racchiudere tutto lo splendore coloristico e volumetrico del Giudizio universale di Michelangelo in una mediocre fotocopia in bianco e nero; ebbene in questo terzo caso dobbiamo guardare alla storia con un altro occhio: è la possibilità offerta dal documento di ‘contestualizzare’ le risposte al problema, che acquista così valore proprio per la distanza che esso ha con noi e per le domande che smuove nel nostro io, spingendoci a discuterle e a vagliarle. Se questo è il modo con cui si guarderà alla storia della filosofia credo proprio che essa possa aiutare il docente a costruire ‘moduli’ anche nella fascia del cosiddetto biennio obbligatorio. La storia, così concepita, ma calibrata in modo differente potrebbe essere trainante anche nei trienni, ma su questo non vorrei soffermarmi ora, visto che è più pressante la discussione sul posto che può occupare la filosofia nei bienni. Se con il termine filosofia pensiamo a quella disciplina, alquanto noiosa, che si snoda attraverso una esposizione del pensiero dei filosofi inseriti in un contenitore storico, spesso impartita macchinalmente nella scuola superiore, allora per questo tipo di insegnamento non c’è posto nella scuola rinnovata; se però con il termine filosofia intendiamo un’occasione per ragionare a partire sia da discussioni che possano sorgere dalla quotidianità sia rivisitando i luoghi dove la filosofia ha dimorato nel corso della sua storia, cioè negli scritti dei pensatori, beh, allora credo che un posto in questo ambito essa possa averlo ed anzi le calzi a pennello. Se la filosofia ha acquisito una immagine negativa, tanto da essere considerata superflua, tanto da non servire alle giovani generazioni, forse non ne è estraneo il luogo in cui la si studia, nella scuola che, grande contenitore quale essa è, fa convivere tendenze storicistiche, ormai affievolitesi con il decadere dell'ispirazione idealistica, propensioni dossografiche ed orientamenti strumentalizzanti ideologicamente i vari sistemi filosofici. Anche i ministri che si sono succeduti in questo ultimo cinquantennio, sconcertati di fronte alle difficoltà di una qualsivoglia riforma dell'insegnamento filosofico, non sono estranei a questa caduta di importanza della filosofia perché col loro atteggiamento hanno spesso accettato, con la falsa giustificazione della libertà di insegnamento, la convivenza delle suaccennate tendenze senza mai entrare nel merito di una formazione metodologico-disciplinare del docente. Il grande pubblico così non ha mai potuto recuperare il vero significato di filosofia come capacità di riflessione sui problemi della vita; è invece questa la dimensione che occorre liberare dal termine perché è da lì che la filosofia si è originata, dalla problematizzazione del reale e non dallo studio meccanico delle visioni dei filosofi. Se nelle aule scolastiche si vuole tornare alla storia del pensiero, si vada alle fonti, ai testi scritti, là dove i filosofi hanno dibattuto le questioni e dove hanno impresso le loro risposte, non allo studio manualistico delle sintesi del pensiero che i vari storiografi ci hanno proposto. La filosofia è nata dalle questioni di senso, sul significato cioè della vita, su ciò che noi siamo e su come dovremmo essere, sul perché delle nostre azioni e sulla scelta da operare, sui temi dell’io e dell’altro, ecc.… Accanto a queste questioni di senso si possono addossare anche le questioni di verità (come ci ricordano i quaranta saggi) che permettono all’uomo di riferire il singolare all’universale. Se la filosofia è nata attorno a questi e ad altri problemi, allora non viene esclusa la possibilità di dialogare con studenti anche del biennio. E come nell’affrontare le materie scientifiche, le cosiddette discipline esatte, si cerca di far comprendere ogni passaggio a partire da una regola data, così dovrebbe accadere anche per la filosofia; perché mai dovrebbe essere consentito alla matematica di essere la disciplina ‘sine qua non’ di ogni corso di studi e non dovrebbe esserlo per la filosofia? E dire che una diversità tra le materie scientifiche e la filosofia c’è e addirittura a vantaggio di quest’ultima; se le prime