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Comunicazione Filosofica n. 7 - luglio 2000

A. GIROTTI

Un percorso didattico sul tema

Felicità privata e felicità pubblica nell’Ottocento

 

1. Premessa

2. Applicazione didattica

2.1. Primo modello di razionalità

2.1.1. Problematiche emergenti

2.1.2. Esemplificazione (in Appendice)

2.2. Secondo modello di razionalità

2.2.1. Problematiche emergenti

2.2.2. Esemplificazione (in Appendice)

2.3. Terzo modello di razionalità

2.3.1. Problematiche emergenti

2.3.2. Esemplificazione (in Appendice)

2.4. Quarto modello di razionalità

2.4.1. Problematiche emergenti

2.4.2. Esemplificazione (in Appendice)

3. Ulteriori spunti didattici complessivi

1. Premessa: La nozione di felicità privata normalmente viene collegata al soddisfacimento psi­colo­gico che accompagna la realizzazione di un desiderio; questo però è solo il fronte soggettivo della nozione di felicità che rimanda soprattutto all’euforia provata in ‘prima persona’ e all’appagamento delle inclinazioni del soggetto, in base alla maggior o minor signoria acquisita su un bene, sia esso di ordine corporeo, materiale o spirituale.

La nozione di felicità pubblica allarga il discorso all’interno dei rapporti con l’altro da sé dove l’appagamento delle proprie inclinazioni deve fare i conti con una ‘seconda persona’; in questo caso tale nozione si può configurare come felicità nella convivenza.

Ma c’è un terzo livello nella nozione di felicità, sia essa privata sia essa pubblica, e ri­guarda il discorso per così dire neutrale fatto in ‘terza persona’; riguarda cioè la pianificazione di una normatività in senso universale che sposta il centro di gravitazione del discorso sul punto di vista di un osservatore esterno. Questi, fungendo da legislatore universale, intenderebbe regolare l’azione umana con una serie di norme fondate su elementi di portata univer­sale.

Il discorso sulla felicità può dunque essere svolto su tre livelli, all’interno del soggetto, all’interno della società nella quale si vive, all’interno dei rapporti universali intesi in sé e per sé. Nei primi due casi si può parlare di ‘soggetto utilitario’ nel terzo caso di ‘soggetto virtuoso’; nei primi due casi il soggetto agente progetta, seguendo una logica di calcolo, il suo futuro e quello dei suoi conviventi e la riflessione morale che ne deriva resta all’interno di una ragione strumentale non veritativa, nel terzo caso, invece, al soggetto interessano principal­mente l’ordine dell’anima, l’oggettività assoluta e la verità delle cose, per cui inevitabilmente vengono sussunti in quell’ottica i rapporti e le relazioni con gli altri, con se stessi e con le cose.

Guardando alla storia della filosofia, le analisi di alcuni filosofi dell’Ottocento toccano tutti e tre questi livelli, naturalmente con differenze derivanti da modelli di razionalità dissonanti.

2. Applicazione didattica: L’approccio didattico potrebbe essere compiuto a seconda del modo di intendere la felicità, o meglio, a seconda del modello di razionalità che sottostà alle singole vi­sioni dei filosofi che hanno affrontato la sua discussione.

2.1. Primo modello di razionalità: l’uomo tende alla felicità e si incontra con il finito che lo attrae; momentanea­mente si sente appagato nella sua appropriazione, ma siccome l’intenzionalità sopravanza il godi­mento, egli si sente spinto alla ricerca di nuove soddisfazioni; quando si convince che la felicità è ir­raggiungibile, sprofonda in una considerazione pessimistica dell’essere. Certamente che l’amore, il godimento e la conquista sono momenti in cui gli appetiti privati ravvivano la sua esistenza organica, ma questi lo conducono all’annullamento nel momento in cui prende coscienza che la gratificazione raggiunta non sarà mai stabile e permanente. Qui possiamo riconoscere il modello di raziona­lità di Schopenhauer nel quale più che di ricerca della felicità si può ravvisare un’operazione simile a quella com­piuta dalle scuole epicurea e stoica, cioè liberazione dall’infelicità; è più un “togliersi da…”, togliersi dai dolori, togliersi dalla volontà di vivere che “ricerca di…”. E così più che di felicità si può parlare allora di rinuncia alla feli­cità della quale però l’uomo ha un insaziabile desiderio; solo nell’ascesi, nella noluntas, nella fuga dalla volontà di vivere può esserci cessazione del dolore, ma non certo felicità compiuta.

2.1.1. Problematiche emergenti: Il problema sviluppato da Schopenhauer può essere così espresso: “in quale rapporto stanno lo stato di felicità da una parte e l’intenzionalità, che sottende l’azione dell’uomo nella ricerca della felicità, dall’altra? Cioè l’uomo, una volta ottenuto il possesso di un bene, è spinto ulteriormente da una intenzionalità che sopravanza la stessa conquista ottenuta o, una volta appagato, si ritiene felice? L’intenzionalità che governa la ricerca della conquista cessa con il possesso o permane anche dopo tale acquisizione?” Nel caso di una intenzionalità appagata, si ha un uomo in pace con se stesso perché la felicità raggiunta gli crea uno stato di benessere per­manente; nel caso di una intenzionalità non appagata, si ha un uomo soggetto all’inquietudine per il sempre rinnovato senso di vuoto che lo attanaglia. La stabilità sarebbe dunque quella conquista a cui l’uomo mira nella ricerca della felicità ma che mai viene raggiunta.

2.1.2. Esemplificazione: Se il docente intende far lavorare gli studenti con un approccio al testo filo­sofico dal quale far emergere le problematiche succitate, potrebbe cercare i brani più adatti e poi su quelli operare un lavoro di analisi prima e di riflessione personale poi. Si veda l’esemplificazione in Appendice.

2.2. Secondo modello di razionalità: Per Kant la tendenza verso la felicità non è un bisogno della ragione, è un fatto che si verifica empiricamente; essa è la somma di tutte le sod­disfazioni alle quali gli uomini sottostanno nel seguire la spinta che li indirizza verso la felicità. Egli ammette che gli impulsi sensibili e gli istinti vadano soddisfatti e appagati, ma solo in quanto la mancanza di contentezza potrebbe facil­mente diventare una grave tentazione a trasgredire i doveri (Fondazione metafisica dei costumi, sez. I). Il grosso errore che l’uomo compie nella ricerca della felicità consiste nella confusione che egli instaura tra i due termini, felicità e virtù; è questa seconda a cui l’uomo deve guardare per determinare il suo comportamento, non alla prima; occorre che i due termini vengano tra loro rapportati in modo che virtù e feli­cità stiano tra loro come l'antecedente al conseguente. L’uomo non deve agire in vista della felicità, ma della virtù. Il soggetto, quindi, non può fermare la sua azione nella ricerca della felicità; deve trovare un accordo tra questa e la legge che gli impone il compimento del proprio dovere. Con Kant si evidenzia il discorso per così dire neutrale fatto in ‘terza persona’; a questa ci si riferisce assegnandole la decisione circa il dover essere dell’uomo. E visto che il punto d’incontro tra felicità e virtù non può essere posto in questa vita, occorre presupporne un’altra, che si dà per esistente. In effetti per Kant tra mondo della natura e mondo della moralità c’è una netta distinzione, una inconciliabilità, una antinomia. E quindi, partendo dal presupposto che la virtù è opera della volontà libera dell’individuo che si adegua alla legge morale e che la felicità consiste nell’accordo tra volontà e natura, Kant conclude che la felicità non è raggiungibile; infatti c’è inadeguatezza tra mondo della natura e mondo dello spirito, il primo legato ad un processo deterministico, il secondo al principio della libertà. Non resta che ammettere che la felicità si avrà nel Sommo Bene, quando l’uomo, “liberatosi dalla dipendenza delle cose finite, troverà nella comunione con l’Essere infinito il godimento della vera felicità”. In Kant c’è un dua­lismo irrisolto tra mondo della conoscenza e mondo della morale; l’idealismo risolverà, prima con Fichte e poi con Hegel, tale divaricazione.

2.2.1. Problematiche emergenti: Con Schopenhauer ci si era posti un progetto didattico che pre­ve­deva sia la ricerca della soluzione dell’intreccio tra intenzionalità ed appagamento sia la lettura in chiave di ‘fuga da…’ più che di ‘ricerca di…’; nei testi si erano cercate le risposte; ora, con Kant, ci si potrebbe porre una domanda del tipo: l’uomo si sente appagato o no? Che cosa è questo appagamento? Non è di certo quello che normalmente si intende per felicità ciò che Kant propone; semmai (come dice Fichte) l’uomo evita l’infelicità nell’adeguarsi alla legge, o, come pensano gli utilitaristi, forse non evita neppure quella. Al di sotto ci sta un modello di razionalità che sottopone la battaglia quotidiana dell’uomo ad una normatività da terza persona.

2.2.2. Esemplificazione: Qui si invita il docente a riflettere sui testi da scegliere e da proporre in classe. Si veda come esemplificazione quanto riportato in Appendice.

2.3. Terzo modello di razionalità: Solo quando l’uomo si considera parte di un tutto che lo congloba può parlarsi di fe­licità reale, di felicità vera. Chi coglie questa unità tra soggetto e oggetto è il pensiero che parte­cipa della stessa vita del tutto. ‘Vivere è pensare’ diceva Fichte ed Hegel incalza che è con la filosofia che il percorso verso l’Assoluto si conclude. Mentre in Schopenhauer la ragione mostra all’uomo la sua situazione disperante, perché scopre dietro di lui una Volontà Universale inesorabile, negli idealisti è proprio questo aumento di consapevolezza a far sì che l’uomo, colta la volontà dell’Assoluto, accetti di farne parte, cosciente che il tutto è più importante di ogni singola­rità. Gli idealisti seguono un modello di razionalità che privilegia il tutto (che sia l’Io puro o l’Assoluto non importa) entro il quale ogni singola parte acquista valore; questa ha una sua precisa funzione nella realizzazione del tutto; la felicità con gli idealisti è quindi appagamento consapevole raggiunto nella adesione partecipata a questo tutto.

Più in particolare, in Fichte la virtù non è una disposizione interiore dell’io singolo, ma una attività operante nell’umanità, nell’Io assoluto; la moralità non è propria del singolo ma si realizza comunque nello sforzo di tutti. La felicità è spostata all’interno di un progetto e di un percorso nel quale il non-io deve essere ricondotto, per opera dell’io singolo, all’Io. Quando l’io singolo riuscirà ad armoniz­zare il mondo del non-io, accordandolo alla legge dell’Io puro, allora da questo accordo nascerà la felicità universale, racchiudente in sé sia quella privata sia quella pubblica. Però, come la perfezione non è mai raggiunta dall’io singolo, così neppure la felicità piena è raggiungi­bile; e come non si può parlare di perfezione, ma di perfezionamento, così la felicità piena deve es­sere posta come limite infinito.

Nelle opere giovanili di Hegel troviamo quella integrazione tra uomo e natura che risolve la dualità posta da Kant; il mondo greco rappresenta per lui quella società felice nella quale viene armonicamente posta l’unione uomo-natura. Ma siccome quella unione non era l’espressione consapevole di un processo spirituale, il filosofo, alla ricerca della coscienza felice in opposizione a quella infelice di cui parla nella Fenomenologia, el tentativo di conciliare ogni scissione, proietta la soluzione nell’Assoluto, non in quella unità indifferenziata in cui “tutte le vacche sono nere”, ma in una me­diazione delle differenze operata della dialettica. Proprio nel superamento (sintesi) di ogni duali­smo (tesi-antitesi) si viene a porre la nozione di felicità, nel senso che essa nasce come sintesi di ogni contrasto (tra mondo-uomo, vita-morte, finito-infinito, essere-nulla) nell’Assoluto. Quando l’io singolo, diceva Fichte, riconduce il non-io ad accordarsi con la legge dell’Io puro, allora lì si produce la felicità. Potremmo dire che è la stessa regola che vale per Hegel; sarà nell’operazione di riconoscimento che l’io fa nei confronti dell’Assoluto, trascen­dendo cioè se stesso per riconoscersi parte di quella coscienza assoluta, che il soggetto scoprirà la felicità. Ma il viaggio è lungo e prevede un passaggio dialettico tra felicità privata, felicità pubblica e felicità assoluta.

2.3.1. Problematiche emergenti: le tre succitate tappe: felicità privata, felicità pubblica e felicità as­soluta potrebbero stimolare ad una riflessione più approfondita.

Qualora l’uomo, ancorato a se stesso, non si trascendesse, optando per lo spirito terreno, potrebbe anche crede­re di aver realizzato la sua felicità privata; così facendo avrebbe trovato invece l’infelicità del Faust di Goethe costretto a vivere tra ombre grigie in un insaziabile sforzo di godimento (un po’ ciò che accadrà al don Giovanni di Kierkegaard).

Solo nell’accettazione della propria morte nasce la vita, solo morendo a se stessi e portando in evi­denza ‘l’altro da sé’, l’uomo può scoprire la complementarità dei soggetti; un po’ quello che suc­cede con la dialettica della gemma che deve morire a se stessa per far vivere il fiore, il frutto, la pianta, l’intero. Il singolo, morendo a se stesso, passerebbe da una vita vissuta fra ombre grigie ad una gioia immediata, piena di un vivere sociale. È la scoperta della felicità del cuore del Werter di Goethe o di Karl Moor dei Masnadieri di Schiller.

Ma siccome la legge del cuore dell’uno può non corrispondere a quella dell’altro, può accadere che precipiti all’interno di un vagheggiamento velleitario; è ciò che è successo a don Chisciotte o a Robespierre che hanno mal inteso la sintesi tra Faust e Werter estendendo al di fuori di sé ciò che era individuale concezione di virtù o di felicità privata.

Occorre invece morire a se stessi e non tirar fuori da se stessi il proprio concetto di virtù; occorre morire a se stessi per riconoscersi nelle istituzioni sociali dove si scoprirà la felicità pubblica; è nello Stato che essa si mostra come vera realizzazione di felicità perché quello non è nient’altro che l’incarnazione storica della legge dell’Assoluto.

