Considerazioni sui margini[1]
Carlo Tatasciore
A sollecitarmi nella direzione che prenderò e che sostanzialmente è rappresentata dalla decostruzione come metodo filosofico di Jacques Derrida (1930-2004), è stata un'analogia intuitiva che ho visto tra una componente della mostra "Più là che Abruzzi" di Eugenio Tibaldi e il pensiero del filosofo franco-algerino. Mi riferisco alla serie di quelle che sono state chiamate opportunamente "Unità architettoniche minime". Si tratta di 40 fotografie, con aggiunta di pittura acrilica ("Architettura minima", Courtesy Umberto Di Marino, Napoli), di giacigli collocati nelle strade di Napoli, ma che possiamo trovare in quelle di molte città, e occupati dai senzatetto, che sono definiti genericamente "barboni" o, con termine francese, clochards. Può sembrare strano, ma si possono opporre alle richieste di "sgombero", che vengono fatte non per motivi repressivi, ma umanitari, le volontà dei barboni di vivere ai margini della società: dietro di loro ci sono infatti storie complicate rispetto alle quali la stessa razionalità sembra non essere all'altezza del compito.
Questa situazione sociale, riportata all'interno della mostra, mi ha suggerito che l'atteggiamento del filosofo Derrida nei confronti della tradizione filosofica occidentale è stato un po' simile e che la decostruzione può aiutarci a spiegare perché ci sembra irrazionale scegliere di vivere e dormire ai margini della società, cioè semplicemente nelle strade delle città.
Il secondo motivo che mi ha indotto a pensare a Derrida è stato il fatto che egli stesso ha scritto un libro in cui si è occupato di pittura: si intitola La verité en peinture, pubblicato da Flammarion nel 1978 e tradotto in italiano per Newton Compton nel 1981.
Il terzo motivo è dato dall'amicizia di Derrida con due pittori, che sono ancora viventi. Uno è italiano, nato a Bologna: si chiama Valerio Adami (del 1935), un artista che invitò Derrida a tenere dei seminari sul Lago Maggiore e nell'Isola di San Giulio nel lago Orta, in Piemonte. L'ultimo seminario, dedicato a "Vedere e pensare", si svolse nel 2002 proprio in quest'ultima sede. Adami ha anche eseguito, nel suo stile, un ritratto del filosofo. L'altro pittore è Gerard Titus-Carmel (1942), le cui opere sono presenti al Centre Pompidou di Parigi.
Ultima ragione, ma sicuramente la più importante, è che nel 1972 Derrida pubblicò presso Minuit un libro intitolato Marges de la philosophie, quindi con un esplicito riferimento ai "margini".
Prima di entrare nel libro, definiamo il concetto di margine. Margine è la parte estrema di una superficie, la parte bianca di una pagina scritta, ma si dice anche di altro. Dal latino margo-marginis deriva il verbo marginare e da esso marginatore e marginatura. Essere al margine o ai margini significa essere in una posizione di confine, di limite. Si usa anche dire in margine a . . . col significato di in merito a qualcosa, anche se relativamente ad aspetti secondari. Si chiama margine anche tutto quello che si può considerare in più rispetto a un certo limite, come quando diciamo "lasciare un margine di libertà", oppure "assicurarsi margini di profitto". Si può avere in senso politico e sindacale un "margine di manovra" e c'è inoltre una teoria economica chiamata marginalismo, che genera l'aggettivo marginalistico. Anticamente si chiamava margine il segno di una ferita rimarginata. Rammarginare si usava anticamente al posto di rimarginare, col significato di saldare insieme i margini di una ferita, anche in senso figurato. Dal sostantivo margine deriva l'aggettivo marginale, che vuol dire del margine, o che è al margine, o che costituisce un margine. La marginalità indica proprio questo essere al margine o un margine. Nelle scienze sociali si parla di condizione marginale, che è tipica di chi vive effetti di fenomeni di emarginazione o di marginalizzazione a seguito di esclusione da certi livelli di consumi o stati sociali. Sono inoltre marginali quei gruppi o popolazioni nomadi (pensiamo agli aborigeni australiani) che vivono in luoghi inospitali per sottrarsi al dominio di popoli sedentari. Ma anche gli zingari nomadi sono in tal senso marginali. Il nostro verbo emarginare è un calco del francese émarger (che deriva da marge). Si usa correntemente per indicare proprio l'azione di esclusione, ma ha anche un significato positivo e burocratico, quando si usa per indicare che si sono segnati sui margini di certi documenti gli elementi utili al loro disbrigo: in tal caso mettere al margine non è usato nel significato di escludere, di impedire a qualcuno di agire in modo politicamente o culturalmente influente su altri. Sta di fatto che l'essere o il sentirsi emarginato può avvenire frequentemente per vari motivi: l'emarginazione indica proprio questa condizione. Come si vede, quindi, il margine, anche senza arrivare a indicare un carattere di esclusione, fa pensare a un senso limitativo, soprattutto in riferimento a un centro o a un fenomeno che è centrale, nel senso che occupa il centro.