hanno dei contenuti da spiegare perché siano appresi in vista di una loro applicazione, come peraltro vengono vissute dall’immaginario degli studenti, la seconda non può essere confusa con nessuna altra qualsivoglia materia di studio; essa non ha contenuti da imparare, ma problemi da sviscerare, essa non è finalizzata ad un “sapere di…”, ma ad un “riflettere su…” il vero scopo del suo esistere sta dietro a quei contenuti-problemi, va verso l’acquisizione di un abito mentale, verso la conquista di un modo di pensare che deve diventare caratteristico di ogni persona. Questa disciplina, una volta che si sia sbarazzata di ogni aspetto formale proveniente da una mal intesa tradizione, ed abbia recuperato il suo senso forte di indagine, calata nella scuola, insegnerà ai giovani a pensare, a ponderare, a valutare, a riflettere su se stessi e sulle cose. Se la si coglie all’interno di quest’ottica, a buon diritto può indirizzarsi indistintamente a tutti gli esseri umani e la difficoltà di approccio di cui si sente parlare apparirà chiaramente non risiedere nella disciplina, ma nel modo in cui la si presenta, da come le persone le si avvicinano. De Crescenzo, uomo non certo di stretta appartenenza alla cerchia dei filosofi, piuttosto autore di libri divulgativi, anche di storia della filosofia, ci può venire in soccorso quando nel suo Così parlò Bellavista ci prospetta una scanzonata visione del genere umano. Lo divide in due grandi categorie, gli uomini ‘punto esclamativo’ e gli uomini ‘punto di domanda’; il che significa, a suo dire, che le persone possono essere o certe di una conoscenza acquisita, e quindi convinte che quello in loro possesso sia il vero e definitivo sapere (le persone del primo gruppo), oppure poco convinte della infallibilità del sapere raggiunto, sempre incerte sui risultati della loro ricerca (quelle del secondo gruppo). Se ci si guarda attorno forse non ha tutti i torti l’ingegnere De Crescenzo, divenuto arguto fustigatore del genere umano; le due categorie sono in mezzo a noi, ma erano presenti anche in tempi lontani e le possiamo scovare negli stessi luoghi dove si è sviluppata la filosofia. Gli uomini punto esclamativo, certi dei propri risultati raggiunti, potrebbero essere quegli ideologi che ti spiegano come finalmente solo attraverso loro venga svelato il sapere in modo completo, gli altri, quelli punto di domanda, potrebbero essere quei pensatori alla continua ricerca di qualche verità che sanno non essere ancora in loro possesso, ma di cui sentono la mancanza; al primo tipo appartengono i vari Marx, Comte, Hegel, al secondo i vari Socrate, Agostino, Pascal. I primi sembra ci abbiano lasciato solo certezze, quasi ci avessero svelato l’arcano, i secondi invece, sempre alla ricerca di sondare in profondità l’animo umano, ci hanno lasciato più che delle verità un metodo. La domanda da porsi è dunque a questo punto se nella scuola si debba tendere alla formazione di uomini del primo o del secondo tipo, di uomini dogmatici o di uomini tesi verso un sapere che non ha confini. Proprio Reale ricordava nel suo articolo come Evandro Agazzi avesse strenuamente difeso la filosofia quale strumento per la realizzazione di una mentalità antidogmatica a fronte della cultura scientifica, molto più vicina alla formazione di una mentalità tendente al dogmatismo. A tal proposito mi viene alla mente un detto cinese che, espresso in forma corrente, dice press’a poco così: “la sapienza è come il diametro di un semicerchio, l’ignoranza è invece l’area del semicerchio sotteso da quel diametro; all’aumento della sapienza corrisponde un aumento esponenziale dell’ignoranza”. E spesso la sua plausibilità la si constata quando, approfondendo un certo settore del sapere, ci si accorge di quanto si allarghi l’orizzonte. È proprio questo l’atteggiamento da far nascere nei giovani studenti, un atteggiamento rivolto alla meraviglia, a quel ‘sapere di non sapere’ dal quale inizia la filosofia. Da Socrate, tramite Platone, l’insegnamento è poi giunto ad Aristotele il quale coniugò la coscienza di non sapere con il dubbio, con la meraviglia, incentivo necessario a far scattare il desiderio