2.3.2. Esemplificazione: Qui si invita il docente a riflettere sui testi da scegliere e da proporre in classe. Si veda come esemplificazione quanto riportato in Appendice.

2.4. Quarto modello di razionalità: quello dei cosiddetti utilitaristi che non possono essere liquidati tout court come edonisti, ma dei quali occorre sottolineare il modello di razionalità che sorregge il loro discorso; potremmo definirlo come il criterio della massimizzazione (peraltro già espresso da Helvétius e da Beccaria) o per converso della minimizzazione. Applicando questo modello alla nozione di felicità, ne esce che la felicità pubblica è la possibilità di massimizzare il piacere (cioè renderlo fruibile per un numero maggiore di persone). È più sul fronte pubblico che sembrano orientati a discutere Bent­ham, Mill e Sidgwick; è più sull’analisi del piacere goduto sia dal detentore del potere sia dal po­polo che si impegnano a riflettere per cui il principio della massima felicità pubblica diventa più un discorso politico che etico, un discorso di seconda persona più che di terza.

Per Jeremy Bentham, contro ogni senso di obbligatorietà kantiana, la felicità deve esser posta nella ricerca di una convivenza che abbia come movente il piacere e che contemporaneamente porti a ri­fuggire il dolore. Il maggior piacere possibile però può essere ottenuto solo attraverso un calcolo aritmetico poggiantesi su un interesse comune. Bentham ricorre sì al termine virtù, ma questo non deve essere frainteso; egli lo interpreta come la forma di condotta umana più adatta a raggiungere il piacere in modo permanente. È cioè un egoismo regolarizzato che si fonda su di un calcolo dei pia­ceri e dei dolori, dove il confronto tra i diversi piaceri e i diversi dolori ottenuti in un certo e per un certo tempo condizionano le scelte operative. Sono dunque l’intensità del piacere, la sua durata, la certezza del suo raggiungimento, la prossimità del suo accadimento, a governare le scelte dell’uomo; questi canoni richiamano una felicità individuale che non è ancora pubblica. Da queste caratteristiche del piacere, si ricava che nessuno è tenuto ad agire se non riceva un personale interesse da ciò che compie; e qualora agisse nell’interesse degli altri uomini non sarebbe tenuto a farlo per un dovere eteronomo, ma solo in quanto vale anche indiscutibilmente per se stesso; il singolo deve essere capace di in­teriorizzare come suo piacere ciò che vale anche come interesse per gli altri. Quando tra interesse e dovere dovesse nascere un conflitto, l’uomo non è mai chiamato a seguire il secondo contro il primo; è mal posto, a giudizio di Bentham, il discorso che si rivolge alla ricerca di una regola a cui sottomettere tutte le azioni umane; semmai occorre ribaltare i termini, tenendo pre­sente un certo numero di azioni su cui basare una regola di vita: la scelta va fatta in vista della “maggior felicità del maggior numero possibile di persone”. La normatività universale obbligante di terza persona escluderebbe la felicità non solo del singolo ma anche quella di tutti; occorre invece tener presente che lo scopo delle azioni dell’uomo consiste nel ‘massimizzare’ la felicità - unico movente idoneo a fondare ogni azione umana - e lo si potrà attuare attraverso un codice di lettura che riferisce ogni azione alla estensività del pia­cere. Sta proprio nella caratteristica dell’estensione più che su quella della fecondità e della purezza dei piaceri il codice che permette alla felicità individuale di diventare anche felicità sociale o pubblica. Quando l’individuo con un calcolo - che risente più della quantità che della qualità - presup­pone che una certa azione produca piacere ad un numero massimo di persone, ebbene, ha applicato il codice della estensione, codice che, filantropo quale Bentham era, diventava fondante di un discorso etico. Massimizzare la felicità e minimizzare l’infelicità è la regola del corretto vivere sociale che giustifica addirittura la coercizione per chi a questo modello di razionalità non si sottomette; per di più da notare è che, in senso giuridico, senza di essa, la legge non avrebbe senso. Coercizione e felicità, due poli contrapposti nella ricerca della vivibilità sociale. Ma una attenzione bisogna porre, che detta coercizione, per quanto necessaria, sia ridotta a quel limite che giustifi­chi il maggior utile possibile per il maggior numero di persone; è dunque una coercizione che non ha nulla a che vedere con il volere del sovrano (pensiamo ad Hobbes) o con la intransigenza di una norma assoluta (pensiamo a Kant), ma che esiste solo come luce riflessa della massima felicità del massimo numero di persone; è ancora una volta il calcolo a determinare l’esistenza o meno di un certo comportamento. Non si tratta dunque di ‘diritti naturali’ circa la libertà dell’individuo da qualsiasi costrizione; i diritti naturali non esistono; la libertà è una situa­zione di fatto, è una condizione di cui l’individuo non costretto gode.

La felicità è posta nel piacere anche da John Stuart Mill; egli però sottolinea che il godimento non deve essere considerato solo dal punto di vista quantitativo, come sembrerebbe dal discorso di Bentham, ma soprattutto dal punto di vista qualitativo. Il problema che nasce è come si possa a que­sto punto determinare quale tra i vari piaceri, diversi tra di loro per qualità (si pensi alla differenza tra un piacere estetico nascente di fronte ad un quadro di Henri Rousseau ed uno sessuale sprigionantesi di fronte ad una bella e formosa giovane bionda). Sovrano a decidere sulla gerarchia dei piaceri è l’individuo con un suo punto di vista che non esclude però quello degli altri; infatti, una volta sorto un conflitto tra interesse individuale e interesse generale, è quest’ultimo a dover essere tenuto in massima considerazione. Mill di fronte a questa difficoltà propone addirittura di seguire una tecnica in grado di risolvere possibili conflitti: è il dibattito pubblico intorno alla forma di pia­cere messa in discussione che deve giungere ad una approvazione o ad una disapprovazione di quelli che possono essere ritenuti sapienti (sapienti s’intende circa quel determinato piacere preso in esame). Al calcolo, dunque, Mill sostituisce la libertà della decisione.

Con Henry Sidgwick si chiude il ciclo con il tentativo di conciliare l’utilità, o felicità individuale, con l’interesse sociale, o felicità universale. È la felicità pubblica che presenta una carica maggiore, un criterio più forte in grado di risolvere ogni conflitto. Felicità privata e felicità pubblica sono diverse ed a volte opposte; quando vengono in contrasto tra loro potrebbero addirittura creare una conflittualità irridu­cibile; solo ammettendo una sanzione religiosa il contrasto potrebbe essere risolto; ma questa san­zione religiosa non può essere data perché è un a priori che fa ricadere in una morale del do­vere. E questo vale anche per il principio di massimizzazione e per qualsiasi altro principio che venga preso come punto di riferimento per la scelta operativa dell’uomo. C’è dunque nella decisione di conciliazione tra privato e pubblico una contraddizione che non viene sanata se non con l’assunzione, più o meno legittima, di un presupposto più o meno legittimo. Per Sidgwick dunque, siccome il benessere sociale è superiore a quello privato, occorre tendere a quello cercandolo inten­samente; la difficoltà sta però nel riconoscere quale sia questo benessere.

2.4.1. Problematiche emergenti: La ricerca contemporanea intorno alla felicità pubblica si è in­cen­trata soprattutto intorno al ‘soggetto utilitario’ risolvendo ogni problema con questa chiave di lettura. Ecco dove possiamo collocare, dunque, le questioni sollevate dagli utilitaristi che non inten­dono affrontare tanto un discorso etico quanto un’ampia riflessione sul primo dispiegarsi dei rap­porti sociali (a meno che non si dia per scontato il radicamento della morale nel terreno di ogni esperienza umana). Invece di intenderlo come discorso etico, forse più consono sarebbe interpretarlo come riflessione antropologica intorno alla possibilità di convivenza, discorso che traduce meglio il concetto antico di eudaimonia più che di edonè. Infatti le soluzioni proposte da questi filosofi non trasfor­mano l’agire umano in una specie di tecnologia psichica funzionale alla produzione di stati di pia­cere individuale, il che si tradurrebbe in edonè, quanto in una ricerca del massimo adeguamento al criterio di vivibilità comune. Il piacere di cui parlano Bentham, Mill e Sidgwick sembra essere al­lora più il risultato di un’azione che il fine che dirige l’agire.

Il problema che nasce quando si pensa al raggiungimento della felicità massimizzata è quello della conciliazione con la felicità del soggetto; è dunque il problema fondamentale del rapporto tra feli­cità pubblica e felicità privata. La risposta che si ricava da Bentham, Mill e Sidgwick potrebbe es­sere che l’utilitarismo egoistico quando fosse razionalmente illuminato diventerebbe esso stesso utilitarismo sociale. Occorrerebbe unire l’interesse del soggetto a quello degli altri, quasi che utilità sociale e utilità individuale andassero di pari passo. L’accordo alla luce della ragione, o meglio della ragionevolezza, introdurrebbe una normatività che consiglierebbe il singolo ad agire; norma sì, ma fondata su un calcolo aritmetico dove è più conveniente rinunciare all’attrattiva di una conquista immediata in vista del conseguimento di un vantaggio più grande futuro. In questo modo il soggetto raggiunge­rebbe la propria felicità in quanto proietterebbe nel futuro la conquista di un bene maggiore; l’accordo razionale con gli altri porterebbe così il singolo a collaborare per raggiungere la sua felicità e quindi anche quella degli altri. La ragione, infatti, mostrerebbe che per conseguire la propria individuale felicità è meglio accordarsi sui servigi che vengono ad essere scambiati dalla collettività che non sul van­taggio immediato di un qualsiasi possesso; tutti, in definitiva, ne avrebbero da guadagnare.

2.4.2. Esemplificazione: Qui si invita il docente a riflettere sui testi da scegliere e da proporre in classe. Si veda come esemplificazione quanto riportato in Appendice.

3. Ulteriori spunti didattici complessivi: La felicità pubblica e la felicità privata non sempre stanno in un rapporto armonico; spesso tra l’appagamento del soggetto e quello degli altri vi è una contraddizione, la morte del primo può significare la vita degli altri. Ed ecco nascere allora la ri­cerca del fondamento dell’azione umana. Intorno a questa ricerca due sono i fronti: quello eudemo­nistico e quello universalistico; il primo fonda l’azione su codici di comportamento che tengono conto del bene degli altri, senza annullare l’interesse personale, il secondo fonda l’azione sul dovere e cioè sul fatto che l’individuo deve volere la stessa cosa che riconoscerebbe buona se tutti la desi­derassero. Nel primo caso siamo all’interno del discorso utilitaristico di Bentham, Mill e Sidgwick dove l’azione dell’uomo va regolata secondo regole ipotetiche di prudenza, nel secondo dentro a quello kantiano del dovere dove l’azione dell’uomo va regolata secondo una normatività obbligante, da una parte ci sta l’ottimizzazione dei rapporti, dall’altra un comando categorico. Ancora, nel primo caso l’azione è consigliata in quanto nasce da rapporti, per così dire, interessati, generati dalla tensione dell’individuo verso il raggiungimento della sua felicità, nel secondo l’azione non viene consigliata dalla tensione verso una maggiore felicità del soggetto, ma è pretesa come risposta di ogni essere razionale ad un comando universale. Consiglio e comando sono su due piani decisa­mente diversi. Si possono allora far nascere alcune domande sulle quali programmare degli inter­venti didattici finali di revisione del percorso:

Perché bisogna cercare la felicità pubblica? individuo e comunità hanno la stessa natura? in quale senso è corretto parlare di felicità pubblica nello stesso senso di felicità privata? la felicità è un imperativo morale? è esso interno all’individuo o è mutuato dall’ambiente?

 

Per una riflessione sul tema si può affrontare la lettura di alcuni testi, quali:

M. Schlick, Problemi di etica e aforismi, Patron, Bologna 1970;

E. Oppenheim, Etica e filosofia politica, Il mulino, Bologna 1971;

C. A. Viano, Etica, Isedi, Milano 1975;

K. O. Apel, Comunità e comunicazione, Rosemberg & Sellier, Torino 1977;

W. K. Frankena, Etica, Ed. comunità, Milano 1981;

R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Le Monnier, Firenze 1981;

J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982;

U. Scarpelli, L’etica senza verità, Il Mulino, Bologna 1982;

J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985;

P. Singer, Etica pratica, Liguori, Napoli 1989;

I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989;

L. Bonante, Etica e politica internazionale, Einaudi, Torino 1992.

Appendice:

2.1.2. Esemplificazione: Facciamo un esempio di come si può lavorare, a partire dai documenti testuali (tratti dal volume A. Girotti, La filosofia di Schopenhauer, Polaris, Faenza 1998); fra parentesi ho riportato alcuni stimoli di riflessione circa le problematiche emergenti che ho precedentemente mosso, ma che sono solo alcune che non ne escludono altre:

Questo corpo è, per il puro soggetto conoscente, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra altri og­getti: le sue attività, le sue manifestazioni non sono da esso conosciute in modo diverso da come sono conosciute le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuìti. […] Al soggetto conoscente, che si presenta come individuo, è data la parola del­l’enigma; e questa parola è volontà. Questa, e solo questa […] gli manifesta la struttura interna del suo essere, del suo agire, dei suoi mutamenti. Al soggetto della conoscenza […] questo corpo è dato in due modi molto diversi: è dato sia come rappresentazione, nell’intuizione dell’intelletto, sia come oggetto fra gli oggetti, e perciò sottomesso alle leggi di questi; ma nello stesso tempo è dato anche in modo del tutto diverso, cioè come […] volontà. Ogni concreto atto di volontà è necessariamente e inevitabilmente anche un movimento del suo corpo: egli non può volere seriamente il suo atto senza accorgersi, nello stesso tempo, che esso si manifesta anche come movimento del corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo […] non stanno tra loro nel rapporto di causa ed effetto, ma sono un tutto unico […], l’azione del corpo non è altro che l’atto del volere oggettivato. Il mondo […] , II § 18 (trad. G. Coppola). (L’uomo, cioè, reagisce non subordinato ad un processo mec­canicistico retto da causa-effetto, ma retto da un atto del volere [‘libero’?])