Se Derrida sceglie quindi come titolo del libro del 1972 Marges de la philosophie, bisogna pensare che il suo discorso, anzi i suoi discorsi, perché il libro si compone soprattutto di conferenze del 1967, 1968 e 1971 rielaborate, non intendono entrare nel cuore, o al centro della tradizione filosofica per continuarla dall'interno, ma semmai porsi ai suoi confini. Tra gli autori di riferimento ci sono Hegel, Nietzsche, Husserl, Heidegger e nei saggi raccolti nel libro Derrida si pone il problema della cultura filosofica francese, dell'esistenzialismo religioso e ateo, ma anche dello strutturalismo e della filosofia del linguaggio, del significato dell'antropologia ecc.
Il discorso (della filosofia) si è sempre rivolto al peras, al limite, anche al suo stesso limite. Scrive Derrida: "Era necessario che il suo proprio limite non gli restasse estraneo. Esso se ne è dunque appropriato il concetto, ha creduto di dominare il margine del suo volume e di pensare il suo altro" (J. Derrida, Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Torino, Einaudi 1997, p. 5). Ecco perché Derrida si concentra proprio sul margine, sul limite. Al saggio introduttivo, intitolato Timpano e che inizia con una triplice citazione di Hegel, la prima dalla Scienza della logica, le altre due dalla cosiddetta Differenzschrift, cioè la Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, seguono 10 scritti, il primo dei quali è particolarmente noto perché dedicato alla Différance, scritto con la a e non con la e (différence), in una trasformazione che non è udibile nella pronuncia ma è solo scritta. A questo seguono poi: Ousia e grammé. Nota su Sein und Zeit, Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, Fini dell'uomo, Il circolo linguistico di Ginevra, La forma e il voler-dire. Nota sulla fenomenologia del linguaggio, Il supplemento di copula. La filosofia innanzi la linguistica, La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico, Qual quelle. Le fonti di Valéry, Firma evento contesto. In quest'ultimo testo Derrida si confronta con Austin.
Se si vuole un'idea del carattere provocatorio di Marges de la philosophie, basta tener conto del fatto che Timpano presenta in ogni pagina in realtà due testi, uno in cui parla l'autore, mentre l'altro è un testo di Michel Leiris del 1948 tratto da Biffures, una parola plurale che significa 'cancellature', che però è stata lasciata in francese anche nel titolo della traduzione italiana. Derrida trova non solo un riferimento al timpano auricolare, o meglio alla sua fragilità, ma anche in Leiris l'associazione del margine al mistero: "Il mistero . . . può essere rappresentato come un margine, una frangia che circonda di un alone l'oggetto, isolandolo nel momento stesso in cui ne mette in rilievo la presenza" (Margini della filosofia, cit., pp. 20-21). "Se la filosofia – osserva ancora Derrida nel suo scritto – ha sempre inteso...tenersi in rapporto con il non-filosofico, o addirittura con l'antifilosofico, con le pratiche e i saperi, empirici o no, che costituiscono il suo altro...si può, in tutto rigore, stabilire un luogo non filosofico, un luogo di esteriorità o di alterità da cui si possa ancora trattare della filosofia? Questo luogo non sarà stato sempre già occupato da filosofia?... Detto altrimenti, si può lacerare il timpano di un filosofo e continuare a farsi intendere da lui?" (Margini della filosofia, cit., pp. 7-8). Nei dieci saggi che compongono il libro, Derrida intendeva proporre questioni marginali insieme con la questione stessa del margine che poteva resistere alla filosofia intesa come tradizione metafisica. Com'è stato osservato, si trattava di denunciare "la captazione del margine, inteso come singolarità, anomalia o alterità" (A. Bruzzone e P. Vignola, Margini della filosofia contemporanea, Salerno-Napoli, Orthotes Editrice 2013, p. 5).