per la ricerca. La meraviglia, dunque, origina il sapere ed il sapere, liberando l’uomo dall’ignoranza, lo scioglie dai lacci che lo imprigionano permettendogli così di diventare un essere libero, non soggetto ad altri o ad altro. Ed allora perché non utilizzare lo stupore dell’animo per far progredire l’uomo che è in noi? La crescita dell’individuo, sia esso uomo maturo oppure giovane fanciullo che si apre alle prime esperienze di vita, si origina proprio nell’aderire a questo atteggiamento di apertura, nel non dare per scontato nulla. A ben guardare forse la capacità di stupirsi, di meravigliarsi, di sorprendersi di fronte all’immenso scibile umano risiede più nell’animo del bambino che non in quello dell’uomo maturo; quest’ultimo spesso presume di possedere una conoscenza certa che, facendogli credere di aver colto il significato profondo delle cose, lo rende superbo, lo trattiene dall’avanzare; tutto gli sembra scontato, assodato, ovvio. L’ovvietà, la sicurezza sulle conoscenze, ovviamente in possesso del soggetto, possono tradursi in un pericolo. In effetti, va alla ricerca di qualcosa solo chi sa di non possederla e non chi presume di esserne padrone. La certezza del proprio sapere è subdola; essa crea una sensazione di tranquilla fiducia che assopisce accontentando, addormenta producendo ritrosia di fronte a ulteriori riflessioni. Occorre tornare allo stupore infantile, alle continue domande sul perché delle cose, alla sete di ricerca, a questa fiamma che dentro brucia, a questo anelito di vita che tutto interroga e tutto vuol intendere; ebbene, questa si chiama filosofia. E noi vorremmo tener lontano da questo sacro fuoco le giovani generazioni? No, al mondo della filosofia appartengono proprio quelle operazioni che hanno come scopo il socratico “conosci te stesso”, operazioni che spingono a formulare problemi, addurre ragioni, generalizzare, identificare ed usare criteri, stabilire relazioni, operare distinzioni, ricavare inferenze, prevedere conseguenze, riconoscere l’interdipendenza tra cause ed effetti, tra mezzi e fini. Ed a ragione rilevava il cardinal Tonini, come ricordato nell’articolo di Reale, che “molti giovani tendono a ragionare sempre di meno e a lasciarsi guidare nel loro agire dagli istinti, dalle emozioni e dai sentimenti”, mostrando come non abbiano “alcuna dimestichezza con i ragionamenti logici e in particolare con i nessi strutturali fra ‘causa’ ed ‘effetto’ delle proprie azioni”. Se la scuola ci ha presentato questa disciplina come studio mnemonico o come gioco inutile e fine a se stesso, legata alla vuota retorica dei politici, l’errore sta nella scuola, non nella disciplina; è il luogo dove la si fa ad avercene dato una immagine distorta e se si risalisse alle sue origini si riscoprirebbe quel dialogo socratico da cui è partita. L’insegnamento della filosofia, dunque, oggi deve riprendere il suo percorso partendo da lontano, dalla spinta dialogica; non può racchiudersi solo nel pur straordinario patrimonio di idee che la tradizione ci ha tramandato; occorre che soprattutto si concretizzi in un eterno interrogarsi riflettendo sia su quelle idee consegnateci dal passato sia sulle problematiche che emergono impellenti dall’animo umano dei giovani d’oggi. Attualmente nella scuola c’è chi bada troppo al sapere intorno a ‘ciò che veramente ha detto’ un particolare filosofo, perdendo di vista allora quanto quei problemi di un tempo possano diventare, quand’anche non lo siano già, dei problemi attuali. Da questo punto di vista la filosofia non risiede allora solo nella rete dei suoi concetti, nelle risposte dei filosofi antichi, quanto nella riflessione sul proprio io, sui propri problemi, sulle relazioni tra l’io e il mondo, tra l’io e la natura, tra l’io e gli altri. La filosofia, dunque, se non si restringe alle semplici nozioni apprese sui banchi di scuola ma si apre al tutto interrogare, ebbene, lì dove c'è ragionamento, lì necessariamente produce crescita, formazione, maggior consapevolezza di sé e degli altri. Si sente però spesso affermare: “Siamo sicuri che l’atteggiamento critico si formi solo o soprattutto attraverso la filosofia? E perché