È evidente che la volontà, in tutti i gradi della sua manifestazione, dai più bassi ai più alti, è completamente priva di un fine ultimo e anche di un disegno: essa desidera costantemente, perché la sua essenza è desiderare, e nessun fine raggiunto dà pace a questo agognare. Essa dunque non è appagata mai in modo definitivo e può essere bloccata solo da una coercizione, (l’intenzionalità sopravanza lo stato di appagamento) ma in sé si sviluppa all’infinito. (Qui incominciano esempi e metafore a sostegno della sua tesi) Lo abbiamo con­statato nel più semplice di tutti i fenomeni naturali, nella gravità; nel suo tendere non ha pausa e non smette di puntare verso un punto centrale senza estensione, il cui raggiungimento realizzerebbe il suo annientamento totale e, quindi, quello della materia; essa non tralascerebbe il suo compito, nemmeno se l’universo fosse tutto concentrato in una sfera densa. Vediamo questo fatto anche negli altri fenomeni semplici della natura: il solido, sia che diventi fluido sia che evapori, tende alla instabilità, dove si liberano tutte le forze chimiche: la solidità infatti co­stituisce per loro una prigione dove esse restano chiuse. Il liquido tende allo stato gassoso nel quale si trasforma non appena si libera da ogni ostacolo. Nessun corpo è senza somiglianza, cioè tutti hanno un loro tendere o, come direbbe Jacob Boehme, un loro desiderio e una loro brama. L’elettricità propaga all’infinito il suo interno dissidio, e la massa terrestre ne assorbe l’effetto. Così il galvanismo è, finché funziona la pila, un atto senza scopo di separazione e di riavvicinamento che si riproduce ininterrottamente. Proprio un tale tendere perenne, mai appagato, è la vita della pianta, un incessante evolversi, attraverso sempre nuove forme, finché il punto ul­timo, il seme, diventi a sua volta il principio. E questo si ripete al­l’infinito: (l’intenzionalità sopravanza lo stato di appagamento) mai un termine, mai una soddisfazione definitiva, mai una sosta. Il mondo […] , IV § 56 (trad. G. Coppola).

La volontà domina l’uo­mo e ne determina le azioni; allo stesso modo essa regola tutti gli altri aspetti della realtà, piante, animali, cose; c’è un comune denominatore che sovrintende a tutti i fenomeni naturali. Dice De Sanctis:

A: Cioè a dire, che se la pietra cade, gli è che vuol cadere?

D: Certamente.

A: E s’io ti gittassi dalla finestra, vorresti andar giù a fracassarti il cranio?

D: Io sono un essere complesso. Il mio corpo vorrebbe, perché sottoposto anche lui alla legge di gravità.

A: Avevo creduto finora che nella vita inorganica il movimento venga dal di fuori; e che se, per esem­pio, la pietra cade, gli è perché io gli do la spinta…

D: Non solo, ma perché ella è pietra e non uccello. Cade perché la sua natura porta così; e in questo senso diciamo che vuol cadere. (un concetto di libertà diverso da come la si interpreta normalmente)

(F. De Sanctis, Schop. e Leopardi, in Saggi critici, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1958, pp. 136-137)

(Questo concetto di libertà lo si trova anche nelle azioni dell’uomo) Se osserviamo con occhio in­dagatore tutti questi fenome­ni, se scorgiamo la furia travolgente e irrefrenabile con cui le acque si gettano nelle voragini, l’insistenza con cui la calamita si rivolge sempre al polo nord, la forza con cui il ferro viene da lei at­tratto, l’irruenza con cui i poli elettrici tendono a ricongiungersi, e che aumenta quando si cerca di frenarla, pro­prio come accade con i desideri umani; se osserviamo la velocità con cui si forma un cristallo e l’ordine della sua forma che è il risultato di una ben marcata e distinta tensione in varie direzioni, fermata e bloccata da un brusco indurimento; se riflettiamo alla separazione con cui i corpi, liberati dai legami della solidità e sciolti in uno stato fluido, si cercano o si separano, si congiungono o si dividono; se infine spe­rimentiamo su di noi quanto sia grande la pressione sulle nostre spalle di un peso, impedito dal nostro corpo che si oppone alla realizzazione del­l’unica sua aspirazione; allora non dovremo fare un eccessivo sforzo d’im­ma­gi­na­zione per identificare anche qui, sebbene a così gran distanza, la nostra propria essenza; quell’identica essenza che in noi insegue i fini alla luce della conoscenza, ma che qui, nelle sue più basse mani­festazioni, non manifesta che impulsi ciechi, sordi, par­ziali e immutabili. Il mondo […] II § 23 (trad. G. Coppola).

Ricorda De Sanctis:

D: Dun­que guarda un po’ intorno, e dimmi se non trovi dappertutto il Wille. In un mondo dove tutto è fenomeno, è lui il vero reale che dà alle cose la forza di esistere e di operare. E non solo gli atti vo­lontari degli animali, ma l’intero organismo, la sua forma e condizione, la vegetazione delle piante, e nel regno inorganico la cristallizzazione, ed insomma ciascuna forza primitiva che si manifesta ne’ fe­nomeni chimici e fisici, la stessa gravità, considerata in sé e fuori dal­l’apparenza è identica con quel volere che troviamo in noi stessi. Egli è vero che negli animali il volere è posto in moto da’ motivi, nella vita organica del­l’animale e della pianta dallo stimolo, nella vita inorganica da semplici cause (motivi-stimoli-cause sono i tre termini ripresi direttamente dalle parole di Schopen­hauer mentre spiega il perché il mondo agisce) nel senso stretto della parola; ma questa dif­ferenza riguarda il fenomeno, lascia intatto il Wille; […] nella vita vegetale e inorganica non c’è vesti­gio d’intelletto; e perciò non è il volere condizionato alla conoscenza come tutti sostengono, ma la co­noscenza è condizionata al volere, come sostiene Schopenhauer. (pp. 133-134)

D: Il Wille desidera di vivere, corre sempre alla vita; la vita è il suo eterno presente. E vivere significa abbandonarsi alla satisfazione di tutt’i desiderii ed i bisogni (la nozione di felicità?). Dapprima opera come cieco stimolo, senza conoscenza, e dice: «Voglio vivere». Poi si dà un cervello dotato d’intelletto, riconosce sé stesso nel­l’immagine cosmica, e dice ancora: «Voglio vivere». Nel­l’uo­mo si dà non solo un intelletto, come negli animali, ma una ragione; e dice sempre: «Voglio vivere». […] Si è costruito un cervello più artificioso, sì che l’intelletto è più acuto e rapido, e vi ha aggiunta la ra­gione, […] perché l’intelletto provvede solo al presente; laddove la ragione, facoltà dei concetti, astrae, generalizza, coordina, subordina, lega il presente al passato e predice l’av­ve­ni­re. Armato di queste due arme potentissime il Wille sotto forma d’uomo s’abbandona al piacere di vivere; ed è qui la fonte della sua infelicità: perché di desiderio pullula desiderio, bisogno genera bisogno, e non ci è verso che si appaghi e vive agitato. (ancora una volta l’intenzionalità sopravanza l’appagamento).(p. 154)

La vita per la maggior parte degli esseri è una continua lotta per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa resistere in questa così tormentata guerra non è tanto l’a­more per la vita, quanto la paura della morte, la quale ciononostante resta ineluttabile nello sfondo, e può sopraggiungere in ogni momento. La stessa vita è un mare pieno di scogli e di gorghi che l’uo­mo cerca di schivare (è un togliersi) con la massima rifles­sione e il massimo impegno, pur sapendo che, anche se con ogni impegno e metodo gli riesce di uscirne indenne, ugualmente con ogni suo passo si avvicina, ed anzi vi rivolge in linea retta il timone, al naufragio totale, certo e inevitabile: alla morte. Questa è la conclusione finale del faticoso viaggio della vita, per lui peggiore di tutti gli scogli, ai quali è scampato. Il mondo […] IV § 57 (trad. G. Coppola).

Ogni grado del­l’og­gettivazione della volontà cerca di sottrarre al­l’altro la materia, lo spazio, il tempo. Senza tre­gua la materia immutabile è costretta a cambiare la sua forma, mentre […] i fenomeni meccanici, fisici, chimici, organici, affaticandosi con smania per venire alla luce, si strappano a vicenda la materia perché ognuno desidera attuare la sua volontà. […] Questa lotta universale raggiunge la sua più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio cibo il mondo delle piante; inoltre poi ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro, ossia cede al­l’altro la sua materia. […] In questo modo la volontà di vivere divora incessantemente se stessa, e in di­versi aspetti si nutre di sé, finché, alla fine, la specie umana, avendo trionfato su tutte le altre, considera la natura come una cosa creata a proprio uso e consumo; per di più questa stessa stirpe umana manifesta alla fine con tra­gica evidenza quella lotta che la fa diventare homo homini lupus. Il mondo […] II, § 27 (trad. G. Coppola).

Ogni essere è costretto ad agognare senza termine, questa è la sua condanna nella quale non avrà fine il suo soffrire.

Da tempo abbiamo conosciuto questo fine che costituisce l’in-sé di ogni cosa, identico e tut­t’uno con ciò che in noi si chiama volontà, la quale si manifesta con maggior chiarezza nel­l’uo­mo alla luce della più piena coscienza. E così chiamiamo dolore il freno costituito da un ostacolo che si frappone tra lei e un suo obiettivo; al contrario chiamiamo appagamento, benessere, felicità il conseguimento di questo obiettivo. Tali appellativi (appagamento, benessere, felicità) si possono riferire agli stessi fenomeni di quel mondo che è privo di conoscenza, più deboli di grado, ma identici per quanto concerne l’es­senza. Li vedremo anch’essi presi da costante soffrire, senza che pos­sano avere stabile felicità. Ogni aspirare proviene infatti da un bisogno, da una insoddisfazione del proprio stato e si manifesta come dolore finché tale aspirazione non sia stata appagata; ma nessun appagamento è dura­turo(intenzionalità), anzi esso non è che il principio di una nuova mira. Noi riscontriamo in ogni dove la pre­senza della volontà, compressa nelle varie forme, continuamente in battaglia e quindi sempre produttrice di sof­ferenza. Non ha termine l’aspirare e così non ha limite e compimento il soffrire. (Molto più l’uomo degli altri esseri:) Ma ciò che scopriamo nella natura priva di conoscenza con fatica e con una acuta attenzione, ci appare nitido nella natura consapevole, nella vita animale, nella quale il perenne soffrire è facilmente visibile. Ma senza che ci soffermiamo in questo grado intermedio, guardiamo là, nella vita del­l’uo­mo dove il soffrire si manifesta tutto chiaramente, rischiarato dalla più luminosa conoscenza. Infatti tanto più il fenomeno della vo­lontà diventa perfetto, tanto più il dolore diventa manifesto. Nella pianta non c’è ancora la sensibilità e quindi il dolore; negli animali intimi, infusori e radiolari, è certamente implicito un tenue grado di sofferenza; anche negli insetti la capacità di sentire e di soffrire è ancora circoscritta; solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati essa si presenta in alto grado, tanto più alto quanto più è sviluppata l’intelligenza. Dun­que nella stessa misura in cui la conoscenza giunge alla chiarezza, e la coscienza si eleva, nella stessa misura cresce anche il tormento, che rag­giunge perciò il massimo grado nel­l’uo­mo; ed è tanto più elevato quanto più l’uo­mo è intelligente e quanto più conosce chiaramente le cose. Soffre più di tutti dun­que colui nel quale vive il genio. Il mondo […] IV § 56 (trad. G. Coppola).

Già abbiamo considerato che la natura priva di conoscenza ha come sua intima essenza un continuo desiderare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci appare questa aspirazione se consideriamo l’animale e l’uo­mo. Vo­lere e desiderare è la loro essenza, completamente simile a un’inesauribile sete. La base di ogni volere è neces­sità, mancanza, cioè dolore, al quale l’uo­mo è legato per natura fin dalla sua nascita. Quando gli vengono a man­care gli oggetti del desiderio o quando quest’ultimo gli è cancellato da un troppo facile appagamento, un terri­bile vuoto e una noia lo spossano: la sua na­tura e il suo stesso essere lo opprimono con un peso insopportabile. La sua vita oscilla quindi come un pendolo che va ora di qua ora di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi. […] E qui si presenta subito in modo notevole una situazione: da un lato i dolori e i supplizi del­l’e­sistenza si affastellano in modo tale che diventa desiderabile la stessa morte (nella cui fuga consi­ste l’intera vita) mentre impulsivamente le si corre incontro; dal­l’altro lato, non appena il bisogno e il dolore ac­cordano al­l’uo­mo una pausa, subentra la noia tanto che l’uo­mo sente la necessità di una distrazione. È la fatica per l’esistenza che prende possesso di tutti i viventi e li tiene in movimento. Ma una volta che si sono assicurati l’esistenza, non sanno più che cosa fare e così interviene una seconda motivazione a sollecitarli: è lo sforzo di alleggerirsi dal peso del­l’es­sere, di renderlo inavvertibile, di sfuggire alla noia, di ‘ammazzare il tempo’(è un togliersi). E così vediamo che quasi tutti gli uomini che si siano messi al riparo dai bisogni e dalle preoccupa­zioni, quando abbiano rimosso da sé tutti gli altri pesi, alla fine si trovano esser loro di peso a se stessi e riten­gono tanto di guadagnato ogni ora che passa, cioè ogni sottrazione fatta a quella vita, per conservare la quale il più a lungo possibile avevano fino allora spese tutte le forze. E la noia è tutt’altro che un male di poco conto per­ché finisce col lasciare sul volto il segno della vera dispera­zione. […] Gli incessanti sforzi di allontanare il do­lore non servono che ad alterarne l’aspetto. Questo dapprima si presenta come man­canza, bisogno, affanno in vi­sta della conservazione della vita, poi, quando il dolore sia stato scacciato in questa sua forma, il che è assai dif­ficile, ecco che immediatamente si ripre­senta in mille altri modi, variando a seconda del­l’età e delle situazioni, prima come istinto sessuale, poi come intenso amore, come gelosia, rivalità, odio, terrore, smania, cupidigia, in­validità, ecc. E se alla fine non riesce a manifestarsi in nessun’altra forma, allora giunge sotto forma di malin­co­nia, fosca copertura del­l’insofferenza e della noia, contro cui si cercano svariati rimedi. Se poi alla fine si riesce a scacciare anche questo, sarà difficile che non si riapra la strada al dolore in una delle precedenti forme, ri­comin­ciando così il ballo dal­l’inizio; perciò tra dolore e noia si consuma ogni vita umana. Il mondo […] IV § 57 (trad. G. Coppola).