La mostra di Eugenio Tibaldi mi pare che intenda essere, almeno nella parte relativa all'Architettura minima, "decostruttiva", per il fatto che, mentre fa di quella "architettura" un oggetto artistico, esponendone le fotografie, segue le scelte costruttive dei barboni napoletani, che però, ognuno a suo modo, si sono preparati i ricoveri notturni o anche diurni per vivere ai "margini" senza aggiungervi quel tocco di acrilico che è solo nelle fotografie e non nei giacigli reali.
La domanda è: quanto quel margine sia tale per l'esistenza della stessa civiltà urbana da cui il barbone vuol chiamarsi "fuori"; cioè quanto fuori è quel fuori.
Succede con la filosofia, ma succede anche con il sistema socio-culturale in cui si è di necessità inseriti. Il margine è anche il limite della filosofia rispetto a ciò che non è filosofico. La prospettiva generale dei Margini di Derrida era che il filosofo <<intende[va] decostruire il logocentrismo e la metafisica della presenza partendo da ciò che la tradizione individua come una esteriorità, un supporto empirico e supplementare, ossia la scrittura; in questo modo, l'obiettivo strategico della decostruzione [era] far valere l'istanza di ciò che è tenuto "fuori" dal senso o dallo statuto del logos, quindi separato dal "voler dire" come significato o pura espressione . . . Ad esser decostruito, infatti, è sempre il processo di esclusione di uno dei valori contrari; in tal senso, l'opposizione interiorità/esteriorità, cioè del dentro e del fuori, è filosoficamente la prima, ossia quella a partire dalla quale vengono a strutturarsi tutte le altre: "affinché questi valori contrari (bene/male, vero/ falso, essenza/apparenza, dentro/fuori, ecc.) possano opporsi, bisogna che ciascuno dei termini sia semplicemente esterno all'altro, cioè che una delle opposizioni (dentro/fuori) sia già accreditata come la matrice di ogni opposizione possibile">> (P. Vignola, Ai margini dell'abisso. Una villeggiatura (im)possibile per la filosofia contemporanea, in Margini della filosofia contemporanea, cit., p. 428; la citazione finale è di un passo del libro di Derrida, ugualmente uscito nel 1972, intitolato La Dissémination).
È appunto del rapporto tra la filosofia e il suo fuori che si occupa la decostruzione. "A quali condizioni allora si potrebbe marcare, per un filosofema in generale, un limite, marcare un margine che esso non possa all'infinito riappropriare a sé, concepire come suo, generando e internando in anticipo il processo della sua espropriazione (ancora, sempre Hegel), procedendo da sé alla sua inversione?" (Margini della filosofia, cit., p. 11). Continuiamo a leggere Derrida per avere occasione anche di metterne in rilievo lo stile: "Le analisi che si concatenano in questo libro...vorrebbero ...adoperarsi a interrogare, allo scopo di trasformarne e spostarne l'enunciato, i presupposti della domanda, l'istituzione del suo protocollo, le leggi della sua procedura, i titoli della sua pretesa omogeneità, della sua apparente unicità: si può trattare della filosofia (la metafisica, cioè l'onto-teologia) senza farsi già dettare, con questa pretesa all'unità e all'unicità, la totalità inespugnabile e imperiale di un ordine? Se ci sono dei margini, c'è ancora una filosofia, la filosofia?" (ivi, p. 12). Il fatto è che "fintanto che non si sarà distrutto fin il concetto filosofico di dominio, tutte le libertà che si affermerà di prendersi rispetto all'ordine filosofico continueranno ad essere manovrate a tergo da macchine filosofiche misconosciute, secondo i casi, per diniego o per precipitazione, per ignoranza o per stupidità" (ivi, p. 18). Gli scritti di Derrida <<interrogano la filosofia al di là del suo voler-dire, non la trattano solamente come un discorso: ma come un testo determinato, inscritto in un testo generale, racchiuso nella rappresentazione del suo proprio margine. Il che obbliga non solo a tener conto di tutta la logica del margine, ma a tenerne un tutt'altro conto: senza dubbio, a ricordare che al di là del testo filosofico, non c'è un margine bianco, vergine, vuoto, ma un altro testo...ma anche che il testo scritto della filosofia (questa volta nei suoi libri) trabocca gli argini del suo senso e lo fa esplodere>> (ivi, pp. 19-20). Allora il problema dei Margini coincide con il problema della decostruzione: <<Ciò non implica solo riconoscere che il margine sta dentro e fuori. Anche la filosofia lo dice: dentro perché il discorso filosofico intende conoscere e dominare il suo margine, definire la linea, inquadrare la pagina, invilupparla nel suo volume. Fuori perché il margine, il suo margine, il suo fuori sono vuoti, sono fuori: negativo di cui non si saprebbe cosa fare, negativo senza effetto nel testo o negativo che lavora al servizio del senso, margine rilevato (aufgehobene) nella dialettica del Libro. Non si sarà dunque detto nulla, e in ogni caso non si sarà fatto nulla dichiarando "contro" la filosofia o "a proposito della" filosofia che il suo margine è dentro o fuori, dentro e fuori, è ad un tempo l'irregolarità dei suoi spaziamenti interni e la regolarità del suo bordo. Bisognerebbe...spostare l'inquadratura scelta dalla filosofia per i suoi propri tipi. Scrivere altrimenti" (ivi, pp. 19-21). Quest'ultima affermazione è significativa giacché Derrida trova in Heidegger un filosofo di riferimento e si sa come la seconda parte di Essere e tempo sia naufragata proprio sul linguaggio. Mettere la propria pratica filosofica ai margini della filosofia significa anche, come è stato osservato, generare sempre nuovi margini della filosofia. <<È dunque il margine, come limite al tempo stesso del fuori e del dentro, vale a dire del fuori e della filosofia, il necessario elemento mobile, aleatorio, letteralmente privo di sostegno metafisico, per l'invenzione di significanti inediti (o inaudibili, come la différance) e funzionali alla decostruzione delle altre coppie oppositive . . . In altre parole, seguendo la logica derridiana dei margini, non è possibile, per uno o più pensatori, distruggere la ragione – se per distruggere si intende un'attività del soggetto nei confronti di un oggetto –, poiché essa, la ragione, è sempre inestricabile dall'irrazionalità e, in tal senso, risulta in fase continua di decostruzione, indipendentemente dalle intenzioni, dagli obiettivi, dai risultati o dagli errori di questo o quel filosofo" (P. Vignola, Ai margini dell'abisso, cit., pp. 431-432).
Cos'è dunque la decostruzione? Diciamo che conoscere le condizioni che stanno alla base di un qualche tipo di comunicazione (come per esempio quella cinematografica: si ricordi la locomotiva dei fratelli Lumière) è già qualcosa di paragonabile al risultato di una decostruzione. Bisogna diffidare della semplicità, perché può essere anche ideologica. Pertanto il compito del filosofo decostruzionista è nel "far vedere che cosa c'è dietro", cioè rendere più complicate le cose. A tale operazione è annessa una crescita di consapevolezza.
Se l'origine della decostruzione e dell'influenza derridiana negli Stati Uniti si deve alla conferenza del 1966 La struttura, il segno, il gioco nel discorso delle scienze umane, tenuta in un convegno alla John Hopkins University di Baltimora alla presenza di Jean Hippolite, Roland Barthes, Jean-Pierre Vernant e Jacques Lacan, essa avviene in nome di una libera interpretazione dei significati prodotti dalle costruzioni metafisiche. Il che richiama la "scuola del sospetto" individuata da Paul Ricoeur (Marx, Nietzsche e Freud): l'azione di questi ultimi filosofi fu di smascheramento, facendo comprendere l'origine dell'alienazione economica, della morale o il rapporto tra il conscio e l'inconscio. Il guardare con sospetto alla tradizione filosofica accomuna Derrida ai maggiori filosofi francesi suoi contemporanei. Non si dimentichi il suo impegno, alla fine degli anni Settanta, per la convocazione degli "Stati generali della filosofia" in favore del suo insegnamento nelle scuole secondarie francesi.
Decostruire vuol dire, quindi, far vedere che cosa c'è dietro le grandi gerarchie stabilite e come ciò che appare antitetico sia complementare. In connessione con ciò si pongono altre caratteristiche della filosofia di Derrida, tra cui soprattutto la riflessione sulla scrittura. Il suo libro di riferimento è De la grammatologie del 1967 (tradotto in Italia nel 1969), che esce lo stesso anno de L'écriture et la difference (traduzione italiana del 1971) e de La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl (primo ad essere stato tradotto in italiano, nel 1968). In questa attenzione alla scrittura, Derrida è stato profetico: la scrittura, pur essendo qualcosa di molto antico, si è imposta nell'attualità, perché la scrittura è servita e serve all'uomo per superare l'angoscia derivante dalla consapevolezza del dover morire. A tal proposito rimando al lavoro di Maurizio Ferraris, che è stato amico di Derrida e con lui ha anche pubblicato dei libri. Sua è l'Introduzione laterziana del 2003. Lasciare delle tracce, dunque, significa porre un qualche limite alla essenziale caducità dell'essere umano. Se la filosofia è come una cartolina postale, che, al contrario delle normali cartoline, deve continuare il suo infinito viaggio, la registrazione non è un accessorio ma fa parte integrante dell'idea!