non con la fisica, con la matematica o la letteratura?” Ma chi mai vorrebbe sostenere che la cultura nel suo insieme non concorra a formare buone teste (purché non si fermi a produrre teste piene). Non mi sembra una valida argomentazione quella di chi pone tale domande implicitamente volendo intendere che la battaglia per l’allargamento della filosofia nei bienni è già persa in partenza perché le motivazioni del suo inserimento sono giustificazioni deboli. È il suo un ragionamento debole perché la domanda potrebbe ben essere rovesciata in una nuova interrogazione. “E perché escludere la filosofia dall’insegnamento nei bienni?” Occorre motivare il perché del suo inserimento senza con ciò voler escludere argomentazioni a favore di altre discipline; non deve essere una roulette russa quella destinata a decidere sull’inserimento o meno della filosofia nei bienni, devono essere argomentazioni solide e non mi sembra che a questo innesto manchino. Avendo fiducia nella filosofia, riformulandola in termini di didattica attiva, aggiornando il pubblico sul suo vero significato, facendo in modo che nella scuola si percorra il documento testuale più che le pagine degli storiografi o le perorazioni del docente, operando in tal modo, facendo assumere alle parole del filosofo la posizione di centralità che hanno perduto da quando sono state espunte dai manuali, allora si tramuterà la filosofia da semplice materia di studio in disciplina di vita. È dall’ascolto delle motivazioni altrui che nasce il confronto, è dal maggiore o minore coinvolgimento che sgorgheranno le domande. La filosofia non può ridursi a una sfilza di nomi, a medaglioni staccati dalla realtà problematica; essa è ricerca che necessita di rimanere sempre aperta, sempre lontana da soluzioni definitive, sempre capace di far nascere all’interno della coscienza, là dove sembrava tutto scontato, i mille problemi della vita; è questo l’inizio del filosofare, di un filosofare che non giunge mai alla sua conclusione, anzi di un filosofare che contraddittoriamente sembra indicare nello scetticismo la fonte del sapere; infatti dalla consapevole rinuncia alla certezza (da questo scetticismo prolifico) ognuno potrà far nascere la ricerca. Rintracciare il problema, farlo affiorare, chiarirlo e dargli consistenza anche per l’oggi questo è ciò che si richiede ad un retto insegnamento di filosofia; ma questo è solo l’inizio; la seconda tappa passa inevitabilmente attraverso un nuovo dialogo con le risposte diversificate o alternative; confrontarsi con quelle degli altri, rintracciabili sia all’interno della storia del pensiero sia nel dibattito attuale, questo è l’invito rivolto all’uomo perché ritorni in se stesso e si scopra cambiato; questa è l’essenza del filosofare. E non credo sia un lavoro solo per iniziati o per adepti; mi sembra sia giunto il momento di schiudere le porte anche ai cosiddetti ‘altri’. Se si vuole educare la gioventù, renderla disponibile all’autonomia, alla responsabilità, alla relazionalità, allora la filosofia va messa nelle condizioni di essere offerta a tutti. Quanti mondi restano chiusi al di là della porta di cui non possediamo le chiavi! L’arte, la musica, la chimica, la biologia, tutte discipline che non possono essere ridotte a semplici contenitori; sono invece dei mondi nei quali occorre immergersi con l’aiuto di strumenti adatti perché siano comprese a fondo. Un bel brano musicale viene apprezzato da chi conosce la tecnica del solfeggio, ma molto di più da chi è in possesso di chiavi idonee a penetrare fin nella sua anima; un bel quadro sarà apprezzato da chi conosce a fondo il mondo estetico più che da un occasionale passante. E la stessa cosa vale per la filosofia; sarà apprezzata maggiormente da chi ne possiede le chiavi di accesso, da chi è in grado di aprire quella porta che si spalanca verso orizzonti insondati capaci di lasciar a bocca aperta e sbalorditi i suoi nuovi ammiratori. Che cosa pensano invece i detrattori dell’allargamento dell’insegnamento della filosofia? Che si chieda agli studenti di memorizzare le conclusioni altrui, così come vengono esposte nei manuali; invece la proposta è quella