Dice De Sanctis:

D: Il Wille è cieco non perché sia propriamente un asino, ma perché non si può dire che pensi e rifletta; opera senza coscienza. […] Per il Wille la vita è un peccato; maledetto il momento che dice: «Io vo­glio vivere!». Vivendo cessa di esser libero, s’im­prigiona nello spazio e nel tempo, entra nella catena delle cause e degli effetti, diviene un individuo, si condanna al dolore ed alla miseria, scendendo con le proprie gambe in questa valle di lagrime (come Empedocle ed il Salve Regina chiamano il mondo).

A: E perché mo’ tutto questo?

D: Perché il Wille come infinito non può appagare se stesso sotto questa o quella forma, dove trova sempre un limite. Prendere dun­que una forma è la sua infelicità; il suo peccato, la miseria è nel dire: «Io voglio vivere!».

A: Farebbe dun­que meglio a dire: «Io voglio morire». (è un togliersi)

D: Certamente. La morte è la fine del male e del dolore, è il Wille che ritorna a se stesso, eternamente libero e felice. Vivere per soffrire è la più grande delle asinità.

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

La vita è un fenomeno, un’apparenza, pluvis et umbra, vanità delle vanità; dove non c’è altro di reale che il dolore; e se ne togli il dolore, rimane la noia.

A: Mi pare che ti sii distratto; e che da Schopenhauer sii caduto in Leopardi.

D: Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così e non sapeva il perché.

Arcano è tutto

Forché il nostro dolor.

Il perché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille.

A: Forseché Leopardi non ti parla di un “brutto poter, che ascoso a comun danno impera”, e forse non gli appicca subito dopo “l’infinita vanità del tutto”? Mi par che questo sia propriamente il Wille, gia­cente sotto tutta quella serie di vane apparenze che dicesi mondo. (pp. 138-139)

Disse un giorno Schopenhauer: “i tre più grandi pessimisti che siano mai esistiti a questo mondo, Schopenhauer, Leo­pardi e Byron, si sono trovati in Italia nello stesso anno, 1818, e non si sono conosciuti”.

Il presente si dilegua in ogni momento dalle sue mani facendosi passato: il futuro è assolutamente incerto e sem­pre di lunghezza limitata. Dun­que l’esistenza umana, anche se osservata esclusivamente sotto l’aspetto interno, è un perenne cadere del presente nel passato privo di vita, un perenne morire. Ma ora l’esistenza umana guardia­mola anche sotto l’a­spet­to fisico; come il nostro procedere non è nient’altro che un costante trattenuto cadere, così la vita del nostro corpo è un costante trattenuto morire, una morte sempre differita: e per concludere, nella stessa maniera l’attività del nostro spirito è un costante tentativo di allontanamento della noia(è un togliersi). Ciascun respiro sposta la morte che sempre è presente, che siamo costretti a contrastare in ogni istante; la com­battiamo, così, con ciascun pasto, ciascun riposo, ciascun riscaldamento, e via di seguito. Alla fine la morte vin­cerà perché siamo sua proprietà già per il fatto che siamo nati, ed essa gioca un certo tempo con la sua preda prima di ghermirla. Nel frattempo conduciamo la nostra vita con grande premura e gran sollecitudine, fino a che ciò ci è possibile, come fa la bolla di sapone che si dilata più a lungo e con più volume che può, pur essendo ben conscia che prima o poi scoppierà. Già abbiamo considerato come la natura priva di conoscenza anch’essa, per sua intima costituzione, continuamente desideri, senza scopo e senza riposo; se consideriamo l’animale e l’uo­mo ben più evidente ci appare questa aspirazione. […] L’uo­mo, che è la più accurata oggettivazione di quella vo­lontà, conseguentemente è anche il più disagiato di tutti gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, una mancanza resa visibile, è la concretizzazione di mille bisogni. Con questi bisogni egli sta sulla terra, lasciato solo con se stesso, incerto di tutto tranne che della propria mancanza e delle proprie necessità; e per di più, fra tante esigenze così difficili che ogni giorno rinnovano l’ansia per la conservazione della sua esistenza, quest’ansia riempie re­golarmente tutta la vita umana. A ciò si collega poi la seconda prepotente smania, quella di continuare la specie e per di più da ogni parte i più svariati pericoli minacciano l’uo­mo, per sfuggire ai quali occorre una vigilanza at­tenta. […] Tra il volere e la conquista passa dun­que intera ogni vita umana. Il desiderio, per sua natura, è dolore: la conquista produce ben presto sazietà: il traguardo era solo illusorio: il suo possesso diluisce la sua seduzione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, come dolore (desiderare e ricercare la felicità è cadere nel dolore; non ricerchiamola, quindi, ma togliamoci dal dolore, dalla noia): in caso contrario, lo se­gue il disagio esistenziale, il vuoto, la noia, contro i quali la battaglia è altrettanto dolorosa quanto contro il desi­derio nato dalla mancanza. […] Per quanto deprimente sia questa considerazione, voglio tuttavia porre l’attenzione su di una angolazione, dalla quale si può ricavare consolazione, o forse addirittura ricavare una stoica indifferenza per il proprio male (proposta). Infatti la nostra insofferenza per il dolore deriva grande­mente dal fatto che lo riteniamo accaduto per accidente, derivato da una catena di cause, che potrebbero anche concludersi diversamente. Per il male necessario e comune a tutti non siamo soliti rattristarci, come è per esem­pio la inevitabilità della vecchiaia e della morte e di molte altre difficoltà quotidiane. È invece l’ac­cidentalità delle circostanze che ci hanno prodotto un dolore che ci assilla. Se al contrario riusciamo a capire che il dolore come tale è collegato inseparabilmente con ogni manifestazione della vita, o che è inevitabile e che se non ci fosse quello di cui ci lamentiamo, immediatamente un altro subentrerebbe; allora una tale riflessione potrebbe, come fossimo convincimento vivente, portare con sé un notevole grado di stoica imperturbabilità, e potrebbe al­lora diminuire l’inquietante agitazione che abbiamo per il nostro bene. Ma in realtà una così energico governo della ragione sopra il dolore che direttamente sentiamo, la si trova raramente, o meglio, mai. Il mondo […] IV, 57 (trad. G. Coppola).

Prendiamo di quest’ultimo brano la parte centrale e facciamo lavorare gli studenti attraverso una lettura che rivada al loro mondo per ricavarne esempi retti dal modello di razionalità schopenhaue­riano:

Tra il volere e la conquista passa dun­que intera ogni vita umana. Il desiderio, per sua natura, è dolore: la conqui­sta produce ben presto sazietà: il traguardo era solo illusorio: il suo possesso diluisce la sua seduzione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, come dolore”.

Che cosa voleva dire il filosofo con questa pessimistica visione della vita dove sembra scomparire ogni possibilità di recupero? Suddividiamo il pensiero globale in singoli passaggi e riflettiamo in termini di quotidianità:

Tra il volere e la conquista passa intera ogni vita umana.

Da una parte c’è un uomo che desidera (espressione del mondo come volontà), dal­l’altra c’è la meta da conseguire; è il nostro vivere quotidiano che scorre tra il desiderio e l’appagamento del desiderio, siano essi di ordine materiale (una moto, una bicicletta, un film, ecc…), siano essi di ordine morale (un miglioramento, una conquista spirituale, ecc…). Ma che cosa succede?

Il desiderio, per sua natura, è dolore.

Il desiderio si trasforma in dolore perché la strada per il conseguimento di un fine è lastricata di sassi appuntiti: “vuoi il motorino?” “studia!”; e studiare non è giocare, è spesso soffrire, scontrarsi con le difficoltà, è, in una parola, sofferenza. E dopo aver conseguito questo fine, attraverso una strada irta di difficoltà che cosa succede?

La conquista produce ben presto sazietà.

L’appagamento è momentaneo, la gioia è solo di pochi attimi perché ben presto ci abituiamo a quella novità, che, col passare del tempo, diventa usuale; perciò, sazi di questa novità, ci poniamo un’altra tappa (non più il motorino, ma la moto di grossa cilindrata, poi l’auto, magari piccola, poi la fuoriserie…); non desideriamo più la meta rag­giunta, proprio perché è già in nostro possesso; ne desideriamo altre.

Il traguardo era solo illusorio: il suo possesso diluisce la sua seduzione.

La meta era apparente; la si credeva importante, fondamentale; ma che cosa abbiamo ottenuto? Una gioia momenta­nea e poco profonda perché altre mete più importanti si accavallano così quella appena conquistata viene a svalutarsi agli occhi di noi gente appagata; era l’attrattiva della meta che ci teneva desti, attivi, pronti a lottare; ora che l’abbiamo in pugno ci sembra meno importante, anzi diventa decisamente poco significativa rispetto a ciò che an­cora ci manca. Ecco allora che:

In una nuova forma si ripresenta il desiderio, come dolore.

Se rivediamo la nostra corsa sotto un’altra ottica, con un altro paio d’occhiali, ci accorgiamo che abbiamo lottato, sacrificato, sofferto; per che cosa? Per un fine che non ci appaga totalmente; dun­que il desiderio che ci stimolava nella conquista di una meta non è altro che falsità, è gioia apparente, anzi è rinnovato dolore.

2. Sta a te ora provarti con un’altra frase………….

2.2.2. Esemplificazione: Riporto alcuni documenti testuali di Kant (tratti dal volume R. Di Chio, Antologia di testi filosofici, Bulgarini, Firenze 1981) dai quali partire per ricavare quanto esposto nel progetto di percorso; le sottolineature dovrebbero essere utili allo scopo:

Vediamo ora che cosa dice Kant:

Essere felice è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale ma finito, e perciò un motivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare. Infatti, la contentezza della propria intera esistenza non è già un possesso originario e una beatitudine che supporrebbe una coscienza di autosufficienza e indipendenza, ma un problema che a questo essere è imposto mediante la sua stessa natura finita; perché esso ha dei bisogni, e questi bisogni riguar­dano la materia della sua facoltà di desiderare, cioè qualcosa che si riferisce a un sentimento di piacere o dispiacere, che è di base soggettiva, e così è determinato ciò di cui esso abbisogna per la contentezza del suo stato. […] Quello in cui ciascuno debba riporre la sua felicità dipende dal suo senti­mento particolare di piacere o dispiacere e, anche in un solo e medesimo sog­getto, dalla diversità dei bisogni, che seguono le variazioni di questo sentimento.

(Kant, Critica della Ragion pratica, Bari, Laterza, 1. I, c. I)

Assicurare la propria felicità è un dovere - almeno indiretto - perché il non esser contento del proprio stato, il dover vivere oppresso da numerosi affanni, tormentato da bisogni non soddisfatti, potrebbe diventare facilmente una tentazione di trascurare i propri doveri.

(Kant, Fondazione …, op. cit. p. I)

Il concetto della felicità è un concetto così indeterminato che, malgrado il desiderio di ogni uomo d’essere felice, nessuno è una buona volta in grado di dire in termini precisi e coerenti ciò che veramente egli desideri e voglia. La ragione di ciò è che gli elementi che fanno parte del concetto di felicità sono tutti quanti empirici, vale a dire essi debbono esser derivati dall’espe­rienza, laddove per l’idea della felicità si richiede un tutto assoluto, un mas­simo di benessere nel mio stato presente e in ogni mia condizione futura. Ora è impossibile che un essere anche immensamente perspicace e nello stesso tempo potentissimo, ma finito, si faccia un concetto determinato di ciò che egli vuole qui veramente. Vuole egli la ricchezza? Ma quante preoc­cupazioni, invidie, insidie potrebbe egli con questa attirare sul suo capo! Vuole egli maggiori conoscenze e cognizioni? Forse ciò non gli procurerebbe che un occhio molto più penetrante e perspicace per rivelargli in modo assai più terribile i mali che per ora gli sono stati nascosti e che d’altronde non si possono evitare, oppure aumenterebbe ancora di altri desideri la somma dei suoi bisogni, che gli costa di già tanta fatica a soddisfare. Vuole egli una lunga vita? e chi gli assicura che non sarebbe una lunga sofferenza? Vuole almeno la salute? Ma quante volte l’indisposizione del corpo ha impedito eccessi in cui l’avrebbe fatto cadere una salute perfetta; e così di seguito. Insomma, egli è incapace di determinare con completa certezza, secondo qualche principio, ciò che lo renderebbe veramente felice: per poter far que­sto gli sarebbe indispensabile l’onniscienza. Non si può dunque agire, per esser felice, secondo principi determinati, ma soltanto secondo consigli empi­rici che raccomandano, per esempio, un regime dietetico, il risparmio, la gen­tilezza, la riservatezza ecc., tutte cose che, secondo gli insegnamenti dell’espe­rienza, contribuiscono in genere massimamente al benessere. Da ciò deriva che gli imperativi della prudenza, per parlare esattamente, non possono coman­dare nulla, cioè non possono rappresentare azioni in modo oggettivo come praticamente necessarie, ma che bisogna considerarli piuttosto come consigli (consilia), che non come comandi (praecepta) della ragione; che il problema consistente nel determinare in modo certo e generale quali azioni possano favorire la felicità di un essere ragionevole, è un problema affatto insolubile, e in conseguenza, riguardo a ciò, non è possibile alcun imperativo che possa comandare, nello stretto senso della parola, di fare ciò che rende felice, per­ché la felicità è un ideale, non della ragione, ma dell’immaginazione, fondata unicamente sui principi empirici.