Vivere in un'Unità architettonica minima significa non essere inseriti nella società, ma essere con essa in un rapporto di margine.
Questa situazione sociale, riportata all'interno della mostra, mi ha suggerito che l'atteggiamento del filosofo Derrida nei confronti della tradizione filosofica occidentale è stato un po' simile e che la decostruzione può aiutarci a spiegare perché ci sembra irrazionale scegliere di vivere e dormire ai margini della società, cioè semplicemente nelle strade delle città.
Il secondo motivo che mi ha indotto a pensare a Derrida è stato il fatto che egli stesso ha scritto un libro in cui si è occupato di pittura: si intitola La verité en peinture, pubblicato da Flammarion nel 1978 e tradotto in italiano per Newton Compton nel 1981.
Il terzo motivo è dato dall'amicizia di Derrida con due pittori, che sono ancora viventi. Uno è italiano, nato a Bologna: si chiama Valerio Adami (del 1935), un artista che invitò Derrida a tenere dei seminari sul Lago Maggiore e nell'Isola di San Giulio nel lago Orta, in Piemonte. L'ultimo seminario, dedicato a "Vedere e pensare", si svolse nel 2002 proprio in quest'ultima sede. Adami ha anche eseguito, nel suo stile, un ritratto del filosofo. L'altro pittore è Gerard Titus-Carmel (1942), le cui opere sono presenti al Centre Pompidou di Parigi.
Ultima ragione, ma sicuramente la più importante, è che nel 1972 Derrida pubblicò presso Minuit un libro intitolato Marges de la philosophie, quindi con un esplicito riferimento ai "margini".
Prima di entrare nel libro, definiamo il concetto di margine. Margine è la parte estrema di una superficie, la parte bianca di una pagina scritta, ma si dice anche di altro. Dal latino margo-marginis deriva il verbo marginare e da esso marginatore e marginatura. Essere al margine o ai margini significa essere in una posizione di confine, di limite. Si usa anche dire in margine a . . . col significato di in merito a qualcosa, anche se relativamente ad aspetti secondari. Si chiama margine anche tutto quello che si può considerare in più rispetto a un certo limite, come quando diciamo "lasciare un margine di libertà", oppure "assicurarsi margini di profitto". Si può avere in senso politico e sindacale un "margine di manovra" e c'è inoltre una teoria economica chiamata marginalismo, che genera l'aggettivo marginalistico. Anticamente si chiamava margine il segno di una ferita rimarginata. Rammarginare si usava anticamente al posto di rimarginare, col significato di saldare insieme i margini di una ferita, anche in senso figurato. Dal sostantivo margine deriva l'aggettivo marginale, che vuol dire del margine, o che è al margine, o che costituisce un margine. La marginalità indica proprio questo essere al margine o un margine. Nelle scienze sociali si parla di condizione marginale, che è tipica di chi vive effetti di fenomeni di emarginazione o di marginalizzazione a seguito di esclusione da certi livelli di consumi o stati sociali. Sono inoltre marginali quei gruppi o popolazioni nomadi (pensiamo agli aborigeni australiani) che vivono in luoghi inospitali per sottrarsi al dominio di popoli sedentari. Ma anche gli zingari nomadi sono in tal senso marginali. Il nostro verbo emarginare è un calco del francese émarger (che deriva da marge). Si usa correntemente per indicare proprio l'azione di esclusione, ma ha anche un significato positivo e burocratico, quando si usa per indicare che si sono segnati sui margini di certi documenti gli elementi utili al loro disbrigo: in tal caso mettere al margine non è usato nel significato di escludere, di impedire a qualcuno di agire in modo politicamente o culturalmente influente su altri. Sta di fatto che l'essere o il sentirsi emarginato può avvenire frequentemente per vari motivi: l'emarginazione indica proprio questa condizione. Come si vede, quindi, il margine, anche senza arrivare a indicare un carattere di esclusione, fa pensare a un senso limitativo, soprattutto in riferimento a un centro o a un fenomeno che è centrale, nel senso che occupa il centro.