di sondare, di esplorare, di analizzare e di riflettere su quanto vien letto, di porsi delle domande sulle tematiche affrontate, di passare dalla mera funzione di ascoltatori o di ripetitori a quella di attori del proprio sapere, di diventare ricercatori capaci di indagare attivamente, valenti nel domandare instancabilmente, attenti alle connessioni e alle differenze di pensiero mai osservate prima, tenacemente preparati ad operare comparazioni, a scomporre problematiche, a congegnare ipotesi, a saggiare e ad esaminare conclusioni altrui, a provarsi in prima persona, addirittura mettendosi in gioco da vari punti di vista. E se questo è lo scopo anche delle altre discipline, ebbene, chi mai dovrebbe escluderle dal mondo degli adolescenti? Certo è che non si può escludere proprio la filosofia da questa finalità. La modularità, il nuovo termine quasi parola d’ordine della nuova scuola dei cicli, permette proprio questo inserimento con la spinta a mettere assieme le varie discipline non tanto in vista di una trasmissione di ‘istruzione’, quanto in vista di una ‘educazione’; non a caso alle conoscenze si sono affiancate le competenze, al sapere si è affiancato il saper fare ed il saper essere. Se poi gli studenti verranno resi attivi, facendo acquisire loro una metodologia di ricerca, essi si renderanno protagonisti anche della propria educazione. Scopo della filosofia, dunque, e del suo insegnamento nel biennio sembra consistere nella sua capacità di accrescimento delle capacità di comprensione e di valutazione del sé e non nell’aumento di sola conoscenza, come forse viene mal interpretata dai suoi detrattori; la filosofia, che si realizza attraverso la scoperta della verità, invita a pensare e non ad imparare meccanicamente. Questo implica uno sforzo continuo del soggetto che sviluppa e rinforza le sue abilità di ragionamento, sia quelle relative alla comprensione, all’analisi dei problemi e alla loro soluzione, sia quelle proprie dell’area metacognitiva. Diceva Kant che nella scuola non si doveva insegnare la filosofia, ma a filosofare, e se è valido ancor oggi il suo messaggio, allora occorre dare agli studenti quelle metodologie di lavoro che, non fermandosi ai soli contenuti imparati, vadano al di là della nozione; e qui risiede la filosofia; è chiaro che sono i contenuti a veicolare quelle metodologie, ma sta nelle finalità impresse al contenuto dare significato e validità al risultato. Insegnare a pensare dunque più che insegnare il pensiero altrui; insegnare a pensare anche attraverso il pensiero altrui perché il filosofo non è l’isolato essere che dimora tra le nuvole; egli dimora nella città, come ben ha messo in evidenza il gruppo ferrarese della ‘Città dei filosofi’, egli dimora tra la gente, nella società dalla quale mutua le problematiche cercando di esporre una propria risoluzione. Il filosofo, o meglio colui che filosofa, sia esso giovane o uomo maturo, mette in rapporto se stesso con il mondo che lo circonda; è sempre ‘in relazione’ e assume o manifesta un proprio modo di essere, un proprio modo di pensare. Quando sembra che il soggetto si isoli dal mondo che cosa fa? Ripercorre le problematiche nate da quel processo dialogico messo in moto da relazioni interpersonali, da problematiche smosse, discusse e poi interiorizzate. Fare filosofia equivale dunque a pensare insieme. Allora se il pensiero si genera in una dimensione intersoggettiva, occorre tornare là, in quella dimensione per stimolare nei giovani ogni condizione di crescita e di sviluppo. E perché allora nella scuola non si intraprende la strada che porta a ‘pensare insieme’ e a ‘pensare su…’, a porsi domande, a problematizzare la realtà? La domanda da porsi a questo punto è a quale età possa incominciare questo percorso di filosofia attiva che non sia solo frutto di studio appreso sui manuali. Se si concorda con l’idea che il nucleo fondamentale dell’insegnamento della disciplina sia quello suesposto, allora la si può insegnare a tutti coloro che pensano, cioè a tutti gli studenti, da quando entrano nella scuola elementare fino a quando accedono al mondo del lavoro. Addirittura, riprendendo l’esempio