(Kant, Fondazione Metafisica dei costumi, Torino, Paravia, II)

Questa differenza del principio della felicità da quello della moralità non è un’opposizione; e la ragion pura pratica non vuole che si rinunzi alle pretese alla felicità, ma soltanto che appena si tratta del dovere, non si abbia punto riguardo alla felicità. Sotto un certo rispetto può persino essere un dovere aver cura della propria felicità: sia perché essa (e questo è il caso dell’abi­lità, della salute, della ricchezza) contiene i mezzi per l’adempimento del proprio dovere, sia perché la mancanza di essa (per es. la povertà) implica ten­tazioni a trasgredire il proprio dovere. Solo che promuovere la propria feli­cità non può mai essere immediatamente un dovere, e ancor meno un prin­cipio di tutti i doveri. Ora, poiché i motivi determinanti della volontà, eccetto l’unica legge razionale pura pratica (la legge morale), sono tutti quanti empi­rici, e quindi come tali appartengono al principio della felicità; così essi devono essere separati tutti quanti dal principio morale supremo, né mai essere incorporati in esso come condizione, perché ciò annullerebbe ogni valore morale, allo stesso modo appunto che la mescolanza di elementi empi­rici ai principi geometrici toglierebbe ogni evidenza matematica.

(Kant, Critica della Ragion pratica, op. cit., 1 I, c. III)

Ogni interesse della mia ragione (così lo speculativo, come il pratico) si con­centra nelle tre domande seguenti: 1 Che cosa posso sapere? 2 Che cosa devo fare? 3 Che cosa posso sperare?

La prima domanda è meramente speculativa […] La seconda domanda è meramente pratica […] La terza domanda, cioè: «Se io ora faccio quel che debbo, che cosa allora posso sperare?» è insieme pratica e teoretica […] Ogni speranza infatti si indi­rizza alla felicità, ed è, rispetto al pratico e alla legge morale, quello stesso che il sapere e la legge naturale rispetto alla conoscenza teoretica delle cose […] La felicità è l’appagamento di tutte le nostre tendenze (tanto estensive, nella molteplicità loro, quanto intensive, rispetto al grado, e anche protensive, rispetto alla durata). Io dico legge prammatica (regola di prudenza) la legge pratica derivante dal motivo della felicità; morale (legge dei costumi) quella invece, in quanto ce n’è una, che non ha altro motivo che il merito di esser felice. La prima consiglia che cosa si deve fare, se noi vogliamo divenire par­tecipi della felicità, la seconda comanda come dobbiamo comportarci solo per farci degni della felicità […] La risposta alla prima delle due domande della ragion pura riguardanti l’in­teresse pratico è questa: “Fa ciò per cui diventi degno di essere felice”. La seconda dice: “Se io mi comporto in modo da non essere indegno della felicità, come posso sperare di poterne quindi divenir partecipe?” Per la rispo­sta ad essa si tratta di sapere, se i principi della ragion pura, che prescri­vono a priori la legge, vi leghino anche questa speranza in modo necessario. Io dico pertanto che a quella guisa che i principi morali secondo la ragione sono nel loro uso pratico necessari, egualmente necessario secondo la ragione è ammettere nel suo uso teoretico, che ognuno possa sperare la felicità nella stessa misura in cui egli se n’è reso degno con la sua condotta, e che quindi il sistema della moralità è unito inseparabilmente con quello della felicità, ma soltanto nell’idea della ragion pura.

(Kant, Critica della Ragion pura, Laterza, Bari, Dottrina trascendentale del metodo, sez. II)

Felice l’anima che, fra il tumulto degli elementi e le macerie della natura, è posta sempre ad un’altezza dalla quale può quasi vedere passare sotto i suoi piedi il fremito delle devastazioni che la caducità provoca alle cose del mondo! Una felicità che la ragione non oserebbe neanche di desiderare, la rivelazione ci insegna a sperarla con convinzione. Quando poi saranno cadute le catene che ci tengono legati alle creature, nel momento destinato per la trasfigura­zione del nostro essere, lo spirito immortale, liberatosi dalla dipendenza delle cose finite, troverà nella comunione con l’Essere infinito il godimento della vera felicità.

(Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, I, in M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, Varese, Ed. Magenta)

Il concetto di sommo contiene già un equivoco, che, se non si fa attenzione, può cagionare dispute inutili. Sommo può significare supremo (supremum) o anche perfetto (consumatum). Il primo è quella condizione, che è essa stessa incondizionata, cioè non è subordinata a nessun’altra condizione (ori­ginarium); il secondo quel tutto, che non è parte alcuna di un tutto più grande e della stessa specie (perfectissimum). Nell’Analitica si è dimostrato che la virtù (come merito di esser felice) è la condizione suprema di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile, quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità, e quindi è il bene supremo. Ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiede anche la felicità […] E questo perché aver bisogno di felicità ed esserne anche degno e tuttavia non esserne par­tecipe, non è punto compatibile col volere perfetto di un essere razionale, il quale insieme avesse l’onnipotenza […] Questo bene (virtù e felicità) significa il tutto, il bene perfetto, in cui però la virtù è sempre, come condizione, il bene supremo, perché essa non ha nes­suna condizione al di sopra di sé, e la felicità è sempre qualcosa, che per colui che la possiede è bensì piacevole, ma non è buona per sé sola assolu­tamente e sotto ogni rispetto, e suppone sempre come condizione la condotta morale conforme alla legge.

(Kant, Critica della Ragion pratica, op. cit., p. I, 1. II, c. II)

 

2.3.2. Esemplificazione: Riporto alcuni documenti testuali di Fichte ed Hegel (tratti dal volume R. Di Chio, Antologia di testi filosofici, Bulgarini, Firenze 1981) dai quali partire per ricavare quanto esposto nel progetto di percorso:

Tutti vorrebbero essere felici, quieti, soddisfatti della loro situazione, ma non sanno dove potranno trovare questa felicità; quale sia il vero oggetto del loro amore e della loro aspirazione, non lo sanno veramente. Credono di doverlo trovare in ciò che immediatamente si fa incontro ai loro sensi e si offre loro, cioè nel mondo. Animosamente si gettano in questa caccia alla feli­cità, appropriandosi intimamente del primo oggetto che loro piace e promette di soddisfare la loro aspirazione, e abbandonandovisi amorosamente. Ma non appena rientrano in sé stessi, e si domandano: sono felice ora? Dal più pro­fondo del loro animo si sentirà distintamente risuonare la risposta: “oh no, tu sei ancora vuoto e bisognoso come prima”. E allora, assodato questo punto, credono di aver soltanto sbagliato nella scelta dell’oggetto, e si gettano su un altro oggetto. Anche questo li soddisferà altrettanto poco che il primo: nes­suno degli oggetti che stanno sotto il sole e la luna li soddisferà. Vorremmo che qualche oggetto li soddisfacesse? Proprio il fatto che nulla di finito e di caduco possa soddisfarli, proprio questo è l’unico legame che ancora li avvinca all’eterno e li conservi nell’esistenza; se mai trovassero un oggetto finito che li soddisfacesse pienamente, allora proprio per questo sarebbero irrimediabilmente esclusi dalla divinità, e ributtati nell’eterna morte del non-essere. Così passano la loro vita nella nostalgia e nell’angoscia; pensando, in ogni situazione in cui si trovano, che, se soltanto le cose mutassero, stareb­bero meglio, e senza trovarsi meglio una volta che sono mutate; credendo, in ogni luogo in cui stanno, che se soltanto fossero giunti lassù, su quell’altura che il loro occhio scorge, la loro angoscia scomparirebbe, ma ritrovando immancabilmente anche su quell’altura il loro vecchio affanno. Se poi, in età più matura, una volta che il fresco coraggio e la gioiosa speranza della gio­vinezza sono scomparsi, si consigliano con se stessi; se ad esempio abbracciano con un solo colpo d’occhio tutta la loro vita trascorsa e osano trarne una lezione decisiva; se osano confessare a se stessi che nessun bene terreno è in grado di procurar soddisfazione, che cosa fanno allora? Forse rinunciano risolutamente ad ogni felicità, e ad ogni pace, soffocando e smorzando per quanto possono la nostalgia che pure persiste indistruttibile; e chiamano que­sto torpore l’unica vera saggezza, questa disperazione della salute, l’unica vera salvezza, e vera intelligenza la loro pretesa conoscenza che l’uomo non è affatto destinato alla felicità, ma soltanto a questo affannarsi nel nulla e per il nulla. […] La vera vita e la sua beatitudine consistono nell’unione con l’immutabile e l’eterno; ma l’eterno può essere colto esclusivamente e soltanto dal pensiero, e in quanto tale non è accessibile in nessun altro modo […] E così la vera vita e la sua beatitudine consistono nel pensiero, vale a dire in una certa e deter­minata visione di noi stessi e del mondo, come procedenti dall’essenza di Dio intima e nascosta in sé stesso; e anche una dottrina della beatitudine non può essere altro che una dottrina del sapere, poiché in generale non esiste nes­sun’altra dottrina all’infuori della dottrina del sapere. E nello spirito, nella vivacità (Lebendigkeit) del pensiero fondata in se stessa, che la vita risiede, giacché fuori dello spirito nulla esiste veramente. Vivere veramente significa pensare veramente e conoscere la verità.

(Fichte, Guida alla vita beata, lez. I).

(La felicità) è la totalità della soddisfazione. Lo scopo universale è la felicità, ma esso in sé è privo di contenuto, indeter­minato; la realtà effettuale (della felicità) è una sensazione piacevole singola, la soddisfazione di un singolo impulso, non dell’universale, cioè dell’universale che rimane universale nella sua determinatezza.

(Hegel, Filosofia del Diritto, Bari, Laterza, nota al §. 20)

L’autocoscienza si getta nella vita e conduce a perfezione quella pura indivi­dualità nella quale essa sorge. Più che costruirsi la propria felicità, la coglie immediatamente e immediatamente la gode […] L’autocoscienza prende la vita a quel modo che vien colto un frutto maturo, verso il quale si stende la mano proprio mentre esso par che si offra.

(Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Firenze, La Nuova Italia, I, La ragione, B, Il piacere e la necessità)

L’individualità tende dunque a togliere questa necessità contraddicente alla legge del cuore, nonché il dolore provocato da tale necessità. Allora l’indivi­dualità non è più la frivolezza della figura precedente, che voleva soltanto il piacere singolo; è, anzi la serietà di un alto fine: serietà che cerca il suo piacere nella rappresentazione della sua propria migliore essenza e nella pro­duzione del benessere dell’umanità […] il suo piacere è quindi […] ciò che si con­forma alla legge.

(Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op. cit., I)

La coscienza morale impara che la natura non si cura di darle la consape­volezza dell’unità dell’effettualità sua con quella di lei, e che la fa quindi divenire forse felice e forse no.

La coscienza non morale, invece, trova forse accidentalmente la sua attua­zione, mentre quella morale trova soltanto motivo dell’agire, ma mediante l’agire non vede parteciparsi a lei la felicità derivante dall’esecuzione e dal gaudio del compimento.

Essa perciò trova piuttosto ragione di lamento per un tale stato di incon­gruenza fra sé e l’esserci, e di ingiustizia che la limita ad avere il suo oggetto soltanto come puro dovere, negandole peraltro di vedere attuato l’oggetto e sé stessa.

La coscienza morale non può rinunciare alla felicità né può privare di que­sto momento il suo fine assoluto […] (Questo) non è un fine tale il cui raggiun­gimento sia ancora incerto, anzi è un’esigenza della ragione o una certezza immediata nonché presupposizione della ragione stessa.

(Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op. cit. II)

2.4.2. Esemplificazione: Riporto alcuni documenti testuali di Bentham e Mill dai quali partire per ricavare quanto esposto nel progetto di percorso:

La natura ha posto l’umanità sotto il governo di due padroni so­vrani, il dolore e il piacere. Soltanto in riferimento ad essi si stabi­lisce ciò che si deve fare, come ciò che si farà. Il criterio del giusto e dell’ingiusto, da una parte, e la catena delle cause e degli effetti, dall’altra, sono legati al loro trono. Essi ci governano in tutto ciò che facciamo, in tutto ciò che diciamo, in tutto ciò che pensiamo: tutti gli sforzi che si fanno per sfuggire al loro dominio servono soltanto a dimostrarlo e a confermarlo. A parole un uomo può ave­re la pretesa di ripudiare il loro impero, ma nella realtà vi rimarrà soggetto in ogni istante. Il principio di utilità riconosce questa sot­tomissione e l’assume per fondare questo sistema, il cui obiettivo è quello di erigere l’edificio della felicità per mezzo della ragione e della legge. I sistemi che cercano di metterlo in dubbio si occu­pano dei suoni invece che del senso, del capriccio invece che della ragione, dell’oscurità invece che della luce.

Ma basta con le metafore e le declamazioni; non è così che si migliora la scienza morale.

Il principio di utilità è il fondamento di questo lavoro: sarà quindi opportuno dare subito una spiegazione esplicita e determi­nata di ciò che si intende per esso. Per principio di utilità si in­tende quel principio che approva o disapprova un’azione qualsiasi secondo la tendenza che essa sembra avere ad aumentare o a di­minuire la felicità della parte il cui interesse è in questione o - per dire con altre parole la stessa cosa - a promuovere o a ostacolare questa felicità. Mi riferisco a ogni azione: non solo quindi a tutte le azioni di un individuo privato, ma anche a tutte le azioni del governo.

Per utilità si intende quella proprietà di un oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre un beneficio, un vantaggio, un piacere, un bene, o felicità (in questo caso queste cose sono tutt’u­no, o (il che è lo stesso) a prevenire il verificarsi di un danno, di un dolore, di un male o di infelicità, per la parte di cui si considera l’interesse: se questa parte è la comunità in generale, allora sarà la felicità della comunità; se è un individuo particolare, sarà la felicità di questo individuo.