Se Derrida sceglie quindi come titolo del libro del 1972 Marges de la philosophie, bisogna pensare che il suo discorso, anzi i suoi discorsi, perché il libro si compone soprattutto di conferenze del 1967, 1968 e 1971 rielaborate, non intendono entrare nel cuore, o al centro della tradizione filosofica per continuarla dall'interno, ma semmai porsi ai suoi confini. Tra gli autori di riferimento ci sono Hegel, Nietzsche, Husserl, Heidegger e nei saggi raccolti nel libro Derrida si pone il problema della cultura filosofica francese, dell'esistenzialismo religioso e ateo, ma anche dello strutturalismo e della filosofia del linguaggio, del significato dell'antropologia ecc.
Il discorso (della filosofia) si è sempre rivolto al peras, al limite, anche al suo stesso limite. Scrive Derrida: "Era necessario che il suo proprio limite non gli restasse estraneo. Esso se ne è dunque appropriato il concetto, ha creduto di dominare il margine del suo volume e di pensare il suo altro" (J. Derrida, Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Torino, Einaudi 1997, p. 5). Ecco perché Derrida si concentra proprio sul margine, sul limite. Al saggio introduttivo, intitolato Timpano e che inizia con una triplice citazione di Hegel, la prima dalla Scienza della logica, le altre due dalla cosiddetta Differenzschrift, cioè la Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, seguono 10 scritti, il primo dei quali è particolarmente noto perché dedicato alla Différance, scritto con la a e non con la e (différence), in una trasformazione che non è udibile nella pronuncia ma è solo scritta. A questo seguono poi: Ousia e grammé. Nota su Sein und Zeit, Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, Fini dell'uomo, Il circolo linguistico di Ginevra, La forma e il voler-dire. Nota sulla fenomenologia del linguaggio, Il supplemento di copula. La filosofia innanzi la linguistica, La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico, Qual quelle. Le fonti di Valéry, Firma evento contesto. In quest'ultimo testo Derrida si confronta con Austin.
Se si vuole un'idea del carattere provocatorio di Marges de la philosophie, basta tener conto del fatto che Timpano presenta in ogni pagina in realtà due testi, uno in cui parla l'autore, mentre l'altro è un testo di Michel Leiris del 1948 tratto da Biffures, una parola plurale che significa 'cancellature', che però è stata lasciata in francese anche nel titolo della traduzione italiana. Derrida trova non solo un riferimento al timpano auricolare, o meglio alla sua fragilità, ma anche in Leiris l'associazione del margine al mistero: "Il mistero . . . può essere rappresentato come un margine, una frangia che circonda di un alone l'oggetto, isolandolo nel momento stesso in cui ne mette in rilievo la presenza" (Margini della filosofia, cit., pp. 20-21). "Se la filosofia – osserva ancora Derrida nel suo scritto – ha sempre inteso...tenersi in rapporto con il non-filosofico, o addirittura con l'antifilosofico, con le pratiche e i saperi, empirici o no, che costituiscono il suo altro...si può, in tutto rigore, stabilire un luogo non filosofico, un luogo di esteriorità o di alterità da cui si possa ancora trattare della filosofia? Questo luogo non sarà stato sempre già occupato da filosofia?... Detto altrimenti, si può lacerare il timpano di un filosofo e continuare a farsi intendere da lui?" (Margini della filosofia, cit., pp. 7-8). Nei dieci saggi che compongono il libro, Derrida intendeva proporre questioni marginali insieme con la questione stessa del margine che poteva resistere alla filosofia intesa come tradizione metafisica. Com'è stato osservato, si trattava di denunciare "la captazione del margine, inteso come singolarità, anomalia o alterità" (A. Bruzzone e P. Vignola, Margini della filosofia contemporanea, Salerno-Napoli, Orthotes Editrice 2013, p. 5).
La mostra di Eugenio Tibaldi mi pare che intenda essere, almeno nella parte relativa all'Architettura minima, "decostruttiva", per il fatto che, mentre fa di quella "architettura" un oggetto artistico, esponendone le fotografie, segue le scelte costruttive dei barboni napoletani, che però, ognuno a suo modo, si sono preparati i ricoveri notturni o anche diurni per vivere ai "margini" senza aggiungervi quel tocco di acrilico che è solo nelle fotografie e non nei giacigli reali.
La domanda è: quanto quel margine sia tale per l'esistenza della stessa civiltà urbana da cui il barbone vuol chiamarsi "fuori"; cioè quanto fuori è quel fuori.