dei filosofi greci, si potrebbero aprire le porte del sapere anche all’uomo non avvezzo al ragionamento logico. Che cosa faceva Aristotele nel suo Liceo? L’educazione impartitavi era svolta su due livelli, uno esoterico (ad uso interno, per adepti), che veniva svolto al mattino attorno a discipline abbastanza complesse quali fisica, logica, metafisica, ed uno più semplice, pomeridiano, aperto a vari gruppi di persone, più divulgativo, essoterico (esteriore), con dibattiti intorno a temi di dialettica, retorica, politica. Che cosa sta facendo il mondo di lingua anglosassone? Ha inventato la Philosophy for childrens, una filosofia per bambini; e quando si dice ‘bambini’, si parla di bimbi di cinque anni capaci di riconoscere una contraddizione all’interno di brevi testi aventi per contenuto argomenti a loro familiari. Addirittura, affermano gli addetti ai lavori, questi bimbi sono capaci di completare un sillogismo, se formulato in termini di concretezza. È chiaro che il genere di testo più adeguato alle loro possibilità è quello a struttura narrativa dove dominanti sono le emozioni e facile è la possibilità di contestualizzazione della storia nel proprio mondo per cui i testi di riferimento per fare filosofia coi bambini non potranno essere dei manuali, ma dovranno essere dei racconti adatti ad avviare alla riflessione, a farli procedere dalla storia verso l’asserzione, dalle cose verso le idee, dalla discussione verso il giudizio, tutte operazioni di importanza cruciale per la formazione filosofica di ogni persona. Io credo che sia possibile mutuare anche per il biennio superiore la concezione che sta alla base di questa Philosophy for childrens che è quella di una filosofia che si immerge nei problemi umani alla quale non interessano i sistemi filosofici ma il fare filosofia, il farla insieme, conducendola attraverso una attività dialogica. Il dialogo potrà andare alle domande capitali sull’uomo, sulla vita, sul mondo e da queste domande fioriranno le analisi, i percorsi, le cosiddette unità didattiche interne al modulo interdisciplinare, pluridisciplinare, transdisciplinare. La filosofia nel biennio si potrà basare così sulla problematizzazione del reale, sulla conversazione, sulla discussione, sullo spazio dato ad una pluralità di posizioni, e tutto ciò aiuterà il movimento delle idee, avviando così gli studenti verso il cammino che porta alla conquista di sé, alla presa di coscienza di sé nel mondo e di sé fra gli altri. Si tratta di un approccio maieutico la cui finalità consiste nella continua verifica interiore e nel confronto attivo con il mondo esterno; si tratta di una possibile emergenza delle convinzioni personali che facciano acquisire a chi vi si immerge una consapevolezza razionale tale da permettere a chiunque di difendere e giustificare le proprie scelte, di meditare criticamente intorno a molte delle tematiche umane, di elaborare alternative, di avviare il soggetto ad un progressivo abbandono di ogni posizione dogmatica. Se con il dialogo si garantisce coinvolgimento e si stimola l’immaginario del bambino-fanciullo-adolescente, con l’approccio filosofico ai testi si ripristinerà il dialogo con il passato non tanto per l’acquisizione di concetti mnemonici o di nozioni isolate, bensì, immettendosi nello spirito della disciplina, per cogliere l’orizzonte entro cui i problemi filosofici sono nati e sono stati dibattuti; saranno le argomentazioni che hanno prodotto le soluzioni ad avvincere i fruitori di questa disciplina tramutatasi in ammaestramento di vita. Allora, invece di chiederci a quale età valga la pena di intraprendere questa avventura, rovesciamo la domanda e chiediamoci se ci sia un’età in cui questa avventura non abbia senso. C’è un’età forse in cui l’essere umano non si ponga un qualsiasi perché, in cui non ricerchi significati negli eventi? Se qualcuno lo volesse sostenere, ebbene, ascoltiamo le sue motivazioni per metterle a confronto con la nostra posizione. Forse ci convinceremo che è molto meglio adattare la ricerca dei perché alle varie età dell’uomo che tenerlo lontano da questa avventura spirituale umana così ricca come è la filosofia. |