L’interesse della comunità è una delle espressioni più generali che possono ricorrere nella fraseologia morale: nessuna meraviglia che spesso essa sia senza significato. Quando un significato lo ha, è questo. La comunità è un corpo fittizio, composto di singole per­sone che sono considerate come sue membra. L’interesse della co­munità, quindi, quale sarà? La somma degli interessi delle diverse membra che lo compongono.

È vano discorrere dell’interesse della comunità senza compren­dere qual è l’interesse dell’individuo. Si dice che qualcosa promuo­ve l’interesse o è per l’interesse di un individuo, quando tende ad aumentare la somma totale dei suoi piaceri o, il che è lo stesso, a diminuire la somma totale dei suoi dolori.

Si può quindi dire che un’azione si conforma al principio di utilità o, per amore di brevità, all’utilità (riferendosi alla comunità in generale) quando la tendenza che possiede ad aumentare la fe­licità della comunità è maggiore di ogni sua altra tendenza a di­minuirla.

Si può dire che una misura del governo (che non è altro che un genere particolare di azione, compiuta da una o più persone particolari) si conforma o è dettata dal principio di utilità quando analogamente la tendenza che possiede ad aumentare la felicità del­la comunità è maggiore di ogni altra sua tendenza a diminuirla.

Quando una persona suppone che un’azione, e in particolare una misura del governo, si conforma al principio di utilità, può essere opportuno ai fini del discorso immaginare un genere di legge o di dettame, chiamati legge o dettame dell’utilità, e di parlare del­l’azione in questione in quanto è conforme a tale legge o dettame.

Si può dire che una persona è un partigiano del principio di utilità quando l’approvazione o la disapprovazione che egli dà a ogni azione e a ogni misura viene determinata, ed è proporzionale, alla tendenza che egli crede essa abbia di aumentare o diminuire la felicità della comunità o, in altre parole, dalla sua conformità o non conformità alle leggi e ai dettami dell’utilità.

Di un’azione conforme al principio di utilità si può sempre dire che essa dev’essere fatta, o almeno che non è un’azione che non si deve fare. Si può anche dire che è corretto che venga fatta; o al­meno che non è scorretto che essa venga fatta: che essa è un’azione corretta; almeno non è scorretta. Quando le interpretiamo così, le parole, deve, e corretto e scorretto, e le altre di questo tipo, hanno un significato: quando facciamo altrimenti, non ne hanno più.

Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, trad. it. in F. Lecaldano, L’illuminismo inglese, Loescher, Torino 1985, pp. 196-199)

La libertà dell’individuo deve avere questo limite: l’individuo non deve creare fastidi agli altri. Ma se evita di molestare gli altri nelle loro attività, e si limita a agire secondo le pro­prie inclinazioni e il proprio giudizio nell’am­bito che lo riguarda, le stesse ragioni che di­mostrano che l’opinione deve essere libera provano anche che gli si deve consentire, sen­za molestarlo, di mettere in pratica le proprie opinioni a proprie spese. Gli uomini non sono infallibili; le loro verità sono per la maggior parte delle mezze verità; l’unanimità, a meno che non sia il risultato del più completo e libe­ro confronto di opinioni opposte, non è auspi­cabile, e la diversità non sarà un male ma un bene fino a quando gli uomini non saranno molto più capaci di riconoscere tutti gli aspet­ti della verità: questi principi sono applicabili alle azioni altrettanto che alle opinioni. Come è utile che fino a quando l’umanità non sarà perfetta vi siano differenze d’opinione, così lo è che vi siano differenti esperimenti di vita; che le diverse personalità siano lasciate libere di esprimersi, purché gli altri non ne vengano danneggiati; e che la validità di modi di vivere diversi sia verificata nella pratica quando lo si voglia. In breve, è auspicabile che l’individua­lità sia libera di affermarsi nella sfera che non riguarda direttamente gli altri. Quando la nor­ma di condotta non è il carattere individuale ma le tradizioni o le consuetudini degli altri, viene a mancare uno dei principali elementi della felicità umana, e l’elemento sicuramente principale del progresso individuale e sociale.

La difficoltà maggiore che si incontra nel­l’affermazione di questo principio non risiede nella determinazione dei mezzi necessari per raggiungere un fine riconosciuto, ma nell’indifferenza generale nei confronti del fine stes­so. Se la gente si rendesse conto che il libero sviluppo dell’individualità è uno degli elemen­ti fondamentali del bene comune; che non solo e connesso a tutto ciò che viene designato da termini come civiltà, istruzione, educazione, cultura, ma è di per se stesso parte e condizio­ne necessaria di tutte queste cose, non vi sa­rebbe il pericolo che la libertà venisse sottova­lutata, e la definizione dei confini tra essa e il controllo sociale non presenterebbe enormi difficoltà. Ma il male è che comunemente il valore intrinseco della spontaneità individuale - il fatto che è di per se stessa degna di con­siderazione - è a malapena riconosciuto. I più, soddisfatti della vita così come è (perché sono loro a renderla così come è) non riescono a capire perché non debba andar bene a tutti; e, ciò che più conta, la spontaneità non fa parte dell’ideale della maggioranza dei riformatori morali e sociali, ed è anzi guardata con sospet­to, come un ostacolo fastidioso e forse ribelle all’accettazione generale di ciò che essi giudi­cano più opportuno per l’umanità […]

D’altra parte, sarebbe assurdo pretendere che gli uomini debbano vivere come se prima che venissero al mondo tutto fosse stato com­pletamente ignoto; come se l’esperienza non avesse ancora indicato in una certa misura che un dato modo di vivere o di comportarsi è preferibile a un altro. Nessuno nega che da giovani gli uomini debbano essere educati e addestrati a conoscere i risultati accertati dal­l’esperienza umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta condizione, dell’uomo, una volta giunto alla pienezza delle sue facoltà, usare e interpretare l’esperienza a modo suo. Tocca a lui determinare in quale misura l’espe­rienza già acquisita sia opportunamente appli­cabile alle proprie circostanze e al proprio ca­rattere. Le tradizioni e i costumi di altri uomi­ni mostrano, in una certa misura, ciò che la loro esperienza ha loro insegnato: sono prove indiziarie, e in quanto tali vanno rispettate: ma, innanzitutto, la loro esperienza può essere trop­po limitata, o possono non averla interpretata correttamente. In secondo luogo, la loro inter­pretazione può essere corretta ma non adat­tarsi alle esigenze di un dato individuo. In ter­zo luogo, anche se queste consuetudini sono sia positive in quanto tali sia adatte al caso particolare, tuttavia il conformarsi semplice­mente alla consuetudine in quanto tale non educa o sviluppa nell’individuo le qualità che sono patrimonio caratteristico di un essere umano. Facoltà umane quali la percezione, il giudizio, il discernimento, l’attività mentale, e persino la preferenza morale, si esercitano sol­tanto nelle scelte. Chi fa qualcosa perché è l’usanza non opera una scelta, né impara a di­scernere o a desiderare ciò che è meglio. I poteri mentali e morali, come quelli muscolari, si sviluppano soltanto con l’uso. Facendo qual­cosa soltanto perché gli altri la fanno non si esercitano queste facoltà, non più che creden­do a qualcosa solo perché altri ci credono. Se i fondamenti su cui si basa un’opinione non convincono completamente la ragione indivi­duale, quest’ultima non può essere rafforzata e anzi spesso viene indebolita dalla sua adozio­ne. Analogamente se le motivazioni di un atto non sono consone ai sentimenti e al carattere di un individuo (in casi che non coinvolgano gli affetti, o i diritti altrui), compierlo contri­buirà a renderli inerti e torpidi invece che at­tivi e energici.

Chi permette al mondo, o alla parte di esso in cui egli vive, di scegliergli la vita non ha bisogno di altre facoltà che di quella dell’imi­tazione scimmiesca. Chi si sceglie la vita eser­cita tutte le sue facoltà. Deve usare l’osserva­zione per vedere, il ragionamento e il giudizio per prevedere, l’attività per raccogliere gli ele­menti decisionali, il discernimento per decide­re, e, una volta presa deliberatamente la deci­sione, la fermezza e il controllo di sé per atte­nervisi. E queste qualità gli servono, e le eser­cita, esattamente nella misura in cui determina la propria condotta secondo il proprio giudi­zio e i propri sentimenti. Può accadere che finisca su una buona strada, e non gli accada nulla di male, senza che faccia nulla di tutto ciò. Ma quale sarà il suo valore relativo in quanto essere umano? Non sono soltanto le azioni degli uomini a essere realmente impor­tanti, ma anche i generi di uomini che le com­piono. Tra le opere umane che la vita giusta­mente si sforza di perfezionare e rendere più belle, la prima in ordine d’importanza è sicu­ramente l’uomo stesso […] La natura umana non è una macchina da costruire secondo un mo­dello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni dire­zione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente…

Ovunque il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del progresso umano, ed è in costante antagonismo con quella disposizione a tendere verso qualcosa che sia migliore del­l’abitudine, chiamata a seconda delle circostan­ze, spirito di libertà o di progresso o di inno­vazione. Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perché può cercare di impor­re a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può allearsi localmente e temporaneamente con chi si op­pone al progresso; ma la libertà è l’unico fatto­re infallibile e permanente di progresso, poi­ché fa sì che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui. Tuttavia, il principio progressi­vo, sia sotto forma di amore per la libertà sia di amore del nuovo, è antagonistico alla con­suetudine, poiché implica inevitabilmente l’emancipazione dal suo giogo; e il conflitto tra i due è il motivo conduttore della storia uma­na. A stretto rigor di termini, la maggior parte del mondo non ha storia, perché il dispotismo della consuetudine vi è totale: è il caso di tutto l’Oriente. In esso la consuetudine è in tutti i campi il criterio ultimo; giustizia e diritto si­gnificano conformità alle usanze; a nessuno che non sia un tiranno inebriato di potere viene in mente di opporsi all’argomento della tradizio­ne. E ne vediamo i risultati. Quei paesi devo­no aver posseduto, a suo tempo, dell’originali­tà; non sono nati popolosi, colti, e versati in molte arti della vita; lo sono diventati con le loro forze, e allora erano le nazioni più grandi e potenti del mondo. Che cosa sono oggi? Sudditi o dipendenti di tribù i cui antenati vagavano nelle foreste quando i loro avevano magnifici palazzi e splendidi templi, ma obbe­divano in parte alla consuetudine, in parte al desiderio di libertà e progresso. A quanto pare, un popolo può progredire per un certo perio­do, e poi fermarsi: quando si ferma? Quando cessa di possedere l’individualità […]

Che cosa ha reso le nazioni europee un set­tore dell’umanità che si evolve e non resta sta­tico? Nessuna loro intrinseca superiorità - che, quando esiste, è un effetto e non una cau­sa - ma piuttosto la notevole diversità di caratteri e culture. Individui, classi e nazioni sono stati estremamente diversi gli uni dagli altri: hanno tracciato una gran quantità di vie, che portavano tutte a qualcosa di valido; e anche se in ogni epoca chi percorreva vie di­verse non tollerava gli altri, e avrebbe giudica­to ottima cosa costringerli tutti a seguire la sua strada, i tentativi reciproci di impedire il pro­gresso altrui hanno raramente avuto un suc­cesso definitivo, e a lungo andare tutti hanno avuto la possibilità di recepire i risultati posi­tivi altrui. A mio giudizio, l’Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo svilup­po progressivo e multiforme; ma è una dote che si sta già riducendo in misura considere­vole. L’Europa sta decisamente avanzando ver­so l’ideale cinese di rendere tutti gli uomini uguali […] Una volta, strati sociali, comunità lo­cali, mestieri e professioni diversi vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi di­versi; oggi il mondo è in buona misura lo stes­so per tutti. Relativamente parlando, oggi la gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse cose, va negli stessi posti, spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi diritti, e le stesse possibilità di farli vale­re. Per quanto grandi siano le differenze che ancora sussistono tra gli uomini, non sono nulla in confronto a quelle che sono scomparse. E il processo di assimilazione continua: lo favori­scono tutti i mutamenti politici di questo peri­odo, che tendono senza eccezione a innalzare chi sta in basso e viceversa. Lo favorisce ogni estensione dell’istruzione, perché essa sottopo­ne tutti a influenze comuni e li pone in contat­to con il complesso delle conoscenze e dei sen­timenti generali. Lo favorisce il miglioramento delle comunicazioni, che pone in contatto gli abitanti di località distanti tra loro e incorag­gia rapidi e frequenti spostamenti di residenza da un posto all’altro. Lo favorisce l’espansione del commercio e dell’industria manifatturiera che diffonde sempre più ampiamente i benefi­ci materiali e offre alla competizione generale anche i più elevati oggetti di ambizione, per cui il desiderio di ascendere nella società non caratterizza più una classe particolare, ma tut­te. Un fattore che ancor più di questi appena elencati favorisce la generale somiglianza degli uomini è l’influenza, ormai consolidata in que­sto e altri paesi, dell’opinione pubblica sullo Stato. Col graduale livellamento delle varie distinzioni sociali che permettevano a chi si barricava dietro di esse di ignorare l’opinione delle masse; con la progressiva sparizione dal­le menti degli uomini politici dell’idea stessa di opporsi alla volontà pubblica, nei casi in cui la si conosca con certezza, il non-confor­mismo perde qualsiasi sostegno sociale. Scom­pare cioè qualsiasi consistente potere sociale che, essendo di per se stesso contrario al do­minio della massa, sia interessato ad assumersi la protezione di opinioni e tendenze diverse da quelle del grande pubblico.

La combinazione di queste cause forma una tale massa di influenze ostili all’individualità che è difficile immaginare come essa riuscirà a sopravvivere. Incontrerà difficoltà sempre mag­giori se non si riesce a farne comprendere il valore alla parte più intelligente del pubblico - a fargli capire che la diversità è positiva, anche se non è sempre migliore e talvolta può sembrare peggiore di ciò che è comunemente accettato. Se i diritti dell’individualità devono essere fatti valere, questo è il momento, quan­do manca ancora molto perché l’assimilazione forzata sia completa. È solo resistendo fin dal­l’inizio che si possono sconfiggere gli abusi. La pretesa che tutti si rassomiglino cresce quan­to più la si nutre: se si aspetta a resistere fino a quando la vita non sarà quasi completamente ridotta a un tipo uniforme, ogni deviazione da esso finirà coll’essere considerata empia, im­morale, persino mostruosa e contro natura. Gli uomini diventano rapidamente incapaci di con­cepire la diversità quando per qualche tempo si sono disabituati a vederla.