Succede con la filosofia, ma succede anche con il sistema socio-culturale in cui si è di necessità inseriti. Il margine è anche il limite della filosofia rispetto a ciò che non è filosofico. La prospettiva generale dei Margini di Derrida era che il filosofo <<intende[va] decostruire il logocentrismo e la metafisica della presenza partendo da ciò che la tradizione individua come una esteriorità, un supporto empirico e supplementare, ossia la scrittura; in questo modo, l'obiettivo strategico della decostruzione [era] far valere l'istanza di ciò che è tenuto "fuori" dal senso o dallo statuto del logos, quindi separato dal "voler dire" come significato o pura espressione . . . Ad esser decostruito, infatti, è sempre il processo di esclusione di uno dei valori contrari; in tal senso, l'opposizione interiorità/esteriorità, cioè del dentro e del fuori, è filosoficamente la prima, ossia quella a partire dalla quale vengono a strutturarsi tutte le altre: "affinché questi valori contrari (bene/male, vero/ falso, essenza/apparenza, dentro/fuori, ecc.) possano opporsi, bisogna che ciascuno dei termini sia semplicemente esterno all'altro, cioè che una delle opposizioni (dentro/fuori) sia già accreditata come la matrice di ogni opposizione possibile">> (P. Vignola, Ai margini dell'abisso. Una villeggiatura (im)possibile per la filosofia contemporanea, in Margini della filosofia contemporanea, cit., p. 428; la citazione finale è di un passo del libro di Derrida, ugualmente uscito nel 1972, intitolato La Dissémination).
È appunto del rapporto tra la filosofia e il suo fuori che si occupa la decostruzione. "A quali condizioni allora si potrebbe marcare, per un filosofema in generale, un limite, marcare un margine che esso non possa all'infinito riappropriare a sé, concepire come suo, generando e internando in anticipo il processo della sua espropriazione (ancora, sempre Hegel), procedendo da sé alla sua inversione?" (Margini della filosofia, cit., p. 11). Continuiamo a leggere Derrida per avere occasione anche di metterne in rilievo lo stile: "Le analisi che si concatenano in questo libro...vorrebbero ...adoperarsi a interrogare, allo scopo di trasformarne e spostarne l'enunciato, i presupposti della domanda, l'istituzione del suo protocollo, le leggi della sua procedura, i titoli della sua pretesa omogeneità, della sua apparente unicità: si può trattare della filosofia (la metafisica, cioè l'onto-teologia) senza farsi già dettare, con questa pretesa all'unità e all'unicità, la totalità inespugnabile e imperiale di un ordine? Se ci sono dei margini, c'è ancora una filosofia, la filosofia?" (ivi, p. 12). Il fatto è che "fintanto che non si sarà distrutto fin il concetto filosofico di dominio, tutte le libertà che si affermerà di prendersi rispetto all'ordine filosofico continueranno ad essere manovrate a tergo da macchine filosofiche misconosciute, secondo i casi, per diniego o per precipitazione, per ignoranza o per stupidità" (ivi, p. 18). Gli scritti di Derrida <<interrogano la filosofia al di là del suo voler-dire, non la trattano solamente come un discorso: ma come un testo determinato, inscritto in un testo generale, racchiuso nella rappresentazione del suo proprio margine. Il che obbliga non solo a tener conto di tutta la logica del margine, ma a tenerne un tutt'altro conto: senza dubbio, a ricordare che al di là del testo filosofico, non c'è un margine bianco, vergine, vuoto, ma un altro testo...ma anche che il testo scritto della filosofia (questa volta nei suoi libri) trabocca gli argini del suo senso e lo fa esplodere>> (ivi, pp. 19-20). Allora il problema dei Margini coincide con il problema della decostruzione: <<Ciò non implica solo riconoscere che il margine sta dentro e fuori. Anche la filosofia lo dice: dentro perché il discorso filosofico intende conoscere e dominare il suo margine, definire la linea, inquadrare la pagina, invilupparla nel suo volume. Fuori perché il margine, il suo margine, il suo fuori sono vuoti, sono fuori: negativo di cui non si saprebbe cosa fare, negativo senza effetto nel testo o negativo che lavora al servizio del senso, margine rilevato (aufgehobene) nella dialettica del Libro. Non si sarà dunque detto nulla, e in ogni caso non si sarà fatto nulla dichiarando "contro" la filosofia o "a proposito della" filosofia che il suo margine è dentro o fuori, dentro e fuori, è ad un tempo l'irregolarità dei suoi spaziamenti interni e la regolarità del suo bordo. Bisognerebbe...spostare l'inquadratura scelta dalla filosofia per i suoi propri tipi. Scrivere altrimenti" (ivi, pp. 19-21). Quest'ultima affermazione è significativa giacché Derrida trova in Heidegger un filosofo di riferimento e si sa come la seconda parte di Essere e tempo sia naufragata proprio sul linguaggio. Mettere la propria pratica filosofica ai margini della filosofia significa anche, come è stato osservato, generare sempre nuovi margini della filosofia. <<È dunque il margine, come limite al tempo stesso del fuori e del dentro, vale a dire del fuori e della filosofia, il necessario elemento mobile, aleatorio, letteralmente privo di sostegno metafisico, per l'invenzione di significanti inediti (o inaudibili, come la différance) e funzionali alla decostruzione delle altre coppie oppositive . . . In altre parole, seguendo la logica derridiana dei margini, non è possibile, per uno o più pensatori, distruggere la ragione – se per distruggere si intende un'attività del soggetto nei confronti di un oggetto –, poiché essa, la ragione, è sempre inestricabile dall'irrazionalità e, in tal senso, risulta in fase continua di decostruzione, indipendentemente dalle intenzioni, dagli obiettivi, dai risultati o dagli errori di questo o quel filosofo" (P. Vignola, Ai margini dell'abisso, cit., pp. 431-432).