(J.S. Mill, Saggio sulla libertà, tr.it. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 85-88, 101-105).

La dottrina che accetta come fondamento della morale l’utilità, o il principio della massima felicità, afferma che le azioni sono buone in proporzione al loro tendere a promuovere la felicità, cattive in quanto tendono a produrre il contrario della felicità. Per felicità s’in­tende piacere ed assenza di dolore; per infelicità si intende dolore e privazione di piacere. Per dare un’idea chiara del criterio morale affer­mato dalla teoria bisogna dire molto di più, in particolare che cosa è incluso nelle idee di dolore e di piacere e fino a qual punto questa e una questione aperta. Ma queste spiegazioni integrative non toccano la concezione della vita su cui è fondata questa teoria della moralità, cioè che il piacere e la liberazione dal dolore sono le sole cose che si possono desiderare come fini e che tutte le cose che si possono deside­rare (che nello schema utilitario sono tanto numerose quanto in ogni altro schema) sono desiderabili o per il piacere che recano in se stesse o in quanto tendono a promuovere il piacere ed a prevenire il dolore.

Ora questa concezione della vita solleva in molte menti, e tra le altre in alcune tra le più degne di stima per il loro sentire e i loro pro­positi, un’inveterata avversione. Supporre che la vita (come essi si esprimono) non abbia un fine più alto del piacere né migliore e più nobile oggetto di desiderio e di attuazione - è cosa che essi con­siderano come massimamente meschina ed abbietta, come degna soltanto di maiali ai quali fin dall’inizio furono spregiativamente paragonati i seguaci di Epicuro; e i moderni seguaci della dottrina sono frequentemente oggetto di un paragone altrettanto cortese da parte dei loro avversari tedeschi, francesi ed inglesi.

Quando furono così attaccati, gli epicurei hanno sempre risposto che non erano loro, ma i loro accusatori, a rappresentare la natura umana in una prospettiva degradante; infatti l’accusa suppone che gli esseri umani non siano suscettibili di altro piacere all’infuori di quello di cui sono capaci i maiali. Se questa supposizione fosse vera, l’accusa non potrebbe essere contrastata, ma non sarebbe più un’imputazione; infatti se le fonti di piacere fossero esattamente le stesse per gli esseri umani e per i maiali, le regole di vita buone per l’uno sarebbero buone anche per gli altri. Il paragone della vita epicurea con quella delle bestie è avvertito come degradante proprio perché i piaceri delle be­stie non soddisfano la concezione della felicità di un essere umano. Gli esseri umani hanno facoltà più elevate degli appetiti animali e quando essi diventano coscienti di esse non considerano felicità alcuna cosa che non tenga conto della soddisfazione di tali facoltà. Io non ritengo, in verità, che gli epicurei non siano incorsi in errore nel trac­ciare l’insieme delle conseguenze tratte dal principio utilitaristico. Per far ciò in modo adeguato, si dovrebbero includere molti elementi sia stoici che cristiani. Ma non si conosce alcuna teoria epicurea della vita che non assegni ai piaceri dell’intelletto, del sentimento e del­l’immaginazione e dei sentimenti morali un valore maggiore, come piaceri, che a quelli della mera sensazione. Bisogna ammettere tuttavia che gli scrittori dell’utilitarismo in generale hanno fatto consistere la superiorità dei piaceri mentali rispetto a quelli corporei principal­mente nella maggiore stabilità, sicurezza e gratuità dei primi, cioè tenendo conto più dei vantaggi che li accompagnano che della loro natura intrinseca. E su tutti questi punti gli utilitaristi hanno messo pienamente alla prova la loro dottrina; ma essi avrebbero potuto con­seguire anche un altro e, per vero dire, più alto fondamento in modo pienamente coerente. E infatti del tutto compatibile col principio del­l’utilitarismo il riconoscimento del fatto che alcune specie di piacere sono più desiderabili e di maggior valore di altre. Sarebbe assurdo che mentre nell’apprezzamento di tutte le altre cose si tien conto sia della qualità che della quantità, si ritenesse che l’apprezzamento del piacere debba farsi dipendere soltanto dalla quantità.

Se mi si chiedesse che cosa io intendo per differenza di qualità nel piacere o che cosa fa sì che un piacere abbia più valore di un altro, solo in quanto piacere, esclusa ogni considerazione quantitativa, non c’è che una risposta possibile. Di due piaceri, se ce n’è uno che tutti o quasi tutti coloro che li hanno sperimentati entrambi preferi­scono decisamente, indipendentemente da ogni sentimento di obbligo morale nel preferirlo, quello è il piacere più desiderabile. Se uno dei due viene posto, da parte di coloro che li conoscono entrambi, tanto al di sopra dell’altro da preferirlo, anche se si sa che è accompagnato da una maggiore quantità di dispiacere, e da non rinunziare ad esso per una quantità qualsiasi dell’altro piacere di cui la loro natura è capace, allora noi siamo giustificati nell’attribuire al piacere che viene preferito una superiorità qualitativa che supera talmente la quantità da renderla, in paragone, di peso minore.

Ora non v’è dubbio che coloro i quali conoscono egualmente i due piaceri e sono egualmente in grado di apprezzare e di godere di en­trambi, danno una preferenza più notevole a quel modo di esistenza che esplica le loro facoltà più alte. Poche creature umane acconsenti­rebbero ad esser cambiate in qualcuno degli animali inferiori nella pro­spettiva che fosse loro consentito il pieno godimento dei piaceri ani­mali; nessun essere umano intelligente accetterebbe di essere pazzo, nessuna persona colta vorrebbe essere ignorante, nessun uomo sensi­bile e cosciente vorrebbe essere egoista ed abbietto, anche se si fosse convinti che il pazzo, o l’ignorante o il furfante prova più piacere nella propria sorte che essi nella loro. Essi non vorrebbero rinunziare a quello che possiedono in più rispetto al pazzo, all’ignorante e all’egoista per ottenere la più completa soddisfazione di tutti i desideri che hanno in comune con questi altri tipi di uomini. Ed anche se pensassero di farlo, sarebbe soltanto in casi di così estrema infelicità che per libe­rarsene sarebbero disposti a cambiare la loro sorte con quasi qualun­que altra, per quanto indesiderabile ai loro occhi.

Un essere di più elevate facoltà richiede di più per essere felice, è probabilmente capace di più acuta sofferenza ed è certamente esposto ad essa in più punti che non un uomo di tipo inferiore; ma nonostante queste passività, egli non potrà mai desiderare realmente di abbassarsi a quello che egli sente come un grado più basso di esistenza. Noi pos­siamo dare la spiegazione che ci aggrada di questa avversione; possia­mo attribuirla all’orgoglio, un nome che viene riferito indiscriminata­mente ad alcuni dei sentimenti più degni di stima e ad alcuni dei sen­timenti meno degni di stima di cui gli uomini siano capaci; possiamo attribuirla all’amore di libertà e di indipendenza personale, un richiamo che con gli stoici fu uno dei mezzi più efficaci per inculcare tale av­versione; o all’amore del potere e al desiderio di iniziativa che en­trambi entrano realmente a costituire tale sentimento. Ma la sua più adeguata ragion d’essere è un senso di dignità che tutti gli esseri uma­ni possiedono in una forma o in un’altra, ed in qualche proporzione, anche se nient’affatto esatta, con le loro più alte facoltà e che è una parte così essenziale della felicità di coloro in cui è fortemente radi­cata, che nulla che la contrasti può diventare per essi, se non momen­taneamente, oggetto di desiderio. Chi ritiene che questa preferenza dia luogo ad un sacrificio di felicità che l’essere superiore, in circostan­ze pressoché eguali, non sia più felice dell’inferiore confonde due idee molto diverse, quella di felicità e quella di soddisfazione. È certo che l’essere che ha capacità più basse di godimento, ha la più alta probabilità di averle soddisfatte ed un essere più altamente dotato sen­tirà sempre che qualsiasi felicità cui egli possa mirare è imperfetta, così come il mondo è costituito. Ma egli può imparare a sopportare le sue imperfezioni, se esse sono sopportabili; ed esse non gli faranno invidiare colui che non ha reale coscienza delle imperfezioni, ma solo perché non sente affatto il bene che queste imperfezioni qualificano. È meglio essere un essere umano insoddisfatto che un maiale soddisfat­to; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno stolto soddisfatto. E se lo stolto, come il maiale, è di un’opinione differente, è perché essi vedono la cosa soltanto dal loro lato. L’altro punto di riferimento del paragone li conosce entrambi […]

Contro questa dottrina si pone, tuttavia, un’altra classe di oppo­sitori che dicono che la felicità, sotto una forma qualsiasi, non può essere lo scopo razionale della vita e dell’azione umana, perché, in primo luogo, la felicità è irraggiungibile ed essi chiedono sprezzantemente: che diritto hai tu di essere felice? Una domanda che Carlyle ribadisce aggiungendo: Che diritto avevi tu, poco tempo fa, perfino, di esistere? […]

Questa obbiezione andrebbe alla radice della questione se fosse ben fondata; infatti se gli esseri umani non avessero mai attinto la felicità, il suo conseguimento non potrebbe essere il fine della mora­lità o di una condotta razionale. Però, anche in questo caso, si po­trebbe ancora dire qualche cosa a favore della teoria utilitaria, perché l’utilità non include soltanto il conseguimento della felicità, ma anche la prevenzione o l’attenuazione dell’infelicità. E se il primo scopo sarà una chimera, vi sarà una maggiore ragione ed un bisogno più impera­tivo di conseguire il secondo, finché almeno l’umanità penserà che valga la pena di vivere e non si rifugerà nel simultaneo atto del sui­cidio raccomandato in certi casi da Novalis. Quando, comunque, si afferma categoricamente che è impossibile che la vita umana sia felice, l’affermazione, se non è qualche cosa di simile ad un sofisma verbale, è quanto meno una esagerazione. Se per felicità si intende una conti­nuità di eccitamenti altamente piacevoli, è evidente che essa è impos­sibile. Uno stato di intenso piacere dura soltanto momenti, o in alcuni casi e con qualche interruzione ore o giorni ed è l’occasionale splen­dente lampo di godimento, non la sua fiamma stabile e durevole. Di ciò i filosofi che hanno insegnato essere la felicità lo scopo della vita furono consapevoli tanto quanto coloro che li motteggiano. La felicità, come essi la intendono, non è una vita di estasi, ma è costituita di momenti di tale vita in un ‘esistenza fatta di pochi e transitori dolori, di molti e vari piaceri, con un netto predominio dell’attivo sul pas­sivo […].

Il punto principale del problema consiste, quindi, nel contrastare le calamità sfuggire interamente alle quali è una rara fortuna; e che, così’ come stanno le cose, non possono essere evitate e spesso nem­meno mitigate in qualche grado rilevante. Tuttavia non c’è alcuno la cui opinione meriti una certa considerazione che possa dubitare che la maggiore parte dei grandi mali positivi del mondo siano in se stessi eliminabili e che, se le cose umane continueranno a progredire, pos­sano alla fine essere ricondotti entro limiti più ristretti. La povertà, che sotto ogni punto di vista comporta sofferenza, può essere comple­tamente eliminata dalla saggezza della società combinata col buon sen­so e con la previdenza degli individui. Anche il più intrattabile dei nemici, la malattia, può essere indefinitamente ridotta nelle sue di­mensioni da una buona educazione fisica e morale e da un opportuno controllo delle sue influenze nocive, mentre il progresso della scienza fornisce una promessa per il futuro di conquiste più dirette sopra que­sto detestabile nemico. E ogni progresso in questa direzione ci aiuta non soltanto in alcuni dei casi che abbreviano la nostra vita, ma anche in quelli, che ci interessano maggiormente, e che ci privano di ciò che più direttamente concerne la nostra felicità. Come per quanto concerne le vicissitudini della fortuna e le altre contrarietà connesse con le vicende del mondo, anche questi casi sono principalmente effetto o di grande imprudenza, o di desideri mal regolati, o di istituzioni so­ciali cattive o imperfette. Tutte le grandi fonti, in breve, della soffe­renza umana possono essere per intero, o in gran parte, vinte dalla cura e dallo sforzo degli uomini; e per quanto la loro rimozione sia penosamente lenta, per quanto una lunga successione di genera­zioni debba perire sulla breccia prima che la vittoria sia completa e questo mondo divenga tutto quello che potrebbe facilmente diventare se volontà e conoscenza non mancassero tuttavia ogni animo abba­stanza intelligente e generoso da avere una parte, per quanto piccola e irrilevante, nella ricerca, trarrà un nobile godimento dalla lotta stes­sa, di cui non vorrebbe privarsi con alcun compenso di carattere egoi­stico […].

Devo di nuovo ripetere ciò che gli avversari dell’utilitarismo han­no di rado la lealtà di riconoscere, che la felicità che costituisce il criterio utilitaristico della buona condotta non è la felicità personale di chi agisce, ma la felicità di tutti gli interessati. Tra la felicità propria e quella degli altri, l’utilitarismo richiede che colui che agisce sia rigo­rosamente imparziale quanto disinteressato e benevolo spettatore. Nella regola d’oro di Gesù di Nazareth noi vediamo lo spirito com­pleto dell’etica dell’utilità. Fare agli altri quanto si vorrebbe fosse fatto a noi ed amare il prossimo come noi stessi costituisce la perfezione ideale della moralità utilitaristica. Come mezzi per avvicinarsi il più possibile a questo ideale l’utilità dovrebbe ordinare, anzitutto, che le leggi e gli interventi sociali ponessero la felicità o (per dirla pratica­mente) l’interesse di ogni individuo il più possibile in armonia con l’interesse del tutto e, in secondo luogo, che l’educazione e l’opinione, che hanno così grande potere sul carattere umano, usassero tale potere per fissare nella mente di ogni individuo un’associazione indissolubile tra la sua propria felicità ed il bene della collettività, specialmente tra la sua propria felicità e la realizzazione di tali atteggiamenti di con­dotta sia positivi che negativi quali sono prescritti dalla felicità di tutti; in modo tale che non solo il singolo non sia in grado di concepire la possibilità della felicità per sé stesso unendola ad una condotta opposta al bene generale, ma anche in modo che un impulso diretto a promuovere il bene generale possa essere in ogni individuo uno dei moventi abituali dell’azione e in maniera che i sentimenti connessi con quello possano trovare una presenza larga e preminente nella sensibilità e nell’esistenza di ogni essere umano.

(J.Stuart Mill, Utilitarianism, in The Ethics of J.S.M., Edimburgo e Lon­dra, Ed. by Ch. Douglas, 1897, cap. II, pp. 91-111, passim)

Altri documenti:

Marx

La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il pre­supposto della sua vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione, è la necessità di rinunciare a una condizione che ha biso­gno di illusioni. La critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.

La critica non ha strappato i fiori immaginari dalla catena perché l’uomo con­tinui a trascinarla triste e spoglia, ma perché la getti via e colga il fiore vivo. La critica della religione disinganna l’uomo, affinché egli consideri, plasmi e raffiguri la sua realtà come un uomo disincantato, divenuto ragionevole, per­ché egli si muova attorno a sé stesso e quindi al suo vero sole. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove attorno all’uomo, fino a che questi non si muove attorno a sé stesso.

(Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Marx-Engels, Opere, Edi­tori Riuniti, Roma)

La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i mem­bri della collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che garanti­sca loro lo sviluppo e l’esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisi­che e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste.

(F. Engels, Antidühring, in Marx-Engels, Opere, op. cit.)

La società nuova nella sua prima fase, come «emerge» dalla società capita­listica, è una società comunista […] dove il produttore singolo riceve […] esatta­mente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità indi­viduale di lavoro […] E dalla società riceve uno scontrino da cui risulta che ha prestato tanto lavoro […] e con questo scontrino ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente […]

Questo diritto «uguale» […] non riconosce nessuna distinzione di categoria (per­ché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri); e riconosce invece tacitamente la ineguale attitudine individuale (e quindi capacità di rendimento), come privilegi naturali. Esso è perciò, per il suo contenuto, un «diritto della disuguaglianza» […]

Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli dell’altro, ecc.. In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la su­bordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere su­perato, e la società può scrivere sulle sue bandiere «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni!».

(C. Marx, Critica al programma di Gotha, in Marx-Engels, Opere, op. cit.)

Finché il lavoro è diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, pastore, critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; mentre nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la so­cietà regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.

(Marx, Ideologia tedesca, in Scritti giovanili, La Nuova Italia, Firenze)

Kierkegaard

La felicità nella vita estetica.

Colui che a vent’anni non comprende che vi è un imperativo categorico: “Godi!” - è uno stupido, e colui che non vuole afferrarlo, sarà un cretino […] Bisogna essere abbastanza fantastico per idealizzare, bisogna avere abbastan­za gusto per prendere parte al tocco festoso delle coppe della gioia, abba­stanza accorgimento per fermarsi di botto […] e abbastanza furia per voler go­dere di nuovo.

(Kierkegaard, In vino veritas, Lanciano, Carabba)

La felicità nella vita etica.

Esercito la professione di assessore in tribunale, sono contento del mio me­stiere, credo che corrisponda alle mie facoltà e a tutta la mia personalità, so che esige tutte le mie forze. Cerco di perfezionarmi sempre di più, e men­tre lo faccio, sento che mi evolvo sempre più. Amo mia moglie, sono felice nella mia casa; ascolto le nenie che mia moglie canta alla culla, e il suo canto mi pare più bello di ogni canto, senza per questo credere che essa sia una cantante; sento gli strilli del piccolo che al mio orecchio non sono disarmo­niosi; vedo il suo fratellino maggiore che cresce e progredisce e guardo contento e fiducioso verso il suo avvenire; non sono impaziente, perché ho tempo da attendere, e questa stessa attesa è una gioia per me. Le mia opera ha importanza per me stesso e credo che, in un certo senso, l’abbia anche per gli altri, anche se non posso determinare e misurare esattamente la portata. Provo gioia perché la vita personale degli altri ha importanza per me, e spero e desidero che anche la mia ne possa avere per coloro i quali simpatizzano con tutta la mia concezione di vita. Amo la mia patria natale, e non posso imma­ginare di potermi trovare bene in nessun altro paese. In questo modo la vita ha significato per me, tanto da sentirmene contento e soddisfatto.

(Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano)

La felicità nella vita religiosa: a) chi vive nella vita religiosa è un tormentato, un sofferente.

Come l’uomo immediato crede alla felicità, così la fede dell’uomo religioso crede che la vita precisamente consista nella sofferenza. Per questo il discor­so religioso deve andare in profondità con risolutezza ed energia. Appena il discorso religioso si mette a fare l’occhiolino alla felicità, a consolare con la probabilità, a confortare provvisoriamente, e una dottrina falsa, è un re­gresso alla sfera estetica e perciò un imbroglio […]; la sfera religiosa respira precisamente nella sofferenza. L’immediatezza esala l’ultimo respiro nell’infelicità ed è nella sofferenza che la religiosità comincia a respirare.

(Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, Sansoni, Firenze P. II c. IV)

b)La sofferenza terrena è nulla in rapporto alla felicità eterna.

Quando la sofferenza ghermisce l’uomo in modo che la sua intelligenza non vuole avere nulla a che fare con questa sofferenza, perché non può comprendere ciò che la sofferenza potrebbe procurargli […] e con un moto di ribellione rigetta la fede, oh, allora la beatitudine non può avere il sopravven­to, perché essa è stata completamente trascurata.

Se invece il sofferente tien saldo ciò che la ragione certamente non può com­prendere ma la fede mantiene, ossia che la tribolazione procura un grande ed eterno peso di gloria: allora la beatitudine ha il sopravvento.

(Kierkegaard, Vangelo delle sofferenze, in Opere, op. cit.)

c) La beatitudine eterna non è un bene che si può aggiungere ai beni terreni.

Non so se debba ridere o piangere quando capita di sentire una filastrocca come questa: un buon impiego, una bella moglie, la salute, il rango di consi­gliere di giustizia […] e poi una beatitudine eterna! Ciò equivale a dire che il Regno dei cieli è un regno come tutti gli altri regni di questo mondo e si vorrebbe cercarne il posto sulla carta geografica […]

Dal punto di vista estetico si può benissimo desiderare la ricchezza, la for­tuna, la ragazza più bella, in breve tutto ciò che appartiene alla sfera estetico-dialettica, ma desiderare nello stesso tempo la beatitudine eterna, que­sto è un doppio pasticcio: in parte perché lo si fa nello stesso tempo, e con ciò si trasforma la beatitudine eterna in una vincita da albero di Natale, e in parte perché lo si desidera, mentre invece una beatitudine eterna si rapporta essenzialmente a chi esiste essenzialmente e non a chi è preso da un desiderio fantastico nella sfera estetico-dialettica. Eppure la beatitudine eterna deve abbastanza spesso accontentarsi di trovarsi mescolata con altri bonbons, e si considera come très bien per un uomo l’aggiungerla ad altro, si considera questo quasi il maximum che sia possibile fare a questo riguardo. Anzi, si va oltre, perché rispetto alle altre buone cose non si suppone che basti desiderarle perché vengano: l’eterna beatitudine invece viene subito non appena la si desidera.

(Kierkegaard, Postilla conclusiva, op. cit.)

d) Sentirsi amati da Dio è la più grande felicità.

Il pensiero che dà gioia è questo: ora, e in ogni momento e in ogni momento futuro, è eternamente vero che nulla è accaduto e mai può accadere, fosse an­che l’orrore più triste inventato dall’immaginazione più malata e divenuto realtà, nulla che possa scuotere la fede che Dio è Amore; e il pensiero che dà gioia è che se l’uomo non vuole capire questo col bene, il sentimento della colpevolezza lo aiuterà a capirlo.

(Kierkegaard, Vangelo delle sofferenze, op. cit.)

Capisco sempre più che il Cristianesimo è in fondo di troppa felicità per noi uomini. Sì pensi soltanto a quel che significa l’osar credere che Dio è ve­nuto al mondo anche per me: sembra quasi l’empietà più blasfema. Se non fosse stato Dio stesso a dirlo; se fosse stato un uomo ad inventarlo per mostrare l’importanza che ha un uomo agli occhi di Dio, sarebbe stata la più orrenda di tutte le bestemmie. Non è neppure stata inventata per mostrare l’importanza che ha un uomo per Dio, ma per mostrare quale infinito amore è l’amore di Dio. Perché certo è una degnazione infinita che Egli si prende cura di un passero (Mt. 6,26); ma l’esser Egli nato e aver voluto morire per i peccatori ( e un peccatore è ancor meno di un passero): oh, Amore infinito!

(Kierkegaard, Diario, Brescia, Morcelliana, I, n. 1395)

Nietzsche

La felicità nel contesto uomo-bestia, essere-tempo.

Osserva l’armento che passa pascolando dinanzi a te: egli non sa che cosa sia l’ieri e l’oggi, salta qua e là, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dal mattino alla sera e un giorno dopo l’altro, attaccato con breve corda al suo piacere e al suo dolore, al piuolo del momento, e quindi né melanconico né sazio della vita. L’uomo si addolora nel veder ciò, perché è superbo della sua umanità in confronto della bestia e tuttavia guarda con occhio geloso la felicità della bestia - poiché questo soltanto egli vuole, vivere, come la bestia, né in sazietà né fra i dolori, e tuttavia lo vuole invano, perché non lo vuole come la bestia. Forse un giorno l’uomo chiese alla bestia: perché non mi parli della tua felicità e ti limiti a guardarmi? E la bestia volle rispondere e dire: non ti parlo perché ogni volta dimentico subito quello che volevo dire, - ma anche questa risposta la dimenticò tosto, e tacque: onde l’uomo stupì.

Ma l’uomo si stupisce anche di sé stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto egli vada lontano, o vada in fretta, la sua catena corre con lui. E un prodigio: l’istante, d’un colpo è qui, d’un colpo è lontano; prima c’è il nulla, dopo c’è il nulla, ma l’istante torna come uno spettro e turba la pace di un momento successivo. Continuamente una pagina si stacca dal rotolo del tempo, cade, va a svolazzare lontano, - e bruscamente ritorna svolazzando, nel grembo dell’uomo. Allora l’uomo dice: «io mi ricordo» e invidia l’animale che subito dimentica e vede ciascun istante realmente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte e sparire per sempre.

Così l’animale vive in modo non-storico: poiché esso si dissolve nel presente […] nella più piccola e nella più grande felicità è sempre una sola la cosa mediante la quale nasce una felicità: la facoltà di dimenticare, o, per parlare da dotto, la facoltà di sentire in modo non istorico per tutta la durata di quella. Colui che non sa assidersi sulla soglia del momento, dimenticando ogni cosa passata, colui che non sa drizzarsi sopra un punto come una Dea della vittoria senza vertigine e senza paura, non saprà mai che cosa sia la felicità; peggio ancora: non farà mai alcuna cosa che renda felici gli altri. Figuratevi l’esempio estremo: un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, e fosse condannato a vedere in ogni cosa il divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più in se stesso, vedrebbe ogni cosa scorrere confusamente in punti moventi e si perderebbe in questo fiume del divenire: come un vero discepolo di Eraclito, finirebbe per non osare più di alzare un dito. Ad ogni azione si conviene l’oblio: come alla vita di ogni essere organico si conviene non soltanto la luce, ma anche l’ombra. Un uomo che volesse continuamente sentire soltanto in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse stato costretto a privarsi del sonno, o ad un animale che dovesse vivere soltanto ruminando e sempre di nuovo ruminando […]

La serenità, la buona coscienza, l’allegra attività, la fiducia nell’avvenire, tutto ciò dipende, nell’individuo, come nel popolo, […] dal sapere tanto bene dimenticare al momento giusto quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal saper sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente.

(Nietzsche, Considerazioni inattuali, 2, Monanni, Milano)

Piacere e istinto sociale.

Dai suoi rapporti con gli altri uomini, l’uomo ricava un nuovo genere di pia­cere che egli trae da sé stesso; col che rende in genere notevolmente più vasta la sfera del sentimento del piacere in genere. In questa sfera forse egli ha già ereditato ogni sorta di cose dagli animali, i quali provano manifestamente piacere a giocare fra loro, specie le madri coi piccoli. Si pensi poi ai rapporti sessuali, che fanno apparire interessante a ogni maschio, in vista del piacere, pressappoco ogni femmina e viceversa. Il piacere che deriva dai rapporti umani rende in genere l’uomo migliore; la gioia comune e il piacere goduto insieme si moltiplicano, danno all’individuo sicurezza, lo rendono affabile, sciolgono la diffidenza, l’invidia, perché ci si sente bene e si vede che l’altro si sente bene allo stesso modo.

(Nietzsche, Umano, troppo umano, I, Mondadori, Milano, n. 98)

Felicità e bontà.

La gioia deve contenere forze edificanti e risanatrici anche per la natura mo­rale dell’uomo: come avverrebbe altrimenti che la nostra anima, non appena riposi nel sole della gioia, si prometta: «essere buona!», «diventare perfetta!» e che in ciò sia presa, come da un brivido beato, da un presenti-mento di perfezione?

(Nietzsche, Umano, troppo umano, op. cit., vol. II, n. 339)

La via alla felicità.

Un saggio chiese ad un pazzo quale fosse la via che conducesse alla felicità. Il pazzo rispose senza indugio, come un uomo interrogato sulla via che conduce alla città più vicina: «Ammira te stesso e vivi nella strada!». «Fer­mati, gridò il saggio, tu esigi troppo, basta già l’ammirare sé stesso!». Il pazzo replicò: «Ma come si può costantemente ammirare, senza costantemente disprezzare?».

(Nietzsche, La gaia scienza, Monanni, Milano)