Cos'è dunque la decostruzione? Diciamo che conoscere le condizioni che stanno alla base di un qualche tipo di comunicazione (come per esempio quella cinematografica: si ricordi la locomotiva dei fratelli Lumière) è già qualcosa di paragonabile al risultato di una decostruzione. Bisogna diffidare della semplicità, perché può essere anche ideologica. Pertanto il compito del filosofo decostruzionista è nel "far vedere che cosa c'è dietro", cioè rendere più complicate le cose. A tale operazione è annessa una crescita di consapevolezza.
Se l'origine della decostruzione e dell'influenza derridiana negli Stati Uniti si deve alla conferenza del 1966 La struttura, il segno, il gioco nel discorso delle scienze umane, tenuta in un convegno alla John Hopkins University di Baltimora alla presenza di Jean Hippolite, Roland Barthes, Jean-Pierre Vernant e Jacques Lacan, essa avviene in nome di una libera interpretazione dei significati prodotti dalle costruzioni metafisiche. Il che richiama la "scuola del sospetto" individuata da Paul Ricoeur (Marx, Nietzsche e Freud): l'azione di questi ultimi filosofi fu di smascheramento, facendo comprendere l'origine dell'alienazione economica, della morale o il rapporto tra il conscio e l'inconscio. Il guardare con sospetto alla tradizione filosofica accomuna Derrida ai maggiori filosofi francesi suoi contemporanei. Non si dimentichi il suo impegno, alla fine degli anni Settanta, per la convocazione degli "Stati generali della filosofia" in favore del suo insegnamento nelle scuole secondarie francesi.
Decostruire vuol dire, quindi, far vedere che cosa c'è dietro le grandi gerarchie stabilite e come ciò che appare antitetico sia complementare. In connessione con ciò si pongono altre caratteristiche della filosofia di Derrida, tra cui soprattutto la riflessione sulla scrittura. Il suo libro di riferimento è De la grammatologie del 1967 (tradotto in Italia nel 1969), che esce lo stesso anno de L'écriture et la difference (traduzione italiana del 1971) e de La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl (primo ad essere stato tradotto in italiano, nel 1968). In questa attenzione alla scrittura, Derrida è stato profetico: la scrittura, pur essendo qualcosa di molto antico, si è imposta nell'attualità, perché la scrittura è servita e serve all'uomo per superare l'angoscia derivante dalla consapevolezza del dover morire. A tal proposito rimando al lavoro di Maurizio Ferraris, che è stato amico di Derrida e con lui ha anche pubblicato dei libri. Sua è l'Introduzione laterziana del 2003. Lasciare delle tracce, dunque, significa porre un qualche limite alla essenziale caducità dell'essere umano. Se la filosofia è come una cartolina postale, che, al contrario delle normali cartoline, deve continuare il suo infinito viaggio, la registrazione non è un accessorio ma fa parte integrante dell'idea!
Vivere in un'Unità architettonica minima significa non essere inseriti nella società, ma essere con essa in un rapporto di margine.
[1] Questo breve testo è stato elaborato in occasione di un intervento, il 24 febbraio 2019, richiestomi come contributo di riflessione filosofica sulla mostra "Più là che Abruzzi" di Eugenio Tibaldi, curata da Simone Ciglia ed esposta nel Museo Michetti di Francavilla al Mare dal 27 gennaio al 10 marzo 2019.